Autore: Dott.ssa Laura Messina

 

Introduzione
Il 17 dicembre del 1999, l’Assemblea Generale della Nazioni Unite ha dedicato la giornata del 25 novembre alla lotta contro la violenza sulle donne, promuovendo attività ed iniziative mirate alla sensibilizzazione di tale problematica. La data ricorda la figura di tre sorelle rivoluzionarie che, nella Repubblica Dominicana dominata dalla dittatura del regime di Rafael Leònidas Trujillo, lottarono per contrastare la mancanza di libertà e di progresso e che in seguito a tale forma di ribellione furono uccise. Nel nostro Paese, dal 2005 si celebra questa giornata, promossa dai centri antiviolenza nati su tutto il territorio italiano. Questo articolo ha l’obiettivo di fornire ai lettori e agli psicologi gli strumenti per familiarizzare con tale problematica, per comprenderla, per affrontarla e attraverso le pagine del libro “amori imperfetti”, della psicoterapeuta Maria Rita Parsi, dar voce alle storie di donne ferite da un amore malato, dannoso e imperfetto.

Violenza contro le donne: “capire per agire”
Spesso tendiamo a credere che la violenza sia un concetto che ascoltiamo dalle notizie in tv o alla radio o che leggiamo sui giornali. Altre volte le scene di violenza le abbiamo vissute attraverso i racconti di un’amica, di un familiare, di un paziente. Ma la violenza è veramente così rara? È realmente qualcosa che non potrà mai riguardarci? La violenza si manifesta soltanto con dei gesti fisici che recano ferite al corpo? E le conseguenze sono solo dei segni visibili? Come possiamo, noi psicologi, difendere le donne dal concetto di violenza se non le aiutiamo a comprenderne le dinamiche sottostanti, i pregiudizi e gli stereotipi che la società o la famiglia hanno inculcato negli anni?
Le donne che non hanno gli strumenti conoscitivi idonei e che hanno sviluppato delle credenze errate, tendono a pensare che la violenza sulle donne riguardi:

  • casi isolati, ma in realtà sono casi che vengono insabbiati, per la vergogna e il dolore;
  • donne con condizioni economiche, culturali, familiari e sociali svantaggiate, ma in realtà la violenza non si insidia esclusivamente in un “quadro povero”, ma trova terreno fertile in ogni tipo di cultura, di famiglia, di condizione economica;
  • donne che in qualche modo provocano la reazione aggressiva dell’uomo, ma in realtà nessun atteggiamento o comportamento autorizza “l’altro” a infliggere violenza.La cultura ha negli anni modellato un’immagine di uomo forte, potente, dominante, mentre la donna dipendeva dalla figura maschile economicamente e psicologicamente e il concetto di separazione o divorzio era lontano e inaccettabile. La cultura ha giustificato tacitamente la violenza tra le mura domestiche, ergendo il muro dell’omertà e del silenzio e “sposando” l’idea che “i panni sporchi si lavano in famiglia”, che un figlio ha comunque bisogno di due genitori e che se uno dei due è violento è perché ha subito dei traumi, perché è stanco dal lavoro, perché beve un po’ troppo.

Nel 2013, in una società che si autodefinisce, moderna, civile, che promuove giornate a difesa delle fasce deboli, che utilizza ogni forma di comunicazione per informare e per tutelare, non è più accettabile un clima di omertà, un mettere delle bende negli occhi per non vedere la realtà che ci circonda. Di violenza si può e si deve parlare in ogni sua forma e manifestazione. La violenza riguarda ogni forma di potere, di controllo e si manifesta attraverso dei soprusi fisici, sessuali e psicologici. (http://www.hotpeachpages.net/lang/italian/guida_bozza.pdf, pag. 7)

I tipi di violenza
Quali forme di violenza esistono? La violenza riguarda esclusivamente un maltrattamento fisico? E cosa intendiamo per violenza fisica?
Alcuni esempi:

  • Lui spinge la donna verso il muro con veemenza e aggressività
  • Lui ha rotto piatti e bicchieri
  • Lui dà schiaffi e calci infliggendo ferite al corpo etc…

E poi esiste una violenza psicologica, meno eclatante, più celata, ma non per questo meno dolorosa e drammatica.

