Film (Gennaio 2015): American Sniper

Film (Gennaio 2015): American Sniper

vedi Recensione del Film

Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l’abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato ‘pastore di gregge’, votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l’Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.
Come il proiettile di un tiratore scelto, “il sentimento dell’assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia ad ogni angolo di strada”, diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell’ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell’evento o a funzionare qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha anticipato, addestrato e maturato, quello diDavid O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog (Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), diBrian De Palma (Redacted), di Kathryn Bigelow (The Hurt Locker).
Girati prima e dopo l’undici settembre, frattura storica, categoria dell’immaginario e spartiacque per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi dei (tele)spettatori. Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell’orrore che si ritrova ad abitare, American Sniper sale sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l’idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell’incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Appesantito dal peso dei colpi che mette a tiro e dalle scelte che compie il suo personaggio dietro al mirino, Bradley Cooper infila la bolla allucinatoria che la guerra soffia sui soldati e aderisce alla genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. E il sentimento di pietà che il ranger di Un mondo perfetto riservava all’uomo in fuga di Kevin Costner, Eastwood adesso lo chiede allo spettatore, sollevando Kyle dal giudizio e confermando di essere sempre in grado di cogliere il bilico tra ombra e luce. La semplicità ideologica di Kyle e la sua immediatezza comunicativa non sono prive di complessità. Kyle è un adulto pronto ad affrontare ogni prova con forza e coerenza, supportato dal sentimento e da una fede incrollabile. Diversamente dall’artificiere della Bigelow, che disarma là dove Kyle arma, lo sniper di Eastwood è in grado di ritrovare l’intima misura, il ritmo che lo lega al mondo e alla coscienza di esistere. Kyle non è certo immune al disorientamento progressivo che genera l’azione bellica e l’investitura di eroe, nondimeno è capace di ammettere le proprie responsabilità, davanti a dio e allo psichiatra, rimettendo il debito di adrenalina e riallineando le cicatrici. Ma è proprio a casa, nella sua amata patria e davanti a un marine che voleva richiamare da una non vita, che si compie la beffa e si realizza l’assurdità della guerra, ridotta da Clint a esercizio di idiozia, vedi i soldati-ingegneri sacrificati al cecchino iracheno sul muro di gomma. Se Chris Kyle, quello vero, non fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni probabilità American Sniper lo avrebbe girato un altro regista, ricettivo alla manifestazione dell’eroismo americano. Perché è proprio quel tragico epilogo a emergere tutto il nonsenso, ad affrancarlo dal particolare e a convincere l’autore americano a farne una storia universale.
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l’aiuto della sensibilità. Contro l’effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che vagola, che non vive ma sopravvive, Gran Torino di cui non ci si fa nulla se non lasciarla in garage, senza uno spazio in cui muoverla, senza un futuro in cui accenderla. Solo un presente in cui ogni tanto scoprirla e lucidarla, blaterando di patriottismo e trascurando le conseguenze che la sciagurata fase della politica internazionale degli Stati Uniti ha sul suo stesso tessuto sociale.
Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull’autobiografia di Chris Kyle, squaderna un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della ‘vita’, un Paese che congeda con tre spari e col Silenzio un altro soldato, scomparso fuori campo e nascosto in un posto “tra il nulla e l’addio”.

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Il Cigno Nero

Autore: Dott. Giovanni Iacoviello

vedi Blog dell’Autore

 

Le solide e tranquillizzanti basi dell’imprevedibile.

Quando siamo delusi dalle nostre fallite previsioni, possiamo prendercela con l’imprevisto?

A volte la delusione deriva da desideri irrealistici. E forse il ‘900 ha creduto, e l’inizio del terzo millennio continua a credere, nella razionalità umana e nella capacità di prevedere gli eventi, o addirittura i comportamenti delle persone. Forse la paura può spiegare in parte questi nostri desideri di controllo, e la fiducia nella supremazia della razionalità su sentimenti ed emozioni.

