Set 30, 2014 | Psicologia |
traduzione di Ileana Sestito
Questo articolo esamina l’influenza della mindfulness di tratto e di un intervento breve di mindfulness sull’esperienza di dolore degli adolescenti
Il dolore è un evento comune nella vita degli adolescenti, con un terzo dei giovani che segnala dolori settimanali ricorrenti (Stanford et al., 2008). I ricercatori hanno dimostrato che un certo numero di variabili psicologiche hanno impatto sull’esperienza di dolore dei giovani, tra cui catastrophizing dolore-correlata (Vervoort et al., 2007), ansia (pagina et al., 2010), e le memorie (Noel et al., 2010) . Nella letteratura per adulti, il costrutto della mindfulness ha recentemente ricevuto attenzione per il ruolo che può svolgere nell’ attenuare reazioni negative al dolore. Sfortunatamente, nessuna ricerca finora ha esaminato l’influenza del tratto o stato di mindfulness sull’esperienza del dolore negli adolescenti. Mindfulness si riferisce ad uno stato di coscienza che coinvolge volutamente facendo attenzione momento per momento all’ esperienza, in modo non giudicante e accogliente (Kabat-Zinn, 1996). Mindfulness può essere visto come un tratto (la tendenza ad essere consapevoli nel tempo) o uno stato (come memore di un dato momento). Si ritiene che il tratto e lo stato della mindfulness può essere migliorata attraverso la pratica della meditazione (Carmody & Baer, 2007). La ricerca con gli adulti ha generalmente trovato che livelli più elevati della midfulness di tratto sono associati a più adattabilità nell’affrontare il dolore cronico (Schütze et al., 2010), e gli interventi mindfulness brevi hanno dimostrato di ridurre il dolore acuto (Zeidan et al., 2010). Incoraggiante, è stato trovare tra gli adolescenti la mindfulness di tratto nel prevedere un minor numero di sintomi di malattia fisica in popolazioni sane (Greco, Baer, & Smith, 2011), ma nessuna ricerca ha esaminato direttamente la sua influenza sul dolore. Lo scopo di questo progetto di tesi è triplice. In primo luogo, per esaminare l’associazione tra mindfulness di tratto, dei dolori giorno per giorno e di altre variabili di dolore-correlata (ad esempio, catastrophizing, ansia). In secondo luogo, per esaminare gli effetti di un breve intervento di midfulness sul dolore acuto sperimentale. Infine, per esaminare l’impatto dell’intervento di mindfulness sulla memoria di un’esperienza di dolore acuto.
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Set 29, 2014 | Psicologia |
Autore: Giovanni Iacoviello
vedi Blog dell’Autore
La certezza delle azioni nell’incertezza di un mondo che cambia.
“Se vuoi vedere, impara ad agire”
Heinz von Foerster
Possiamo evitare di sbagliare? Possiamo basare le nostre decisioni sulla logica e sui calcoli e prevedere gli scenari dove andremo a muoverci (il mercato?) e il comportamento delle persone?
La frase di Descartes rappresenta la cultura dominante del mondo moderno ispirata alla predominanza della ragione e alla certezza delle scienze: “Io penso, dunque sono”. La consulente aziendale Anna Zanardi fa notare (Il coraggio di essere stupidi, 2011) che l’uomo è anche un essere che dubita, comprende, afferma, nega, vuole, rifiuta, desidera, che immagina e sente. E fa notare che la logica cartesiana è crollata con la nuova fisica degli anni ’30 del secolo scorso, che ha minato la certezza di conoscere il mondo “così com’è”: la scienza ha ammesso che l’oggettività assoluta e la prevedibilità matematica dei fenomeni sono pura illusione.
Nei rapporti con clienti e fornitori l’incertezza di conoscere il mondo così com’è ci suggerisce che non esistono ragione e torto certi, ma le nostre opinioni sul mondo. Inoltre non possiamo fidarci della razionalità nello spiegare scelte e decisioni, né nostre né dei nostri interlocutori, né prevederle.
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Set 26, 2014 | Psicologia |
Autore: Dott.ssa Morena Romano
Che cos’è la Solitudine? E’ uno stato d’animo o uno stato e basta? Un modo di vivere o un condizionamento?
A molti non piace stare soli, altri lo scelgono, altri lo subiscono, altri fanno di tutto e accettano di tutto pur di evitarlo.
Ma cosa significa essere soli quando soprattutto ci si sente soli in mezzo agli altri?
Il termine solo deriva dal latino solus che indica separazione e quindi implica una condizione che riguarda tutti, ogni essere umano, perché implica la percezione e l’accettazione dell’alterità intesa come Io e Tu.
Da ciò ne deriva che la paura della solitudine è la paura di essere soli con se stessi non più dissolti nel magma confuso di una fusione in cui non c’è separazione e l’Altro non è distinto da noi quindi non ci può abbandonare nè rifiutare né tradire.
Il timore e il dolore della solitudine non sono altro che la nostalgia di quella fusione protettiva ma idealistica che abbiamo sperimentato nell’utero materno e nelle prime fasi della vita neonatale di cui non abbiamo coscienza ma di cui ci è rimasta traccia indelebile nell’inconscio, nello spirito e nell’anima.