  •  Lui fa sentire la donna piccola, indifesa, umiliata, sminuita, “sbagliata”
  • Lui critica il suo aspetto, il suo carattere, le sue azioni continuamente
  • Lui impedisce di coltivare amicizie, interessi, limitando la libertà personale
  • Lui tiene prigioniera la donna, minacciandola di farle del male o di farlo a se stesso
  • Lui la umilia davanti i componenti della famiglia o davanti il gruppo di amici etc

Esiste anche una violenza sottile, ma potente nella sua distruttività, cioè la violenza economica

  • Lui non accetta il fatto che la donna lavori, che possieda un conto corrente, in modo che quest’ultima debba dipendere da lui e non abbia alcuna libertà decisionale.

E infine esiste la violenza sessuale, cioè essere costretti a rapporti intimi senza la propria volontà.

  • Lui costringe la donna ad avere rapporti sessuali e non accetta un rifiuto
  • Lui la costringe ad avere rapporti sessuali con terze persone etc..

I“sintomi” della violenza subita

La donna che subisce violenza può sviluppare:

  • Sentimenti contrastanti di amore/odio, rabbia/comprensione, accusa/protezione verso chi la maltratta
  • Problemi sessuali e disprezzo per il proprio corpo
  • Bassa autostima, insicurezza e mancanza di fiducia negli altri e in se stessa
  • Mancanza di autonomia
  • Ansia anticipatoria per la paura di un abbandono (spesso già vissuto nell’ambito familiare d’origine)
  • Disturbi del sonno (insonnia)
  • Derealizzazione (sentirsi estranei nel proprio ambiente)
  • Disturbi dell’umore, apatia (distacco emotivo e assenza di sentimenti gradevoli e positivi), anaffettività (viene meno il sentimento affettivo e affettuoso verso persone e eventi), anedonia (incapacità di provare piacere)
  • Pensieri suicidari (nei casi più gravi)

Talvolta i rimedi a questi sintomi sono l’abuso di droghe, alcool, psicofarmaci per sedare un dolore troppo profondo per essere affrontato.

La difficoltà di dire basta
Perché nonostante le donne subiscano tali forme di violenza non riescono a ribellarsi, a chiedere aiuto, a dire “basta”? Possono celarsi infiniti motivi, come infinite e diverse, l’una dall’altra, sono le personalità e le storie di chi subisce violenza. È difficile per alcune donne separarsi dall’uomo violento, per paura di perdere i figli, per il terrore di ritorsioni, perché la famiglia e gli amici non sostengono; perché ammettere che quell’uomo idealizzato e amato indossa una maschera mostruosa, per alcune donne implica ammettere di aver fallito nella scelta, di aver deluso la propria famiglia, le proprie amiche che magari prima del matrimonio avevano espresso dubbi e critiche su quell’uomo. Alcune donne amano in modo patologico, si illudono che quell’uomo cambierà, che gli episodi di violenza cesseranno e pur di mantenere un sottile e precario equilibrio familiare adeguano la propria personalità a quella del compagno. Altre donne, con bassa autostima e carenza affettiva nelle relazioni primarie, si convincono di essere donne imperfette, di meritare una punizione per le colpe che devono espiare e che la loro vita non potrà essere diversa da come è. Ma come riporta la guida redatta dall’associazione Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, rivolgendosi alla donna: “tu non sei un problema, tu hai un problema” (http://www.hotpeachpages.net/lang/italian/guida_bozza.pdf pag.11). E tale problema non può essere affrontato da sola. La donna che subisce violenza ha bisogno di un sostegno esterno – in grado di ascoltare, comprendere, spiegare e trovare strade alternative – ma soprattutto necessita di tempo per elaborare il proprio vissuto e questo tempo, breve o lungo, deve essere rispettato. Oggi in Italia numerosi sono i centri antiviolenza che forniscono informazioni, consulenze e un supporto psicologico mirato.

