Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

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Esistere significa “poter scegliere”; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensí la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza, ma il suo permanente dramma. Infatti egli si trova sempre di fronte all’alternativa di una “possibilità che sí” e di una “possibilità che no” senza possedere alcun criterio di scelta.
Søren KierkegaardAut-Aut, 1843

Due mostri ci inseguono e spesso ci braccano. Uno parla il linguaggio dell’immagine, l’altro quello della velocità, velocità nell’essere presente, nel prendere decisioni senza averle fatte davvero. Tutto deve essere Ora.

Entrambi ci raccontano del bisogno di esserci, di sentirsi presenti, di fare parte di qualcosa. Bisogni fondamentali che hanno reso però, fragili e spesso arresi. Arresi a prendere per buono il tono di voce che sembra dirla meglio e non quello che dice la verità. Avere una propria opinione, accettando anche sia “difettosa” ma genuina, diventa sempre meno frequente. Meglio prendere le cose confezionate, già pronte e sentire di essere con gli altri. Dalla propria immagine, che nutriamo dei “like” altrui e sempre meno della nostra auto-accettazione, alle piccole scelte quotidiane, su cosa scegliere, leggere, mangiare, credere.

Partiamo dal ruolo dell’immagine di questi tempi, immagine che diventa sempre più “tutto”. La velocità con cui le tecnologie “migliorano” e le mode cambiano a mala pena ci permettono di pensare cosa potrebbe accadere ed è già accaduto. La mania per i Selfie, lo scatto che immortala chi lo fa, usando per lo piùsmartphone e I-Phone, è stata talmente capillare da essere stata “premiata” come la parola del 2013 ( Corriere) e da vedere protagonisti i soliti divi ma non solo. Il Selfie è il segno di un passaggio, è dire ci sono, imprimere la propria immagine e condividerla con la rete, i social, il mondo. Ma non è innocuo come potrebbe sembrare.

Se Gunter Grass, scriveva nel suo capolavoro, Il Tamburo di Latta, “Che cos’altro al mondo, quale romanzo avrebbe mai l’epico respiro di un album di fotografie? ora la storia è diversa. Perchè se prima le foto erano momenti pensati, scattati prima con il cuore che con la macchina, erano momenti che altrimenti si sarebbero persi, preziosi nella loro unicità perchè rari, ora la foto è ovunque, si fotografa talmente che non si ricorda nulla, non si vede niente e nessuno se non nel riflesso che lascia impresso nella foto. Certo, la foto resta la prigione di un attimo ma un attimo che non viene più visto come ricordo, ma per lo più come immagine da presentare al mondo, “Questo sono io! Amatemi come io non riesco” chiediamo di continuo. 

Danny Bowman ci racconta una storia di selfie allo stemo. Danny è un ragazzo di soli 19 anni che, per moltissimo tempo, ha impiegato 10 ore al giorno alla ricerca dello scatto perfetto, del Selfie capace di immortale la migliore delle sue immagini. 200 immagini giorno dopo giorno, fino alla malattia, alla depressione, fino ad attentare alla sua stessa vita. Tutto per lui è iniziato quattro anni fa, partendo dal desiderio di diventare modello fino alla dipendenza da Selfie che ne ha ossessionato la vita in questi ultimi tempi. In un articolo sul Mirror, che non è  comunque un gionale scientifico, dice “Ero costantemente alla ricerca del Selfie perfetto e quando mi sono accorto che non ci sarei riuscito, volevo morire. Ho perso i miei amici, la mia educazione, la mia salute e quasi la mia vita”(trad.della scrivente). Ora i suoi quindici minuti di notorietà li ha ottenuti come guerriero in cerca di recuperare se stesso.

Tragica storia quella di Danny, che porta a pensare al peso che l’apparire acquista sempre di più tra i bisogni dei ragazzi, certamente con una storia di mancata autostima e fatica a sentirsi individui in un mondo dove la personale immagine reale diventa sfumata, quanto conta è il sentimento e il riconoscimento che riesce a guadagnare la propria apparenza, il proprio illudersi immortale e perfetto agli occhi propri attraverso il compiacimento dell’altro. Un Selfie diventa quindi non solo lo scatto, il momento, il gioco ma il bisogno di essere e di restare che si imprime nella rete, che ci rimanda una immagine vincente, bella, piena e amata.  Viene in mente la Strega di Biancaneve, la Grimilde di cui torna a raccontarsi la storia in film recenti. La povera regina, era sì crudele ma perchè in gran parte ossessionata dalla sua bellezza e alla continua ricerca di conferme della sua esistenza e bellezza attraverso l’allora voce della rete, il suo Specchio Magico, unico capace di placare la sua ferita il suo bisogno.

 Citando Oscar Wilde nel “Il ritratto di Dorian Gray”, potremmo dire che però, in fondo, Solo i mediocri non giudicano dalle apparenze: il vero mistero del mondo è ciò che è visibile, non l’invisibile”. E cosa vediamo ? Persone che hanno bisogno di credere, che persa che è stata la molta della fede di altro genere, il bisogno è rimasto e parla il linguaggio della tecnologia, del Web. Ed ecco che stiamo dimenticando, in virtù di un sentimento di appartenenza che ci accomuna tutti, nel bene e nel male, il potere che abbiamo di definirci e scegliere senza seguire solo la strada data. 

Di cosa parlo? Sempre rispetto alla notizia di Danny, moltissimo è stato scritto rispetto ad una partecipazione dell’APA, (American Psychological Association) a segnalare questo primo caso di Dipendenza da Selfie e ad avvicinarlo al Disforfismo Corporeo, una forma di sofferenza e ansia che vive con estrema ansia la propria apparenza e il proprio corpo, una preoccupazione per difetti che possono anche non esistere ma sono vissuti con terribile difficoltà. Sembrerebbe, leggendo molti post, che APA abbia elaborato una scala capace di quantificare il livello di gravità (borderline, acuta e cronica) a seconda della quantità di foto e dell’uso che se ne fa. Uso il condizionale perchè a cercare Selfie sul sito dell’APA non si trova nulla e la notizia, a ben cercare, si scopre essere tratta dal sito AdoboChronicles, un sito dove, per loro stessa ammissione  “è tutto basato sui fatti, tranne per le bugie”. Insomma, si è urlato all’ennesima Sindrome impacchettata, la Selfite, senza un atteggiamento minimamente critico capace di cercare le nostre risposte, magari imprecise ma spinte da un autonomo desiderio di sapere.

Se qualcosa sembra diventare sempre più difficile è il sapere essere autonomi, capaci di scegliere e scegliersi e di costruire la propria immagine senza dover ricorrere a specchi magici per avere certezza della nostra bellezza.  Facciamo attenzione.

Pollicino:  I prigionieri di Selfie, “Like” e pensieri pensati da altri 

L’Orco : La paura di rendersi autonomi, il desiderio di appartenere spinto oltre il lecito

L’arma segreta : Riprendersi il  corpo insieme con le proprie scelte