Autore: Dott. Fabrizio Ioppolo

vedi Sito Web dell’Autore http://www.teatroterapia.net/

 

 

“Come il Teatro si sta antropolocizzando così l’antropologia si sta teatralizzando”.

(G. Schechner)

L’antropologia teatrale è un laboratorio di ricerca interdisciplinare con cui poter studiare il legame tra individuo e gruppo, attraverso la rappresentazione si ha infatti a disposizione uomini che fingono di rappresentare altri uomini, (spazio per sperimentare un ritorno all’autenticità dei rapporti umani?).

L’antropologia teatrale di conseguenza studia il comportamento fisiologico e socioculturale dell’uomo in una situazione di rappresentazione (Barba), luogo di contatto fisico e concreto per eccellenza tra attori e spettatori. Tale modalità si sforza di comprendere l’uomo e mira a riconciliare l’arte e la logica, il pensiero e la vita, il sensibile e l’intellegibile.

 Mira a tradurre quello che sfugge alle categorie dell’intendimento, ciò che dunque non può essere riconosciuto in senso stretto, ma può tuttavia essere riconosciuto attraverso forme di espressione che aspirano all’incondizionato, all’assoluto, all’infinito, alla totalità “all’apertura al sacro”.

 L’attore scopre le qualità dell’anima passando per i segni gestuali e vocali, ritmi, parole, gesti, costituiscono gli strumenti dell’arte teatrale. Il teatro del resto nasce con la figura dello sciamano, ” il quale non si contenta di riprodurre o di mimare certi avvenimenti: li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza” (Lèvi-Strauss).

Nel rito teatralizzato prende forma l’unità corpo-mente, conscio-inconscio, staticità e movimento, quell’originario confondersi dell’io con il tutto.

 “Non sono un artista. Sono uno che fa il mestiere dell’interprete e che ha anche a che fare con l’arte, che interpreta non solo col talento, ma anche con l’intuizione e la sensibilità, il vecchio generico cuore, ma sempre nei suoi limiti” (Giorgio Strehler).

Il lavoro dell’attore è una meravigliosa scuola di autoconsapevolezza. Ed è proprio in questa pratica di autoconsapevolezza che l’arte dell’attore trova un profondo punto d’incontro con l’arte della vita, così com’è intesa dai taoisti e dai maestri zen. I maestri zen, hanno sempre esortato a superare ogni distinzione tra spirituale e materiale, nobile e ignobile…Tutto è uno.

Il lavoro dell’attore può essere ricondotto alla nozione di via, vale a dire di un cammino di disciplina che investe il corpo e lo spirito, richiede dedizione, pratica costante e umiltà nel cercare il proprio miglioramento.

L’attore è il primo spettatore del suo personaggio. Deve essere sempre vigile, attento. Nessun gesto, per quanto insignificante, deve sfuggirgli. Come uno specchio, non deve mai cessare di riflettere i pensieri, i sentimenti, i gesti che gli passano davanti. C’è poi la gioiosa attitudine di poter prendere qualsiasi forma, fare qualsiasi personaggio pur rimanendo se stessi: la consapevolezza di una distaccata identificazione col proprio personaggio.

Il vero attore così come il vero saggio non dovrebbe avere un “io” personale, (essere attore e spettatore di se stesso,  del proprio io-personaggio). Il superamento dell’io, lo sviluppo quindi di un’autoconsapevolezza che permetta di vivere le proprie vicende, tristi o allegre che siano, con il divertito distacco di uno spettatore, è fondamentale.

 Superato l’io la nostra coscienza diviene consapevole di tutte le cose nella loro profonda unità. Dunque la relazione teatrale implica la possibilità di una modificazione del campo della coscienza e della attenzione, ma anche del campo cognitivo, è quasi un rovesciamento dei procedimenti logici, psicologici e cognitivi che abitualmente ci orientano nella vita. L’attore non dirige l’attenzione sulle tecniche, sui registri emotivi, la sua attenzione è rivolta all’intero paesaggio della coscienza, l’attore non pone la sua attenzione ai singoli movimenti delle braccia, ne a dove mette i suoi piedi. La sua attenzione è fondamentalmente al di là del controllo soggettivo e dell’attenzione oggettiva, (acquisizione all’accesso della cosiddetta coscienza).

IL teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita, diceva Eduardo De Filippo. La vita vista in primo piano è una tragedia; in campo lungo una farsa (Chaplin). Chi riesce a vedere la vita al di là delle sue illusorie apparenze, non può non avere il senso della morte (annullamento di ogni presunzione, di ogni arroganza).

L’arte non è dunque soltanto finzione e illusione estetica, ma questione di vita e di morte, ricreazione di un nuovo cosmo, di un uomo nuovo. L’arte è vita e realtà all’ennesima potenza, così come la realtà può essere grande arte.

Drammateatroterapia

Dramma dal greco dran, significa letteralmente “compiere un’azione”, l’atto della drammatizzazione è essenzialmente un atto di svelamento, colui che fa arte, sia esso un artista o un paziente di arte terapia, dà forma ad uno stato d’animo, l’esperienza è basata sull’azione drammatica e sull’interpretazione di un ruolo.

