Autore: Dott.ssa Laura Canis

Introduzione

Il presente articolo si propone di chiarificare quale debba essere l’oggetto di osservazione di un Terapeuta a indirizzo sistemico-relazionale, secondo la teoria di Bowen, autore che ha gettato le basi per la psicoterapia di questo specifico orientamento teorico.

La terapia familiare ad indirizzo sistemico-relazionale è un modalità di intervento terapeutico che ha sviluppato nuovi concetti e nuove modalità di intervento rispetto ai modelli fino ad allora dominanti. Nello specifico, questa nuova linea prende il suo avvio dalla decisione di attribuire un nuovo significato al disagio e ai sintomi psichici espressi dagli individui.

I modelli di intervento familiare fino ad allora presenti erano pressocchè tutti di matrice psicoanalitica e si focalizzavano principalmente sul ricorso a terapie individuali.

La cornice di riferimento del metodo di intervento qui presentato si afferma a partire dagli anni 50 negli Stati Uniti, per poi diffondersi progressivamente in Europa. Inizialmente era rivolto alle famiglie di pazienti schizofrenici, in quanto, a partire da alcuni studi era stato constatato che con questa tipologia di utenza la “classica” terapia individuale, in auge allora, o gli interventi di tipo psichiatrico, non erano sufficienti per ottenere risultati soddisfacenti. Con la terapia familiare di matrice sistemico – relazionale, l’attenzione viene spostata dal membro “malato” della famiglia a tutti i suoi componenti, sottolinenado come questi ultimi influenzino in maniera attiva il comportamento del cosiddetto “paziente designato”.

Si assiste così ad una svolta importante in ambito terapeutico, in quanto si ha una ridefinizione di ciò che è da considerarsi la patologia: non più qualcosa di interno ad un singolo, ma qualcosa che si co-costruisce all’interno del sistema familiare più ampio di cui il “paziente” fa parte.

Gregory Bateson e la definizione di oggetto di osservazione

Centrale nella definizione di oggetto osservato è certamente l’assunto teorico che il terapeuta – qui identificato come “osservatore” della famiglia in seduta – decide di porre alla base della sua indagine.

Una modalità specifica ed alternativa alle preesistenti attraverso la quale è possibile osservare la realtà “terapeutica” viene proposta dal pensiero sistemico. Ideatore ne è Gregory Bateson, che ritiene che la realtà vada osservata in termini di relazione, ovvero facendo attenzione a ciò che avviene tra i membri a livello di comportamenti non verbali (sguardi, rispetto dei turni di parola…), piuttosto che limitarsi al mero ascolto dei contenuti comunicativi emessi dagli stessi.

Altra importante indicazione su quello che deve diventare l’oggetto di osservazione secondo la modalità sistemica, è quella di trasformare in focus attentivo del terapeuta il processo che accompagna un determinato fenomeno. Fino a qualche anno fa, contrariamente, unica modalità in uso tipicamente in ambito psichiatrico e terapeutico per la malattia mentale era invece la ricerca delle cause dei vari eventi che i soggetti vivono.

In particolare, con la strategia osservativa sopra proposta, si inizia a considerare la famiglia, anziché costituita da singoli individui, come un sistema i cui membri sono in relazione tra loro. Secondo tale innovativo approccio, iniziano ad assumere rilevanza le descrizioni dei processi sovraindividuali attraverso cui si sviluppa la comunicazione, anziché esclusivamente ai processi interiori (emotivi, affettivi, motivazionali) sottostanti alla comunicazione stessa.

La centralità della relazione. Dalla prima alla seconda cibernetica

Alla base della nuova concezione, vi è il passaggio dalla prima alla seconda cibernetica. Il termine cibernetica, ripreso ed adottato anche successivamente da diverse discipline (antropologia, biologia…), fu introdotto da Norbert Wiener attorno agli anni 40 del secolo scorso, il quale lo utilizzava riferendolo allo studio di quei meccanismi che permettono ad un organismo vivente di autoregolarsi, di essere autonomo e di scambiare informazioni con l’esterno attraverso feedback o retroazioni.

