Autore: Dott.ssa Emanuela De Bellis

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C’è un bellissimo libro del 1975, “Le parole per dirlo”, che racconta la psicoterapia di una donna, la sua trasformazione e la sua guarigione: un libro bellissimo, ancora oggi.

Più e meno all’inizio del libro, quando la protagonista, affetta da perdite continue di sangue, incontra per la prima volta il terapeuta, lui le chiede di vederla tre volte a settimana, per tre sedute di tre quarti d’ora, e la informa che la terapia durerà almeno tre anni, e che le costerà molto, 40 franchi a seduta, 120 a settimana. Quando lei risponde di non avere soldi, il terapeuta le fa capire che non è un problema suo, la invita a lavorare per guadagnarseli e, anzi, le sottolinea che se non è costretta a pagare, “non prenderà l’analisi sul serio”.

Questa è l’immagine dello psicoterapeuta che per anni è passata tra utenti e addetti ai lavori, che continua a ispirare centinaia di giovani psicologi, che viene riproposta da molti docenti: è l’immagine di un professionista, nel suo studio, che, per curare la malattia dei suoi pazienti, ha bisogno di non far toccare la relazione terapeutica dal contesto abituale, di fare in modo che tutto ciò che non riguarda l’interiorità del paziente resti su uno sfondo analitico: deve fare tutto il possibile, in altre parole, per mantenere “pulito” il setting terapeutico.

E’ anche l’immagine che emerge dal pubblico, dal gruppo di quelli che per noi sono tutti possibili utenti: quella di un terapeuta che è distaccato dalla vita terrena, che non lascia trasparire le proprie emozioni, che ha le risposte su cosa sia sano e cosa sia patologico (anche se magari non le fornisce). Un terapeuta che è costantemente in una relazione verticale con il paziente, con il mondo.

Eppure non è così per le altre professioni che fanno della Cura il proprio nucleo tematico: tutti vorrebbero medici che partecipano al dolore dei malati, insegnanti che si fanno carico delle difficoltà economiche delle famiglie, assistenti sociali che si commuovono insieme agli assistiti. Ma l’immagine di come lo psicologo è, o dovrebbe essere, rimane immobile, inaccessibile. Nonostante la sua figura sia passata attraverso trasformazioni teoriche e pratiche, dalla concezione olistica della persona all’integrazione con diverse discipline (artistiche, meditative, ecc.); dall’apertura lavorativa nei diversi settori (marketing, del lavoro, dello sport) alla psichiatria sociale.

Quando si pensa allo psicologo, si pensa sempre a un’espressione facciale impassibile.

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Sabato 22 settembre, all’interno della manifestazione di tre giorni di Festambiente – Mondi possibili che si è tenuta al Circolo degli Artisti, si è svolto un incontro tra alcuni psicologi che di quest’immagine non sanno più che farsene.

Si parte, come al solito, da una rivoluzione del pensiero: non si cura più la malattia, si cura la persona. Quando un paziente entra nel mio studio, non è un insieme di sintomi e istanze psichiche più o meno patologiche, ma un individuo, con una sua storia, che entra con lui. Niente di nuovo, per chi fa il nostro mestiere: è una riflessione portata avanti ormai da tutti gli approcci esistenti. La novità sta nelle conseguenze sulla professione.

Quando un paziente entra nel mio studio, insieme a lui entrano le sue condizioni sociali, culturali ed economiche; entra il suo contesto di vita. Insieme a lui entra la crisi. Questa crisi che non è solo economica, ma che sempre di più investe tutti i campi dell’esistenza umana, spazzando via i punti fermi, sballottando le vecchie certezze.

E nel momento in cui mi faccio carico del paziente, mi faccio carico di tutta la sua storia, compresa la parte economica.

Gli psicologi che si sono incontrati al Circolo degli Artisti sono professionisti che, negli ultimi anni, hanno sviluppato progetti trasformando la prospettiva professionale, spostandola all’interno del contesto sociale. C’erano quelli che hanno organizzato servizi di sostegno per le famiglie di pazienti psichiatrici; quelli che sono andati all’Aquila, nelle tendopoli, a bussare e offrire sostegno psicologico ai terremotati; quelli che, come noi, hanno organizzato servizi di consulenza e di terapia a tariffe sociali, in studio o all’interno di occupazioni. Servizi gratuiti, o autofinanziati, mai sostenuti dalle istituzioni, ma accessibili per i pazienti e sostenibili per lo psicologo; terapie condotte nei setting più improbabili, ma con la massima qualità relazionale.

L’incontro ha portato condivisione, confronto, arricchimento, ma soprattutto un’energia trasformativa e una volontà di rimettere in gioco la figura dello psicologo, di riportarlo in una relazione orizzontale con il mondo, in una concezione di sostenibilità da entrambi i lati.

Si è parlato di una nuova concezione della terapia, in cui il setting non è nella stanza con la scrivania, ma nella relazione; in cui l’impegno del paziente si motiva tramite l’alta qualità di competenze e preparazione, e non tramite l’alta tariffa; in cui la propria credibilità si costruisce continuando a porsi domande, a confrontarsi con altri contesti, ad affinare lo studio.

Si è parlato anche molto di buone pratiche professionali e formative, e sono usciti fuori tanti spunti, dalla supervisione in gruppo all’autoformazione, in cui ogni psicologo offre agli altri, gratuitamente, le proprie competenze. Si è usata tante volte la parola “condivisione”, e mai la parola “concorrenza”.

Si è deciso di continuare a incontrarsi, di portare avanti questo cambiamento, per proporre altri confronti, altri scenari, invitare a questa riflessione quanti più colleghi possibile.

La parola crisi contiene nella sua radice l’idea di evoluzione, di trasformazione; e noi, di questa trasformazione, vogliamo farne parte.

Questa è la chiamata a cui noi psicologi dobbiamo rispondere.

Siete tutti invitati.