Autori: Anna Guido, Stefania Motta
Tu presti fede a quel che senti dire.
Ma dovresti credere
a quanto non vien detto:
il silenzio dell’uomo
si accosta alla verità
più della sua parola.
Kahlil Gibran
Questo lavoro è nato in un periodo di grandi domande personali, cui abbiamo cercato di trovare delle risposte; la ricerca è stata faticosa e lunga, ma abbiamo imparato ad attendere pazientemente e attendendo ci siamo lasciate “abitare” dal silenzio. In questo modo si è sviluppata un’analisi fenomenologica del silenzio, al fine di comprenderne l’éidos, l’essenza. In una società come la nostra, così assordante e intrisa di superficialità, le parole di Blaise Pascal (filosofo del Seicento) diventano più che mai attuali: gli esseri umani cercano in ogni modo di non vedere, di non sentire, attraverso il “divertissement”, vale a dire attraverso il “distrarsi” da se stessi, per non guardarsi dentro e scoprirsi tanto vuoti e infelici. Oggi più che mai il silenzio spaventa proprio perché viene equiparato ad una pausa investigativa della propria coscienza, una coscienza che sembrerebbe aver perso quella forza intenzionale e significante di cui parla Husserl, una coscienza, cioè, che non riesce più a dare senso alla propria esistenza, ma che preferisce conformarsi alle mode del momento, a rinunciare alla propria esclusività per diventare anonima in una massa indifferenziata di uomini, che preferiscono vivere un’esistenza che è di tutti e di nessuno. A tale proposito le riflessioni heideggeriane risultano illuminanti. L’uomo è nel mondo, vi esiste e può scegliere di vivere la propria esistenza seguendo un progetto autentico o inautentico. Il fatto stesso che all’uomo sia data la possibilità di scegliere come vivere la propria esistenza nel mondo, implica che questa abbia un valore di unicità; un’esistenza basata sul si dice e sul si fa, appare immediatamente più facile da essere vissuta, non implica nessun progetto, ma solo adattamento e conformità all’opinione pubblica, celandosi dietro le spalle del Si e di qualcuno che indica la scelta più comoda da seguire. La chiacchiera, l’opinione comune, la curiosità non per l’essere delle cose ma per il loro apparire, l’equivoco, “distraggono” l’uomo dal proprio cammino autentico. Tutto questo vuol dire che viviamo in un’epoca caratterizzata da una forte crisi d’identità. La situazione oggi è ancor più grave perché la società cambia a ritmi vertiginosi cui si fa sempre più fatica ad adattarsi; e i segni evidenti di tale crisi sono sotto gli occhi di tutti noi; non a caso la patologia psichiatrica più ricorrente negli ultimi anni è la patologia borderline che, per definizione, implica una “condizione stabilmente instabile”. Rinunciare all’autoprogettazione significa rinunciare alla propria libertà, per diventare schiavi di un sistema, soprattutto del sistema politico ed economico, che ci promette la felicità, ma che sostanzialmente si preoccupa di conservare il proprio potere, utilizzando i mezzi di comunicazione di massa che in-formano, nel senso che danno forma purtroppo alle nostre menti; come dice il sociologo Ferrarotti, “È risaputo che ormai per la grande maggioranza dei giovani televisione, radio, telefono, cinema, si imparano prima dell’alfabeto, arrivano prima a modellarne gli schemi mentali, sensibilità, inclinazioni, visione della vita”. Viviamo in una società dallo spirito mercantile, in cui l’aspetto economico del vivere tende a soppiantare l’aspetto morale estetico, la logica del contratto tende a prevalere sui rapporti interpersonali. Ci chiediamo, allora, se il silenzio possa richiamare l’uomo contemporaneo a se stesso, indurlo a fermarsi e beneficiare della pausa ricercata; un silenzio, quindi, che possa essere avvalorato, scelto consapevolmente e che non costi sacrifici né obblighi a colui che vi si appresti. Dopo aver letto un autore come Heidegger, dopo aver riflettuto sulle diverse interpretazioni che l’Oriente attribuisce al vuoto e al silenzio, dopo aver letto come il silenzio possegga un ruolo importante addirittura nella musica, mi pongo un ulteriore quesito: il silenzio, oltre a favorire il ritrovarsi, il riappropriarsi di se stessi, può essere considerato “relazione”? Sembrerebbe