Abbandonando la definizione generale e scendendo più nello specifico, applicando cioè la prima cibernetica al concetto di osservazione, siamo portati ad assimilare il concetto di “oggetto di osservazione” con la realtà esterna, che è qui definita come oggettiva ed indipendente da chi la osserva. Una quarantina di anni dopo, attorno agli anni 80, Heinz Von Foerster propone invece un’interpretazione differente, che si discosta dalla teoria della prima cibernetica. Secondo lo studioso infatti, il ruolo dell’osservatore non può essere escluso dal processo di osservazione. L’osservatore si troverebbe infatti ad agire sull’oggetto stesso di osservazione, influenzandolo, già nel momento stesso in cui lo definisce, circoscrivendolo rispetto ad una realtà più vasta. É in questo modo che si verifica il passaggio dalla prima alla seconda cibernetica, caratterizzata dal fatto che all’interno di un sistema osservante non è possibile effettuare una distinzione netta tra osservatore e oggetto osservato.

Apportando questa modifica si allarga automaticamente il campo di osservazione, e l’osservatore stesso (soggetto osservante), oltre all’oggetto di osservazione, diventa parte interagente con il sistema di osservazione.

Il fatto che soggetto osservante e oggetto osservato (in parte) coincidano, produce una modificazione della conoscenza.

Secondo la seconda cibernetica infatti, come si è detto, il soggetto osservante diviene esso stesso parte dell’oggetto osservato. Questo tuttavia comporta inevitabilmente che la conoscenza che se ne deduce sarà limitata, in quanto l’osservatore, oltre a osservare qualcosa di estraneo a sé, si trova anche ad osservare se stesso (osservazione meta). In questo modo però risulta evidente come ciò generi un limite, in quanto l’oggetto di osservazione diviene, fatte tutte queste considerazioni, parzialmente ignoto al soggetto osservante, in quanto l’osservatore si troverà ad osservare due cose contemporaneamente: l’oggetto che voleva osservare, ma anche se stesso nella relazione con l’oggetto prescelto.

Al fine di chiarire meglio questo concetto può essere utile un esempio. Immaginiamo un terapeuta in stanza di seduta con un suo cliente. Il suo lavoro terapeutico implicherà di prestare attenzione a due cose fondamentali: da un lato cosa il cliente gli sta comunicando (verbalmente e non), ma d’altro canto dovrà prestare molta attenzione anche a tutte le risonanze che le comunicazioni dell’altro suscitano in lui.

L’inclusione del soggetto osservante nel campo dell’oggetto di osservazione rende quindi impossibile raggiungere una conoscenza completa delle cose. É cioè necessario comprendere ed accettare che in ogni ambito d’indagine (psicologico e non) c’è sempre qualche elemento, mega o micro, che sfugge al controllo di chi si propone di analizzarlo, e che dunque influisce su ciò che questi si impegna a conoscere senza che, tuttavia, se ne possa direttamente accorgere.

Alla luce di quanto detto finora, in ambito psicoterapeutico, ciò che dunque viene ad acquistare rilevanza sono, non solo le relazioni tra gli oggetti osservati ma anche, la relazione dei pazienti col terapeuta stesso: emozioni, fantasie, pregiudizi e motivazioni, non solo del cliente ma anche del terapeuta stesso. A tale proposito Carl A. Whitaker (1940) introduce il concetto di necessità di prestare attenzione all’uso stesso del sé del terapeuta, intendendo con ciò la capacità di quest’ultimo, il teraputa appunto, di conoscere e utilizzare sia le caratteristiche della propria personalità, sia le sue istanze emozionali, al fine di costruire un’efficace relazione terapeutica. La seconda cibernetica, per questi motivi, viene definita come una cibernetica dell’autoriflessività, dove l’osservatore acquista, come si può comprendere da quanto finora affermato, una posizione centrale.

Superando la teoria: l’oggetto di osservazione in psicoterapia

Secondo la teoria di Murray Bowen, famoso esponente della pratica terapeutica sistemica, l’elemento che diviene centrale nel corso di una seduta di Psicoterapia sistemico-relazionale è l’osservazione delle relazioni esistenti tra i vari partecipanti.

Questo orientamento terapeutico – salvo diverse valutazioni che il terapeuta compie caso per caso e momento per momento – prevede di ricevere in seduta l’intero nucleo famigliare.Questo avviene in quanto si parte dal presupposto che il problema non risieda in un individuo esclusivo (il paziente designato, ovvero il depositario di una patologia, funzionale  al mantenimento dell’identità del sistema), ma che il sintomo sia portavoce piuttosto di una disfunzione relazionale dell’intero sistema famiglia.

Ciò che dunque diviene oggetto di osservazione dello Psicoterapeuta non può essere la famiglia intesa come oggetto definito e sempre uguale a se stesso, bensì intesa secondo una prospettiva più ampia e complessa, volta a considerare il sistema famiglia come un processo dinamico e suscettibile di cambiamento.