Questa nostalgia spesso ci porta a ricercare quell’impossibile e fatale riunione che è tanto mortifera così come lo è per il feto rimanere nell’utero materno oltre i nove mesi.
Chi teme la solitudine prova in realtà, in maniera estrema e coercitiva, la nostalgia di tale stato perché non ha sperimentato nell’infanzia la sicurezza di base e fiducia nell’altro che poi diviene fondamentale nello strutturare la fiducia di Sé, quell’”Io sono” che si declina non appena il bambino comprende che la mamma non sparisce anche se va nell’altra stanza, che poi torna, torna sempre.
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Set 25, 2014 | Psicologia |
traduzione di ileana Sestito
Che cosa ci dice la ricerca sulle origini delle complesse e moderne, malattie inspiegabili? By Tori DeAngelis
Le malattie medicalmente inspiegabili forniscono un forum unico per esaminare i fattori mente-corpo e di come la cultura e il genere possono influenzare i sintomi, dicono gli psicologi e non solo. Nel suo libro “Malattia clinicamente inspiegabile: sesso e implicazioni biopsicosociali,” la neuroscienziata comportamentale Susan K. Johnson, dell’ Università del North Carolina a Charlotte, riassume la ricerca multidisciplinare su una serie di condizioni che hanno ricevuto l’attenzione dei media negli ultimi decenni , inclusa la sindrome da stanchezza cronica (CFS), la fibromialgia e la sindrome dell’intestino irritabile. Con prevalenti sintomi debilitanti, senza note cause organiche, e correlati con stati come l’ansia e la depressione, sfidano i ricercatori a considerare le cause complesse come probabile possibilità, dice Johnson. Queste condizioni condividono una serie di caratteristiche comuni: essi tendono a comparire prima nelle donne nei loro primi 30 anni, e di persistere con l’età, anche se i sintomi possono diventare meno intensi nel corso del tempo. Essi sono altamente invalidanti, ma mancano i marcatori biologici hard-core, come per i tumori, o i virus. Hanno molti sintomi comuni, tra cui la stanchezza, insonnia, difficoltà di concentrazione, mal di testa e dolori diffusi. “Alcuni ricercatori pensano che siano tutti una sindrome, mostrando nei sistemi che le persone hanno più problemi “, dice Johnson. Ad esempio, una persona con una storia di problemi intestinali potrebbe sviluppare la sindrome dell’intestino irritabile, mentre una persona con una storia di dolore potrebbe sviluppare la fibromialgia. Inoltre, Johnson dice, che le persone che hanno queste condizioni spesso non sono ricettive alle spiegazioni psicologiche. “C’è un sacco di pressione per trovare una spiegazione medica e il trattamento. Eppure io sono stata in questo campo per 20 anni e non mi sembra che abbiamo ottenuto molto a scoprire le cause,” dice. Una teoria promettente è la multifattoriale “ipotesi della sensibilità centrale”, che postula che, a seguito di un trauma precoce, come abuso infantile, malattia infantile o di un incidente d’infanzia, alcune persone sono molto sensibili agli stimoli sensoriali e hanno una bassa tolleranza per il dolore. A sua volta, ” imposta una disregolazione del sistema dello stress, in modo da sentire i sintomi più intensamente”, dice Johnson.
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Set 24, 2014 | Psicologia |
Autore: Dott.ssa Irene Benini
Esiste una distanza o vicinanza ideale in una relazione? E’ statica, dinamica, mutevole? Come ci avviciniamo ad una persona che non conosciamo? con ingenuità, diffidenza, dubbio o “sospensione di giudizio” ? In che modo il tempo condiziona il costruirsi della nostra fiducia nei confronti di qualcuno?
Nella mia esperienza personale, professionale e privata ho potuto osservare come ogni persona ed anche io stessa, approcciamo al tema della fiducia in modalità molto differenti una dall’altra. La storia delle nostre relazioni ha un peso molto rilevante nel determinare la nostra capacità e peculiarità nel fidarci o essere diffidenti nei confronti dell’altro, in particolare la nostra prima relazione di fiducia: da bambini, essendo in una condizione di dipendenza dall’adulto, tendiamo ad offrire una fiducia totale in chi si prenderà cura di noi, crescendo tendiamo a maturare autonomie, autostima, fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità, quindi la fiducia in un’altra persona riveste una funzione diversa, non è motivata dal bisogno e dalla dipendenza da una figura di riferimento, bensì può modularsi sulle caratteristiche di affidabilità, coerenza, stima, serietà professionale ( ed altri parametri personali ) di chi ci sta di fronte; in sostanza si basa su considerazioni e “valutazioni” soggettive, che ci permettono di scegliere quando la nostra fiducia viene “tradita” e grazie al tempo e alle esperienze condivise, la nostra fiducia diviene più o meno solida nella relazione affettiva, lavorativa o di altra natura.
ll tempo è un elemento fondamentale per creare una relazione profonda in cui siano presenti intimità e fiducia, due concetti strettamente connessi. La fiducia per crescere richiede situazioni condivise, quindi tempo vissuto insieme. Spesso tendiamo a dimenticare che il tempo è uno dei più importanti valori della nostra vita, ed è significativo il modo in cui scegliamo di impiegarlo, come e con chi.
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