quasi un paradosso considerare il silenzio come relazione, ma ritengo che esso sia un elemento imprescindibile all’interno della sfera esistenziale umana, perché l’esser-ci è imprescindibile dall’esserci-con: l’essere umano non può fare a meno degli altri, ma non perché ne ha bisogno per soddisfare i propri bisogni, anche per questo, ma soprattutto perché non potrebbe costituirsi a livello identitario: il Noi precede l’io, il che significa che la nostra identità ha origine e si costruisce nella relazione; noi siamo la storia delle nostre relazioni. Una relazione può fondarsi sulla parola, autentica o meno; può fondarsi su un gesto, un tocco più o meno autentico. Ma entrambe le modalità sono accomunate da un elemento: il silenzio. Immaginiamo una conversazione senza pause di silenzio: impossibile, non sarebbe una conversazione, ma un monologo di frastuono. Immaginiamo un gesto che comunica senza l’ausilio delle parole: il silenzio ne è la culla, la via che porta il significato di quel comunicare. Nonostante le infinite sfaccettature che il silenzio può assumere nella dimensione interpersonale esso è sempre carico di significato. Secondo Heidegger il silenzio è primariamente propedeutico alla comprensione. Non ci può essere, infatti, un’autentica compartecipazione, un’autentica reciprocità, senza silenzio che agevola e sostiene l’apertura dell’altro e verso l’altro. Trovo particolarmente suggestivo l’invito del filosofo nella ricerca di un’esistenza autentica, fondata sulla possibilità di scelta del proprio cammino esistenziale e sulla capacità di un ascolto autentico nel vero incontro con l’alterità. Il silenzio è condizione fondamentale, quindi, per l’accoglienza di un Esser-ci nella sfera esistenziale di un altro Esser-ci. Un silenzio autentico è da ricercarsi proprio come un’esistenza autentica. Ma se gli altri hanno il potere di distogliere il mio sguardo dalla mia via, come sosteneva Sartre, allora l’autenticità della mia esistenza dipenderà dalla più o meno fitta trama di relazioni che costituiscono il mio con-esserci; ed il con-esserci implica la capacità per ognuno di accogliere ciò che è altro da sè. L’uomo dovrebbe lasciare posto all’incontro con l’alterità, all’autentico contatto relazionale. La vera essenza dell’uomo consiste nella sua capacità di accogliere, di aprirsi al mondo, senza gabbie e barricate in cui l’impersonale Si lo vorrebbe mantenere. L’apertura dell’uomo al mondo è la comprensione. Ma la comprensione presuppone una modalità esistenziale fondamentale: l’ascolto, inteso come l’apertura dell’Essere al mondo che lo circonda e non può esistere un ascolto autentico se l’uomo non si pone in una disposizione silenziosa alla comprensione dell’altro. Il silenzio, dunque, è lo strumento fondamentale che l’uomo può utilizzare per contrastare la banalità della chiacchiera e dell’esistenza inautentica: è un dispositivo che permette all’uomo di vivere secondo un progetto di vita autentica e permette di cogliere la vera essenza dell’Essere. Più volte Heidegger ha sottolineato come il tacere non sia esclusivamente un’assenza di parole, ma quasi un obbligo per garantire un’adeguata comprensione tra gli esseri umani. Egli attribuì al non-detto un valore assai più alto rispetto ai “fiumi di parole” cui la nostra epoca è soggetta: «Un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione» (Heidegger, 1927). L’invito del filosofo esorta dunque a riflettere sul silenzio e in silenzio sulla sfera esistenziale dell’uomo, sulla comprensione che avviene solo se l’uomo può aprirsi autenticamente all’Alterità. Il silenzio, dunque, è la possibilità di avere qualcosa da esprimere, ma scegliere di non farlo, per attribuire un giusto ed autentico valore alle parole a volte logore e superficiali, inflazionate da un loro utilizzo inautentico. Trovo la riflessione heideggeriana sul valore del silenzio piuttosto attuale e credo che, dopo un’attenta riflessione, il suggerimento per trattare il tema del silenzio sia nato proprio da qui, cioè, dall’incapacità odierna all’ascolto e alla comprensione reciproca. Il silenzio, posto alla base di un ascolto attivo e partecipe della condizione esistenziale dell’uomo, non si traduce in un’assenza di