Ricostruendo Harry

Ricostruendo Harry

Autore: Dott.ssa Luana Palermo

 

Ricostruendo Harry

Deve essere proprio così, a Woody Allen non riesce fare le cose semplici, è con la complessità che il regista newyorchese mostra di avere molta più dimestichezza e competenza. Sarà per questo che con il protagonista di Harry a pezzi (titolo originale Deconstructing Harry) pare dare il meglio di sé. Attraverso la pellicola risulta ancor più chiaro quanto sia rilevante la visuale dalla quale si guardano le cose, l’angolazione che permette di intuire e seguire la linea invisibile di un reale incalzante seppur sfuggente, in un equilibrio sempre più instabile man mano che ci si discosta. Così, lo stesso regista che, guardandola da Brooklyn, dipinse una Manhattan sognata e immaginata in bianco e nero, ora colloca lo spettatore ad osservare Harry Block, uno dei suoi personaggi più irrisolti, affascinanti e psicologicamente plausibili, dallo stesso punto di vista del suo analista (il sesto), zoomando su di lui con la cinepresa. Avvenuta questa ideale identificazione, ci si trova a contenere o ad essere travolti dalla piena del fiume di un animo a pezzi, disintegrato. Così, di fronte a un tipo dalle movenze caotiche, dall’eloquio spezzato, disorganizzato, colmo di mancate fluente e a tratti torrenziale e dirompente, già rapiti da qualcosa di lui, ci si potrebbe domandare che bambino sia stato Harry, come sia arrivato così e qui quest’uomo di successo, inquieto apparentemente solo per aver perso l’ispirazione (Harry: “Per la prima volta in vita mia ho avuto il blocco dello scrittore e questo per me è inaudito.. per me, lei lo sa, tutto quello che ho nella mia vita è la mia fantasia..”).

A questo iniziale interrogativo ne seguirebbero degli altri, cosa ha permesso finora ad Harry che questo non accadesse? Quali meccanismi ha messo in atto perché il suo percorso risultasse agibile fino a qui? Cosa gli ha consentito di rimanere in equilibrio lungo quella linea ideale, seppur conducendo un’esistenza confusa?

Converrebbe forse allora, per sciogliere l’intricato groviglio di tutti questi perché, partire da quello che è sempre il principio. Harry afferma di aver lottato per non nascere affatto, sua madre morì dandolo alla luce, suo padre non lo ha mai perdonato per questo (Harry: “..è buffo, avrei voluto prima che morisse perdonarlo io..”). Harry ha una sorella maggiore, Doris, la quale egli dice lo abbia aiutato a “superare l’infanzia” (Harry: “Eri una ragazzina dolce e meravigliosa.. e poi hai incontrato quel fanatico, quell’esaltato e lui ti ha riempito la testa di superstizioni..”). Doris è sposata con Burt (Doris: “Era una storia vergognosa, non ci vedi la tua concezione malata di mamma e papà?” Harry: “Ma l’ho scritta quando ero molto giovane..” Burt: “È solo la prima di molte altre sue opere di ingegno antisemita.” Harry: “Oh ecco, direttamente dal muro del pianto.”). Oggi Harry è uno scrittore di successo, ha un figlio di nove anni, Hilly, avuto dal matrimonio con la sua ex psicanalista prima ancora che ex moglie, Joan. In totale le sue ex mogli sono tre, tutte tradite. L’ultima delle quali, Jane, tradita con la sorella di lei, Lucy e poi entrambe tradite da Harry con una sua fan, Fay. Fay da fan è diventata convivente, poi ex fidanzata ed ora si sposerà con Larry, il giorno in cui è stata fissata una cerimonia in onore di Harry alla sua vecchia università.

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La Scoperta della Sordità di un Figlio all’Interno di una Famiglia Udente

Autore: Dott.ssa Simona Esposito

vedi Blog dell’Autore

“La cecità allontana le persone dalle cose;

 la sordità allontana le persone dalle

persone.” — Helen Keller

La nascita di un bambino sordo è un evento traumatico per la famiglia udente che, a differenza di quella sorda, non è minimamente preparata ad un’evenienza del genere. La grande difficoltà dei genitori è nel dover affrontare da soli tutte le problematiche che derivano dal deficit acustico, senza poter contare su veri e propri centri di consulenza che sappiano dare informazioni complete sui vari iter educativi e sulle scelte che si devono affrontare. Quindi non è facile affrontare le scelte educative riabilitative e sociali (Maragna 2000). Invece altri paesi come per esempio in USA, la famiglia viene per così dire presa in carico da un’istituzione di counseling e seguita anche con un supporto psicologico durante lo sviluppo evolutivo del bambino; di fatto viene aiutata nelle scelte cruciali (gli iter sopraccitati) che un genitore deve affrontare (Maragna, 2000).