Il genere umano ha in fondo paura dell’ignoto, di ciò che non conosce e non può controllare. Il tentativo di prevedere gli eventi può avere in molti casi la funzione di abbassare l’insostenibile ansia dell’incertezza. Il sociologo Erving Goffmann ha notato che le persone, nell’interazione, mettono in atto aspetti di calcolo, con capacità di ottenere informazioni, facendo: “delle supposizioni sulla natura fondamentale del tipo di persona con la quale si ha a che fare”. Ciò può rispondere ad un’esigenza di controllo dell’altro.

Già negli anni ’50 Vance Packard nel libro I Persuasori Occulti ci raccontava che gli industriali chiedevano alla gente come avrebbe voluto un prodotto, lo preparavano tale e quale, e fallivano, perché si erano fidati del fatto che la gente sapesse ciò che voleva e che fosse razionale, sempre ammesso che fosse veritiera nello svelare i propri desideri e timori. Ciò aveva gettato qualche dubbio sulla prevedibilità del comportamento, almeno quello del consumatore.

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Quello che gli uomini non dicono ( …ma provano)

Quello che gli uomini non dicono ( …ma provano)

Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

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Gli uomini non riescono a dire “Mi sono sbagliato”, loro mandano i fiori.
Charlotte, “Sex and the City”

Cosa costruisce relazioni se non le emozioni e la possibilità di condividerle, sentirle con qualcuno, permettere che gli altri si avvicinino attraverso le emozioni stesse? Ecco. Le emozioni sono alla base dei nostri scambi, delle nostre relazioni, del nostro sentire. E, le emozioni, hanno quindi un impatto fortissimo sulla qualità della nostra vita, nel bene e nel male. A partire dalla qualità della relazione, nel definirne i compiti, anche nel decifrarne le debolezze, le emozioni sono fondamentali. Ma cosa succede quando si creano relazioni dove le emozioni sono interdette, appena accennate, difficili da dire o peggio, taciute perchè difficili da riconoscere e manifestare?

Molti uomini, e certamente qualche donna, lo vivono in tutta la loro vita. Cambiano i decenni, certo, non tutti gli uomini, ma ancora moltissimi, con le aggravanti e le complicazioni del caso, non riescono a condividere quello che provano, faticano a trovare un nome al malessere o benessere che sentono. Si tratta di uomini che vengono cresciuti all’ombra di valori e idee che non sono più coerenti con i tempi che viviamo, uomini a cui si insegna sin da piccoli a programmarsi da maschi, un programma che spinge su parole come indipendenza, forza, autonomia, durezza, rifuggendo l’intimità.

Che succede? Che si finisce con il finire prigionieri di un ruolo costruito e incapace di far sentire, che non rende possibile differenziare e capire le proprie emozioni con le conseguenti sofferenze, molte somatizzazioni e ridotto benessere soggettivo. Un articolo su Psychology Today del Professor Gregg Henriques, “Why Is It So Hard for Some Men to Share Their Feelings” (trad. Perchè è così difficile per alcuni uomini condividere le loro emozioni”) riporta chiaramente questo tema, raccontandolo anche attraverso la sua esperienza clinica. Quando siamo di fronte a questo tipo di difficoltà, è facile che ci si trovi presto bloccati anche nelle relazioni più importanti, come quella di coppia. Se all’inizio di una relazione si riesce a fare voce ad un linguaggio più emotivo, poi, in parte anche per la naturale evoluzione del legame e il bisogno della partner di attenzioni diverse, la cura per la relazione viene come dimenticata.

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Come Liberare le Emozioni del Cancro

una traduzione della Dott.ssa Luana Palermo

dell’articolo “Unlocking theEmotions of the Cancer” di Eather Stringer

tratto dal numero di ottobre 2014 della rivista Monitor on  Psychology.