Posta questa premessa, per comprendere meglio come sia possibile fare della famiglia il proprio oggetto di osservazione, Bateson introduce il suo concetto di mappa. Traslando la locuzione di mappa di un territorio a quello di mappa di una famiglia, ci rendiamo immediatamente conto del limite insito nella mappa stessa.

Questa infatti, come ci ricorda Bateson nella sua opera “Mente e natura” (1979, 1984), non è il territorio, ma solamente la sua descrizione, un utile strumento che possiamo utilizzare per orientarci al suo interno.

Nel momento in cui facciamo di una famiglia il nostro oggetto di osservazione, una mappa di quella famiglia può essere utile per guidarci nella comprensione del suo funzionamento, ma certamente non possiamo credere di avere innanzi lo schema del suo funzionamento esatto.

Il Terapeuta deve infatti avere sempre ben presente che la descrizione che fa della famiglia non sarà mai la famiglia stessa, ma solo una sua “descrizione”, appunto.

Il Terapeuta, quindi, deve avere sempre l’umiltà di riconoscere la limitatezza della sua conoscenza circa la famiglia che ha innanzi, partendo dal presupposto che la verità per eccellenza non è raggiungibile, specialmente quando il livello di conflitto all’interno della stessa è molto elevato.

Proprio per questo motivo nella pratica sistemica si rende estremamente utile il confronto tra le parti: sia tra più terapeuti e sia, durante i colloqui, tra i vari membri dello stesso sistema familiare.

Durante i colloqui a impostazione sistemico – relazionale infatti, si possono rilevare due fondamentali momenti di confronto. Il primo si verifica quando in cui si invitano a partecipare i vari membri del sistema, proprio nel tentativo di avere a disposizione da un lato i punti di vista di tutti sulla medesima questione/conflitto, e dall’altra per osservare direttamente le relazioni e le dinamiche interne a quella famiglia. Il secondo momento di confronto, come precedentemente accennato, è quello tra terapeuti. Verso la fine della seduta infatti, se non addirittura durante il suo corso, i terapeuti coinvolti (chi direttamente in stanza di seduta, e chi indirettamente, dietro lo specchio unidirezionale) si confrontanto circa ciò che è emerso dall’incontro con la famiglia in terapia. In questo modo, grazie all’attenzione prestata da più persone alla stessa seduta, si ha la possibilità di cogliere un maggior numero di elementi circa le relazioni tra i membri, le coalizioni nascoste che magari sfuggono a uno ma “saltano all’occhio” all’altro…, tutti elementi utili e fondamentali per un corretto proseguimento della terapia.

Nel momento in cui si attua un’osservazione diviene dunque ovvio, alla luce delle premesse fatte e come più volte ripetuto, che essa non può essere completamente oggettiva.

Nell’osservazione di una data relazione familiare infatti anche l’osservatore stesso, ovvero il Terapeuta, entra in gioco, non soltanto nell’atto di scegliere cosa osservare (inevitabilmente focalizzando la propria attenzione su un determinato aspetto, si trascura qualcos’altro), ma anche con i propri pregiudizi ed emozioni che quelle determinate dinamiche familiari suscitano in lui (risonanze).

Le risposte (verbali e non verbali) e gli atteggiamenti del Terapeuta stesso, a loro volta, non potranno non generare nel sistema famiglia altre risposte emozionali, secondo un processo di costante circolarità.

Conclusioni 

Nell’articolo presentato si è abbondantemente parlato delle linee guida teoriche che devono sottostare alla scelta dell’oggetto di osservazione nella seduta terapeutica.

A conclusione si propone pertanto una semplice ma ricca citazione che, a dire di chi scrive, è molto leggera, ma allo stesso tempo estremamente chiarificatrice di quanto esposto.

Come ci ricorda Umberta Telfener, psicologa clinica contemporanea:

«Se siamo noi a costruire le lenti attraverso le quali vediamo il mondo e quindi a fare emergere una realtà piuttosto che un’altra, la distinzione tra individuo e ambiente, tra paziente e clinico, […] così come la scelta di tracciare un confine attorno alla famiglia, all’individuo, alla coppia, la scelta di […] sottolineare gli aspetti patologici di una situazione oppure i punti di forza, la scelta di prestare attenzione alle idee, alle emozioni, all’inconscio e ai sogni o a tutti questi elementi insieme…diventano scelte soggettive ed arbitrarie, giustificate da teorie ed idiosincrasie personali che faranno emergere un mondo piuttosto che un altro […]».

(U. Telfener, 2002)