La diagnosi di sordità genera nei genitori un grosso impatto emozionale. Di per se, prima della nascita di un individuo, all’interno della famiglia si costituisce un immagine anticipatrice, ossia una proiezione dei desideri genitoriali sul figlio che sarà; un esempio di questa immagine identificatrice e anticipatoria è quando i genitori manifestano la preferenza nella possibilità di avere un maschio o una femmina ma dopo nove mesi quando la speranza sarà disattesa si adegueranno al sesso del nascituro e non lo vestiranno con abiti tipici del sesso opposto per farlo crescere in base ai propri desideri. Ma accettare il deficit di sordità è un po’ diverso, considerando che la scoperta del deficit avviene solo dopo diversi mesi dal parto, i genitori dovranno dunque sostituire l’immagine perduta del bambino idealizzato con quella più attuale e realistica del bambino deficitario.

 Per fronteggiare questo disagio i genitori, e in particolare la madre mettono in atto, senza esserne consapevoli, una serie di meccanismi difensivi e di reazioni comportamentali che hanno la funzione di alleviare l’angoscia che la diagnosi di sordità può causare.
Con il termine meccanismo di difesa si intende una modalità con la quale gli individui tendono a contenere i sentimenti di angoscia (L’Io e i meccanismi di difesa, A. Freud, 1936).

Uno dei meccanismi di difesa che generalmente viene utilizzato è il diniego. Si manifesta soprattutto nella fase che precede la diagnosi definitiva e viene espresso attraverso la minimizzazione dei segnali di disagio del bambino (negazione del sintomo).

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Libro: Kafka sulla Spiaggia

vedi Sito Internet della Recensione

 

Kafka sulla spiaggia (Umibe no Kafuka) è un romanzo di Haruki Murakami. La prima edizione originale è stata pubblicata nel 2002. La traduzione italiana, effettuata da Giorgio Amitrano, è stata pubblicata da Einaudi nel 2008. Lo stile del romanzo è riconducibile al filone del genere chiamato “realismo magico”.

Il romanzo vede l’intrecciarsi di due storie parallele.

La prima è quella di Tamura Kafka, un quindicenne, abbandonato dalla madre all’età di quattro anni, che decide di scappare di casa il giorno del suo compleanno; decide di fuggire via da una profezia di tipo edipico, pronunciatagli dal padre: “ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella”. Tamura ha un alter ego, il ragazzo chiamato Corvo (un altro riferimento a Franz Kafka e al termine “cornacchia”, che in ceco si scrive kavka), il quale comunica spesso con lui telepaticamente. Kafka nella sua fuga si dirige verso lo Shikoku, e passa le giornate in una biblioteca privata di Takamatsu, la biblioteca Kōmura, dove conosce il bibliotecario factotum Ōshima, un personaggio che, nonostante le apparenze, si rivelerà essere una donna. Tra i due nasce un’amicizia disinteressata e Ōshima propone a Tamura di aiutarlo in biblioteca in cambio di ospitalità e di un piccolo salario. Coordinatrice della biblioteca è la signora Saeki, una donna non più giovane ma molto attraente, dal passato alquanto misterioso: da giovanissima era stata una cantautrice famosa grazie a una sola canzone da lei composta, dal titolo “Kafka sulla spiaggia”, ma poi scomparve dalle scene e si ritirò a vita privata. Tamura se ne innamora e crede di vedere in lei la propria madre e, nonostante la profezia dalla quale tenta di fuggire, ha con essa un rapporto d’amore.

La seconda vicenda è quella di Nakata, un vecchietto rimasto un po’ stupido a seguito di un misterioso incidente avuto da bambino: durante una gita di montagna con la scuola nel novembre del 1944, tutti i bambini cadono per alcuni minuti in un misterioso trance; solo Nakata non si svegliò che due settimane dopo. Questo incidente gli ha portato come conseguenza l’incapacità di leggere e scrivere, anche se nel corso della storia si verrà a conoscenza di svariate capacità paranormali di Nakata, come quella di parlare con i gatti. Un giorno, dopo che gli è affidato il compito di cercare la gatta Goma, si imbatte in uno strano personaggio di nome Johnnie Walker, che rapisce i gatti per ucciderli e rubare la loro anima: questi chiede a Nakata di ucciderlo, e in cambio lui la smetterà di torturare i gatti. Nakata, pur mantenendo la sua innocenza, lo uccide. Si consegna subito alla polizia, ma il giovane poliziotto di turno non gli crede. Nakata decide così di andare via dal suo luogo natio, Nakano, andando verso posti a lui sconosciuti, accompagnato dal giovane camionista Hoshino. Nakata non si allontana da Nakano per sfuggire alla polizia, ma perché sente di avere un compito da svolgere: così si ritrova a viaggiare verso lo Shikoku, e dopo svariate ricerche, giunge alla biblioteca Kōmura e incontra la signorina Saeki.