parole, intesa come incapacità di dire. Al contrario, il silenzio è come un provvisorio allontanamento dalla realtà semplicemente presente, è un momentaneo ritiro in se stesso, che permette all’uomo di sospendersi in una pausa, attribuendo il giusto valore all’incontro con un’esistenza diversa dalla propria. L’incontro, il contatto autentico accade là dove l’uomo sceglie di accogliere l’Altro nella propria esistenza. Solo nella quiete silenziosa è concesso all’uomo di attribuire l’autentico significato alla parola appena ascoltata e alla relazione appena avvenuta. Ascolto e silenzio sono, dunque, le modalità attraverso cui si esplica la comprensione. Ascoltando e non investendo della propria soggettività la vita dell’altro, ci si rapporta come esseri unici e autentici, posti gli uni di fronte agli altri. Proprio perchè oggi l’autenticità si sta affievolendo, credo sia necessario soffermarsi a riflettere sul valore e sulle condizioni di possibilità comunicative che dimorano nella dimensione creata dal silenzio.Il silenzio non visto soltanto come l’atto di tacere dinanzi a un altro che parla, ma come l’orizzonte di senso dentro cui accogliere la realtà, la relazione tra le cose, il significato di un’esistenza. Il silenzio come orizzonte di senso esprime la capacità dell’uomo di cogliere il fondamento della realtà, che non si ferma a quel che appare, ma in quel che appare coglie ciò che è invisibile agli occhi; nell’ordinario afferra lo straordinario. Il silenzio è, pertanto, la possibilità dell’oltre, è il sempre altro; è la trascendenza; è la differenza. È la relazione in cui ogni essere è se stesso e ogni altro è accolto in quanto altro. Il silenzio, così percepito, non è vuoto. Il silenzio è una pienezza, perché apre l’uomo all’incontro:«prepararsi al silenzio non è ascetismo, ma affidamento e pratica di ospitalità nel duplice senso relazionale del termine. È essere ospitati dal silenzio e, nel contempo, ospitarlo in noi. È ospitare l’alterità, fare spazio alle voci, al senso, a chi ci si fa prossimo» (Mancini, 2002). Il raccoglimento e l’unità interiore che scaturiscono dal silenzio vengono assunti come momento fondamentale di apertura di spirito e non come un ripiegamento dell’io su di sé: non una chiusura dentro uno spazio esclusivo, ma l’apertura nei confronti dell’altro che parla. È un io accogliente che include sempre senza escludere mai: questo è il cammino di unità interiore a cui aspira chi entra nel silenzio che comunica. Non il rapimento di un soggetto che si isola annullando la relazione e ogni relazione, ma l’apertura di un orizzonte. Questo è l’uomo che abita il silenzio e che si lascia abitare dal silenzio. Il silenzio che comunica lascia ogni logica o pretesa di possesso e di dominio; lascia ogni sforzo volontaristico, lascia questa logica che ha ancora l’io come protagonista che tesse la trama di ogni realtà con ancora la pretesa di costruirla e dominarla. È l’io a fare silenzio oppure viene a ritrovarsi nella sua unicità e originalità grazie al silenzio? Nel silenzio che comunica l’uomo si comprende come generato da un altro. Generati dal silenzio e continuamente ri-generati dal silenzio, vuol dire essere stati raggiunti da una grazia. L’essere raggiunti è la condizione per raggiungere gli altri, di andare incontro agli altri senza ricompensa, senza tornaconto. E’ la gratuità del dono che pone nella condizione di donare. Il dono si fa dono. Una comunicazione autentica che si genera nel silenzio apre l’uomo ad una prassi di pace. Quella prassi che non cede alla logica e alla tentazione della sopraffazione e della violenza. Una prassi che non annulla gli altri, per cui non sacrifica la dimensione relazionale, ma tesse continuamente relazioni adulte. Una prassi di pace che si esprime attraverso una vita non appariscente; la vita nascosta di chi si racconta nascondendosi, cioè che non cerca di imporsi con la forza, ma si consegna gratuitamente per costruire la comunione. È il comunicare non arrogante che crea comunione, che getta continuamente ponti. Questo è il silenzio che comunica con e nella discrezione. È il comunicare che non si impone con la presunzione del fare, per mostrarsi ad ogni costo: essere per apparire