I primi esempi di arte in terapia si trovano all’interno di quegli approcci orientati all’azione quali la Gestalt e lo Psicodramma, le basi teoriche della drammaterapia si possono ritrovare nel teatro, nel teatro terapeutico, nella psicologia e nella antropologia. Nonostante un drammaterapeuta possa essere essenzialmente addestrato come psicodrammista, psicoanalista o terapeuta gestaltico, è sempre necessario per lui conoscere i processi operativi delle altre discipline.

La formazione del drammaterapeuta comprende una doppia preparazione: in campo teatrale e in campo psicologico, pertanto una formazione psicologica è considerata parallela a quella della formazione teatrale.

Un drammaterapeuta deve padroneggiare il linguaggio teatrale nei suoi diversi aspetti, l’accento è posto sulle competenze artistiche e creative. Ai drammaterapisti a differenza degli psicodrammisti è richiesto di istruirsi all’improvvisazione drammatica e nelle arti teatrali, perchè costituiscono le basi del loro lavoro.

Questo perchè le tecniche dell’attore possono essere utilizzate come vie per una disciplina del sè per ottenere una dilatazione della percezione e magari della coscienza; il confine a cui è approdato la stessa ricerca teatrale: quello del setting terapeutico o trasformazionale, per una conoscenza di sè e della ricerca di senso, di equilibrio e di integrazione. Il teatroterapia può essere definito come una strada verso una più sana funzionalità psico-sociale, tramite l’attività creativa.

Il dramma e il teatro sono strettamente interrelati sebbene questa interazione sia spesso ignorata, il pericolo non risiede nella stretta relazione tra il terapeutico e l’estetico, ma nel facile collegamento tra questa forma particolare di teatro e il teatro convenzionale.

“Il teatro deve essere inatteso, deve guidarci alla verità attraverso la sorpresa, se l’abitudine ci porta a credere che il teatro debba iniziare con un palcoscenico, scene, luci, e poltrone, partiamo dalla strada sbagliata. Possono prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico: un uomo attraversa questo spazio mentre qualcun altro lo guarda e questo è tutto quanto di cui ho bisogno perchè s’inizi un atto teatrale. In teatro è l’immaginazione a riempire lo spazio” (Peter Brook).

Il metodo dell’improvvisazione guidata è il mezzo per trovare la chiave di interpretazione del personaggio. Le regole per prepararsi ad una buona improvvisazione sono: lavoro di fantasia creativa sull’antefatto, analisi dell’argomento e del personaggio (analisi generale e puntuale), scelta della tipologia dell’interpretazione. Una parte comporta: un personaggio, un ambiente, la situazione data e la situazione in movimento, senza battute prestabilite, senza copione, abbandonandosi di volta in volta allo svolgersi degli eventi.

Nel caso dell’interpretare sé stessi (in una situazione reale già vissuta), c’è da dire che per alcuni è molto difficile parlare di sé e rivivere esperienze personali davanti ad altri. Per riuscire invece ad affrontare una situazione immaginaria mai vissuta, è necessario (giocare con la fantasia creativa), rispondere alla domanda: “come agirei se mi trovassi in questa situazione?”

(Interpretare sé stessi)

Generalmente in un dialogo si hanno: un protagonista (colui che viene da fuori, entra nello spazio), e un antagonista (colui che abita lo spazio, si trova già in scena). Generalmente il protagonista è quello che formula la richiesta, mentre l’antagonista risponde alla richiesta o la domanda che gli viene posta. Nell’interpretare sé stessi, si attinge alla propria memoria emotiva, il passaggio in questo caso di solito avviene spontaneamente. E’ importante però ricordare che il personaggio ha una sua storia passata (antefatto) ed entra in una situazione venendone da una precedente. L’antefatto riguarda sia la “storia” del personaggio, che quella della situazione presente e passata. Bisogna attingere e ricorrere in ogni momento all’antefatto questo ci aiuta a tenere il personaggio, sia quando siamo chiamati ad interpretare noi stessi, attingendo soprattutto all’immaginario,  sia quando interpretiamo un personaggio attingendo ai testi classici. Ricostruendo una data situazione possiamo ritrovare un sentimento o uno stato d’animo. L’analisi dell’antefatto nell’improvvisazione, serve ad essere coerenti alla situazione data, (l’attore non recita parole, ma sentimenti), allora la battuta emergerà spontanea naturale ed assolutamente coerente alla situazione data. E’ inutile cercare di esprimere un sentimento senza partire “dalla storia che lo produce”. E’ utile sia al protagonista che all’antagonista porsi queste domande: chi sono?  (Nome storia ecc.), da dove vengo? (Da casa? Da quale città? Da quale estrazione sociale?). Quale è il motivo per essere qui? (Perché viene? Dove stà andando?). Quale è il rapporto sociale rispetto all’altro personaggio (superiore inferiore o paritario), quale è il suo stato d’animo?

Nell’improvvisazione bisogna attingere da sé stessi e dalle proprie caratteristiche personali, bisogna provocare impressioni emotive  che penetrano anche negli altri, eseguendo cose semplici e normali. Aprire la propria anima, “sentirsi”, prima nei confronti di sé stesso poi nei confronti degli altri; si sperimenta così una base interna attraverso l’analisi, l’immaginazione, la motivazione.