Negli Stati Uniti una nuova norma impone ai centri oncologici di effettuare screening sul disagio psicologico ai pazienti

Heather Stringer

Susan Syring, infermiera presso il Siteman Cancer Center di St. Louis, recentemente si è presa cura di una donna ultrasessantenne che aveva bisogno di fare la radioterapia a causa di un cancro al fegato. Apparentemente la paziente non manifestava segni visibili di ansia. Ma nel momento in cui Syring ha accennato al fatto che le avrebbero potuto domandare la disponibilità a sottoporsi alla somministrazione di un test che misura il grado di disagio psicologico nelle persone, su una scala da zero (assenza di disagio) a 10 (stress estremo), la figlia della paziente è intervenuta affermando che il risultato di sua madre sarebbe certamente stato 20 su 10.

“Questo mi ha sorpresa, poiché la paziente né appariva agitata e né metteva in atto alcun tipo di comportamento che normalmente io avrei potuto cogliere e rilevare”, afferma Syring.

Ma di lì a poco l’infermiera è venuta a conoscenza dei motivi per i quali la sua paziente fosse realmente inquieta: la donna stava crescendo due nipoti adolescenti, poiché suo figlio era morto di recente, ed inoltre suo marito era malato terminale di cancro al sistema circolatorio. La paziente si è sentita sollevata nel momento in cui Syring le ha fatto presente che l’ospedale le avrebbe offerto dei servizi gratuiti di consulenza psicologica.

Depressione ed ansia risultano essere tra i disturbi dell’umore più comunemente associati al cancro. Uno studio del 2012, effettuato su oltre 10.000 pazienti ai quali era stata diagnosticata la malattia, mostrava come il 19% di loro riportasse livelli clinici di ansia, ed un altro 23% sintomi subclinici. Circa il 13% dei pazienti manifestava sintomi di depressione entro la gamma clinica, mentre il 17% risultava essere in una fase subclinica di tale disturbo (Journal of Affective Disorders, 2012).

La paziente di Syring è stata in un questo senso fortunata, poiché presso il Siteman Cancer Center, attraverso l’utilizzo di uno strumento chiamato Distress Thermometer, si è iniziato ad esaminare il disagio psicologico dei pazienti oncologici. Ma molti centri rivolti alla cura del cancro non hanno tali programmi e di conseguenza i disturbi dell’umore spesso rimangono nell’ombra poiché non vengono riconosciuti.

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Libri: “Il Guerriero della Luce”

Manuale del guerriero della luce è un libro di Paulo Coelho del 1997. Il volume, ad eccezione del prologo e dell’epilogo, è una raccolta di testi pubblicati nella rubrica Maktub del quotidiano A Folha de Sao Paulo e su vari giornali brasiliani e stranieri, dal 1993 al 1996. Il libro include proverbi, estratti dal Tao Te Ching di Laozi e da Chuang Tzu, dalla Bibbia, dalTalmud e altre varie fonti ed è scritto sotto forma di brevi enunciati filosofici.

Il libro si apre con un prologo, dove una misteriosa donna invita un bambino a scoprire un antico tempio che sorge su di un’isola. Una leggenda dice che le campane del tempio, ormai sprofondato negli abissi del mare, continuino a suonare. Il suono si manifesta dopo che il bambino si abitua ai vari suoni dell’ambiente circostante e quando egli, diventato adulto, torna sulla spiaggia della sua infanzia, incontra nuovamente la donna che gli consegna un quaderno azzurro e lo invita a prendere nota. Il libro procede come un manuale guida per il “guerriero della luce”, ovvero un’entità latente presente in tutti gli uomini, che si risveglia in noi quando vogliamo perseguire un sogno e comprendere il miracolo della vita. Il manuale descrive le varie sfide a cui i guerrieri sono sottoposti e le soluzioni ai problemi utilizzando numerosi paradossi (“Un guerriero della luce pensa contemporaneamente alla guerra e alla pace”).

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