soltanto. Un comunicare senza esclusione alcuna, ma accoglienza e apertura. Il silenzio eloquente è la misura perché l’uomo riconquisti sempre più se stesso: la sua dignità e la dignità di ogni uomo. L’esperienza contemplativa insegna la disciplina del silenzio come esclusione di ogni essere rumoroso e di ogni chiacchiera inutile che ne violerebbe gli spazi. Il vero saggio si esprime in poche parole, e nello stesso tempo la sua parola è silenzio, ciò che egli dice viene dal cuore e non soltanto dalla punta della lingua. Le sue parole scaturiscono da una profonda meditazione. La stessa cosa vale per la preghiera, attraverso la quale, in silenzio, si costruisce la relazione delle relazioni: l’incontro con l’assolutamente Altro, ovvero Dio. Solo chi è sceso in profondità nella propria solitudine è veramente capace di comunione anche con gli uomini, con tutti, senza discriminazioni. La stessa intuizione è presente anche in Bonhoeffer: solo chi è capace di solitudine è capace di comunione e dunque può contribuire davvero a costruire la comunità, e solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non uccida. La ricerca della comunità e degli altri, se non si è arrivati a riconoscere e accettare la propria solitudine esistenziale, è fuga da se stessi; la solitudine, magari per dedicarsi alla preghiera, che rifiuta gli altri e la comunità non porta ad alcun incontro, neanche con Dio: è una solitudine che uccide. Due eminenti psicologi e psicopatologi così si esprimono relativamente alla solitudine: «Non sarebbe forse più opportuno cercare di scoprire gli aspetti positivi della solitudine, per situarli nel loro giusto piano di valore e in tal modo rendere accessibile e perseguibile all’uomo moderno un fenomeno così squisitamente umano? Non si dimentichi infatti che gli autentici innovatori del pensiero, delle scienze e delle arti sono stati quasi sempre grandi solitari. A noi del resto, più di questa solitudine creativa, di eccezione, interessa quella che è propria dell’uomo comune, e che implica raccoglimento in se stessi, sosta dall’affannoso tumultuare degli avvenimenti, introspezione ed elaborazione delle proprie esperienze di vita. Siamo convinti che il riconoscimento e il recupero consapevole di siffatti momenti meditativi dell’esistenza contribuirebbe in modo elettivo all’integrazione armonica delle diverse capacità dell’individuo, alla sua maturazione sia emotiva che intellettuale e quindi alla progressiva realizzazione e individuazione del proprio sé. In un mondo in cui il richiamo del raggruppamento diviene sempre più imperioso e pressante e rischia di condurre ad una progressiva inesorabile spersonalizzazione di massa, indichiamo nella solitudine ben integrata l’unica possibilità di cui disponga l’uomo moderno per conservare le ultime vestigia della propria individualità» (Callieri e Frighi). Il vero, profondo e vissuto silenzio rende possibile la presenza e la trasparenza di una persona; silenzio inteso e visto non solo e semplicemente come mezzo, strumento, ma come pienezza di vita. Il silenzio è il dono dell’eternità, è una profonda realtà, è sorgente di vita. Un uomo come Lanza del Vasto proponeva questa massima:«Taci molto per avere qualcosa da dire che valga la pena di essere sentita. Ma ancora taci, per ascoltare te stesso». La bontà di ogni parola detta è proporzionata alla maturazione avvenuta nel silenzio meditativo. Il silenzio non è, quindi, una totale chiusura alla parola, alla comunità, alla relazione, ma anzi ne è il sostegno. Avvalorando la parola con un silenzio autentico, con un silenzio comprensivo, con un silenzio che accoglie invece di allontanare, è possibile donarsi reciprocamente gli uni agli altri. Ogni relazione umana ci pone l’uno dinanzi all’altro: sta a ciascuno di noi riuscire a sviluppare l’incontro, la reciprocità autentica nell’esatto momento in cui due persone, con le proprie diversità, si incontrano. Per questa ragione, ritengo che il vero e autentico silenzio sia un silenzio d’incontro, che poggia le basi nel Qui e Ora della relazione, che permette alle persone che entrano in contatto, di “toccare” quasi una dimensione unica, cioè quella fusione di significati autentica, senza doppi fini, ma