Anche se Tamura e Nakata non si incontrano mai, le loro vicende sono legate in maniera complessa da eventi fantastici e misteriose coincidenze, basate sul tema della memoria e dei ricordi.

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Film Novembre 2013: “Jobs”

Film Novembre 2013: “Jobs”

vedi Sito Internet della Recensione

Locandina Jobs
2001. Steve Jobs presenta a una riunione dello staff Apple un prodotto che rivoluzionerà il modo di ascoltare la musica: l’iPod. Primi Anni ’70: Jobs è un giovane studente non refrattario all’uso di allucinogeni e alle esperienze mistiche in India ma anche dotato di un grande abilità nel trattare affari unito ad una sorta di sesto senso per intuire quali sono i progetti realmente innovativi in ambito informatico. A partire dallo sviluppo di un videogioco richiesto dalla Atari e realizzato grazie alla fondamentale collaborazione dell’amico d’infanzia Steve Wozniak, ha inizio la sua straordinaria carriera che viene seguita fino al 1994.

Non era certamente facile pensare di comprimere la complessa vita professionale e privata di Steve Jobs in un film della durata di poco superiore alle due ore. Così come non era semplice sfuggire a quella sorta di agiografia laica che ne ha accompagnato la scomparsa. È sufficiente ricordare la sua affermazione che più è stata citata: “A tutti i folli. I solitari. I ribelli. Quelli che non si adattano. Quelli che non ci stanno. Quelli che sembrano sempre fuori luogo. Quelli che vedono le cose in modo differente. Quelli che non si adattano alle regole. E non hanno rispetto per lo status quo. Potete essere d’accordo con loro o non essere d’accordo. Li potete glorificare o diffamare. L’unica cosa che non potete fare è ignorarli. Perché cambiano le cose. Spingono la razza umana in avanti. E mentre qualcuno li considera dei folli, noi li consideriamo dei geni. Perché le persone che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo sono coloro che lo cambiano davvero.”
Anche la sceneggiatura del film scritta da Matt Whiteley non se la lascia sfuggire ma conserva il grande pregio di mostrarci uno spaccato sufficientemente ampio della vita di un innovatore che, sono ancora sue parole, si sentiva in grado di ‘toccare il cuore della gente’ mentre nei rapporti personali mostrava un’aridità direttamente proporzionale alla genialità. Stern non ci risparmia l’egoismo di un giovane Steve che riceve un primo incarico da 5000 dollari e all’amico d’infanzia, di cui ha assoluto bisogno per realizzare il progetto, dice di averne ottenuti 700 da dividere in parti uguali. Grazie all’adesione anche fisica al personaggio da parte di Ashton Kutcher siamo costretti a confrontarci con una personalità capace di aprirsi al mondo spalancandogli concretamente le porte del futuro ma altrettanto pronta a calpestare amicizie e collaborazioni di lunga data (e a negare a lungo una paternità) per raggiungere i fini prefissi.
Biopic come questo non vogliono mettere in fila una serie di scene edificanti ma chiedono allo spettatore, che si è già fatta una propria idea del soggetto trattato, di rimettersi in gioco. Consapevole che anche in questo caso si tratta di un punto di vista parziale e soggettivo ma al contempo grato per la rinuncia all’unilateralità.

Il Trailer del Film

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Il valore evolutivo del disagio come via verso sé stessi

Autore: Dott.ssa Chiara Pica

Noi esseri umani comuni abbiamo un’ostilità profonda verso tutto ciò che ha a che fare col dolore: ferite interiori, lutti, difficoltà, problemi, disagi esistenziali o disturbi fisici. La società delle pillole ci ha abituato a trovare facili soluzioni a tutto, a scansare lo stress, ad allontanare l’ansia, a mettere a tacere le voci del profondo. La società dell’efficienza e dell’immagine ci ha abituati al fatto che dobbiamo essere per forza brillanti, funzionanti, dobbiamo nascondere le emozioni sgradevoli, dobbiamo mostrarci perennemente sorridenti anche quando non ne abbiamo affatto voglia. Tutto questo ci abitua a due cose molto negative per l’anima:

  • Indossare delle sterili e vuote maschere alle quali alla fine ci si abitua come fossero i nostri veri volti, al punto che non abbiamo più idea di chi siamo realmente

  • Vedere i problemi, le difficoltà, le emozioni negative come qualcosa di inquietante da scacciare via ad ogni costo, come un qualcosa che non ha alcun diritto ad avere spazio dentro di noi.

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