Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

vedi Blog dell’Autore http://pollicinoeraungrande.wordpress.com/

 

Non voglio raggiungere l’immortalità con il mio lavoro. Voglio arrivarci non morendo. (Woody Allen)

Lavorare può far male. Può uccidere. Nei giorni appena passati, la Londra della finanza ha perso in poco tempo ben 3 uomini. Non si dice ancor apertamente ma si pensa al suicidio. Uomini giovani, con belle carriere, in continua promozione, dirigenti di banche o di grandi aziende, ritenuti persone piacevoli, vincenti che  (potete leggere qui l’articolo di Repubblica del  31/01/2014).Uomini che “tutti vorrebbero essere come loro”. Uomini con la giacca giusta e lo sguardo feroce, capaci nella competizione, che non temono i ritmi impossibili, che sanno reggere la tensione continua a cui si devono sottoporre per arrivare a quei fantastici guadagni che la finanza promette e mantiene. Ma non sempre benessere economico e benessere psichico combaciano. Si fa sempre più strada il dubbio sul prezzo da pagare, troppo alto. Un malessere diffuso si aggira tra i volti tirati a lucido del personale di molte grandi banche, di quelli che vivono ogni giorno salendo e scendendo come le azioni che vendono.

Lo stress sul lavoro c’è sempre, ma un lavoro dove la tensione è sempre altissima, dove i soldi girano vorticosi e dove la competizione è folle può portare con sé aggravanti e pericoli numerosi che possono unirsi poi a difficoltà pregresse. Pensiamo allo stagista di soli 21 anni, morto giovanissimo ad agosto 2013,  dopo 72 ore di lavoro, una dopo l’altra,  alla sua scrivania. Se da una parte viene facile dire che sono i luoghi di lavoro, le banche e gli uffici a doversi prendere la responsabilità di non far correre questi rischi ai lavoratori, stiamo guardando il tutto da una prospettiva limitata. Perché sono spesso gli stessi lavoratori a pretendere da sé stessi troppo, loro i primi a voler dimostrare una resistenza, una capacità e una forza che non sempre posseggono per intero.

Perchè?

In parte per la pressione psicologica di cui sono ammantati questi luoghi di lavoro, per cui il lavoratore arriva a convincersi che deve fare la cosa giusta, cioè sacrificare tutto il possibile per la sua azienda. Inoltre lo stress in questi casi non solo si vive durante il lavoro e negli spazi dove si lavora, si porta a casa, fa compagnia già durante il tragitto casa-ufficio. Arrivare prima, correre, pensare sempre e solo al lavoro porta anche ad una maggiore incidenza di incidenti di vario tipo. Non solo per evitare ripercussioni o per non farsi licenziare ma per eccellere, per dimostrare a tutti di essere un vincente. Finché tutta la propria esistenza viene riempita dal solo lavoro e da quanto significa, dimenticandosi del resto, fino a ché non sia impossibile trovare neppure il tempo per una visita medica, tralasciando quindi la salute e il proprio benessere.

Dal Giappone arriva un termine preciso per questo tipo di morte: viene definita Karoshi. Con questa parola si intende proprio la “morte da lavoro eccessivo”.

Sono molte le patologie che possono portare alla morte per troppo lavoro. Si parla di infarti, ictus, emorragie, disturbi cardiaci che portano anche a morti improvvise o, come sembrerebbe, suicidi. La storia del Karoshi inizia nel 1969, la vittima era un impiegato nel ramo delle spedizioni ma il termine è diventato tristemente noto dagli anni ’90 sebbene il primo testo sul tema, dal titolo proprio di “Karoschi” fosse andato in stampa nel 1982.

Dopo i primi decessi e dopo le prime ricerche sui luoghi di lavoro, molte aziende  hanno fatti piccoli passi per limitare la presenza sul luogo di lavoro specie per i più giovani. Anche perché ai fini produttivi, un numero eccessivo di dipendenti stressati o malati, significa meno risultati, più assenze, dover preparare sempre nuove risorse, una peggiore qualità sul luogo di lavoro, meno energie fresche capaci di avere idee creative, meno potenziale innovativo, meno soddisfazione dei lavoratori e una immagine aziendale sempre meno sfavillante e vincente. Questo è un prezzo che una Azienda di un certo calibro non può permettersi. Le performance devono rispettare dei criteri e dei canoni e un dipendente stanco e stressato non produce come dovrebbe.

Disagio sul lavoro e malessere organizzativo devono essere presi seriamente quindi da entrambi i punti di vista, dalla parte del datore di lavoro e dalla parte del lavoratore. Un peggiorare della situazione è troppo pericoloso in termini di produzione e di umanità. Il lavoro non deve essere una arma carica che il lavoratore si trova ad usare contro se stesso. Il troppo lavoro deve trovare il suo limite e deve essere combattuto per il benessere di tutta la comunità prima ancora che per il singolo e la sua famiglia. L’8 ottobre 2004 è stato redatto un “Accordo Quadro Europeo sullo stress lavoro-correlato” nato dal bisogno di  “aumentare la consapevolezza e la comprensione di imprenditori, lavoratori e loro rappresentanti sulla questione dello stress lavoro – correlato” vista la preoccupazione in merito al tema da parte di  sindacati confederazioni di esercenti, commercianti agricoltori. Qui lo stress lavoro correlato veniva definito come “condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro”.

Si pensano soluzioni possibili ad alleviare la fatica e lo stress andando incontro alle esigenze di chi ha necessità particolari (figli, anziani a cui badare etc) con una serie di “Buone Prassi”come la possibilità del telelavoro, quindi da casa, la riduzione degli straordinari e la realizzazione di orari più morbidi a secondo delle necessità. Ma non si tratta solo di un discorso di sicurezza, di cui i datori di lavoro devono certamente occuparsi, valutando i rischi per i lavoratori e salvaguardando il loro benessere psicofisico. Non solo è necessaria la consapevolezza della gravità del problema di cui stiamo portando, ma è fondamentale che siano gli stessi lavoratori a ristabilire un equilibrio in quanto è veramente importante nelle loro vite, quanto è lecito chiedere e dare al lavoro, ricollocando il ruolo del lavoro nella propria vita.