con l’unico obiettivo di raccontarsi e di donarsi vicendevolmente. Fu Martin Buber a sviluppare splendide riflessioni sul valore dell’incontro tra esseri umani, definendolo con un termine che, tradotto letteralmente dal tedesco è la terra del Tra, lo Zwischenland. Soffermandosi esclusivamente sul termine, si percepisce la profondità della dimensione studiata da Buber e l’ampiezza della sfera relazionale umana. La terra del Tra è il Noi, è il momento dell’incontro nella relazione tra due esseri umani. È la Traità, il momento più alto e assoluto in cui due persone decidono di aprirsi l’un l’altro, accogliendo l’unicità che da questo scambio scaturisce. All’interno della Traità avviene qualcosa di inesprimibile, avviene qualcosa che sa di mistico, di inafferrabile: avviene l’unione tra due esseri, la fusione dei mondi e dei vissuti di cui sono i portatori. L’unione non la si può toccare con mano, non è qualcosa di materialmente esistente, ma è qualcosa che appartiene a questo scambio autentico. È una dimensione talmente impercettibile che può essere distrutta dalla falsità, dalla menzogna e dall’inautenticità dello scambio. Credo che nell’unione, nella Traità, si possa sperimentare davvero un senso di purezza e di avvolgente comprensione che è impossibile da raggiungere singolarmente, che non può verificarsi quando si sta in solitudine, ma che scaturisce solamente dall’unione di un Io e di un Tu, da un incontro autentico, da una relazione nel segno della reciprocità, dove domina il Noi, da intendere non come somma dell’Io e del Tu, ma dell’Io, del Tu e del Tra. La teologia cristiana riconosce in quel Tra il Cristo che si fa Logos. Buber fece del dialogo e della relazione i cardini della sua riflessione filosofica ed esplorò quella fitta trama di rapporti e di relazioni che definiscono la sfera relazionale umana e ci permettono di cogliere le dinamiche attraverso cui avviene l’incontro con l’Alterità. Agli occhi di Buber, l’Io autentico si costituisce unicamente rapportandosi con le altre persone giacché l’Io si fa Io solo nel Tu. La dimensione dell’Io-Tu è la profonda ed intima dimensione del dialogo e dell’Essere. All’interno di essa si sviluppa l’incontro autentico con l’Altro, in uno scambio reciproco. Se l’uomo, nella relazione Io-Tu, non si apre ad accogliere autenticamente il Tu, si verifica un altro tipo di relazione, definita dall’Autore “Io- Esso”. Qui l’uomo non si dà autenticamente, non riceve lo scambio reciproco e vero dell’Alterità, non arricchisce il proprio Sé, né si nutre della relazione. Buber sottolinea come il porsi l’uno di fronte all’altro nella relazione Io-Tu sia un aspetto primario per cogliere non solo l’essenza della relazione umana, ma anche per comprendere se stessi. Immaginiamo di stare in una relazione Io-Esso: il rapporto con le cose o con le persone non è autentico, è possibilmente basato su aspetti passeggeri e superficiali. Di conseguenza, l’Io non si dona, ma si ritrae e fugge dall’Esso. Mi sembra particolarmente pertinente ciò che disse Buber per spiegare la sostanziale diversità tra la relazione Io-Esso e la relazione Io-Tu:«La vita dell’essere umano non consiste soltanto nell’ambito dei verbi transitivi. Non consiste soltanto in attività che hanno qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso qualcosa. La vita dell’essere umano non consiste solo in questo in cose del genere. Tutto questo e cose di questo genere insieme, fondano il regno dell’esso. Ma il regno del tu ha un altro fondamento»(Buber,1962). Talvolta è difficile il contatto autentico, quello scambio e quella fusione di significati; è difficile compartecipare; è difficile rimanere in silenzio e aspettare l’Altro. «Solo il silenzio nei confronti del tu, il silenzio di ogni linguaggio, la tacita attesa della parola non ancora formata, non ancora separata, non ancora espressa, lascia libero il tu» (Buber, 1962). La relazione è reciprocità: è uno scambio biunivoco, che va da una parte all’altra, ecco: l’Io riceve una parte di un Tu e dona una parte di Sé. Questo è uno scambio relazionale autentico: donarsi vicendevolmente l’intimità, i propri vissuti, le proprie esperienze.
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