La violenza negli “amori imperfetti”


“…Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…”
Lou Andreas-Salomé


La psicoterapeuta Maria Rita Parsi, nel libro “amori imperfetti”, attraverso la sua esperienza, i racconti di pazienti, di colleghi psicologi e psichiatri, prova a spiegare perché l’amore assume in molte coppie le sembianze di un “mostro”, capace di trasformare il sentimento di cura,
devozione, rispetto, in un sentimento violento, dannoso e imperfetto. Perché quell’uomo, padre, marito, zio etc… che sembrava un angelo, così premuroso, così presente, mostra improvvisamente un aspetto aggressivo e disarmante? Perché un uomo proietta su una donna la propria rabbia, la propria frustrazione e la propria aggressività?
L’amore dei genitori o l’assenza di cure sembra influenzare il comportamento del bambino e le sue idee sull’amore, sul come vivere e gestire le emozioni. Un bambino amato sarà un bambino sicuro, sereno e avrà un bagaglio di risorse ed energie per affrontare e superare anche il dolore, la sofferenza e le perdite. L’amore non è qualcosa di innato dentro di noi, ma qualcosa che si coltiva attraverso l’esempio, la ricerca e la crescita personale. Un bambino non amato al contrario subirà “una ferita, fatta di disagio, di possibili difficoltà e di disadattamenti” (pag. 206).
Il bambino non amato che ha sperimentato l’assenza, l’umiliazione porta con sé una quota di dolore che con gli anni può trasformarsi in comportamenti violenti. La vittima può trasformarsi in carnefice, chi subisce passivamente, nel passato, può infliggere sofferenza all’altro, nel presente; chi sente di aver subito un’ingiustizia può colpevolizzare l’altro che diventa capro espiatorio di un malessere che trae origine da dinamiche familiari passate. Chi ha sperimentato l’abbandono “ieri” può coltivare l’idea che solo il possesso e la minaccia possono tenere legati a sé “oggi” le persone amate, per la paura drammatica e angosciante di rivivere un altro abbandono.
Maria Rita Parsi, nel libro scrive: “siamo l’amore. Ciascuno di noi è l’amore che ha ricevuto. È l’amore che saprà darsi, accettare di ricevere, ricambiare, donare… e se lungo il percorso della nostra vita, abbiamo ricevuto amore e lo abbiamo provato o se ne siamo stati privati e non riusciamo ad amare, questo fa veramente la differenza… Noi siamo fatti delle storie d’amore, felici o infelici, rasserenanti o complesse, spossessanti o rigeneranti, che abbiamo vissuto, che viviamo e che vivremo. E prima ancora, siamo il frutto delle storie d’amore, riuscite o dannose, dei nostri genitori”.

La storia di Paola

Nelle pagine del libro Maria Rita Parsi riporta la storia di Paola, una donna che si autodefinisce “frutto del peccato”, perché la madre aveva rifiutato l’idea della gravidanza, rinnegandola in tutti i modi e cercando invano, di non portarla a termine. Paola, dopo la nascita, trascorre i primi dieci anni in un collegio, per poi ritornare a casa della madre, che nel frattempo si era sposata e aveva avuto due figli. Il ritorno a casa è l’inizio di una vita di sofferenze e violenze perpetrate dal patrigno, sia fisiche che psicologiche. Intorno ai 15 anni, inizia a lavorare come aiuto commessa in una merceria, perché il lavoro rappresentava la fuga da casa, dalla violenza, da “quell’odio ingiustificato” del patrigno. Ma gli “orchi” si celano anche nei rifugi apparentemente più sicuri e il datore di lavoro un pomeriggio, nel retrobottega, “prese quello che restava della sua povera e disperata fanciullezza”. Il dolore, l’umiliazione, il sentirsi disarmata e profondamente sola hanno reso Paola una donna piena di odio verso quell’uomo e verso la propria sfortunata esistenza. E la ricerca di una nuova via di fuga, lontano dai ricordi, dalla violenza la spingono nelle braccia di un uomo che Paola sposa all’età di ventuno anni e che decide di seguire nel suo paese natale. Ma quell’uomo “ancora di salvezza”, si trasforma presto in un marito “geloso, bugiardo, violento” , che ripetutamente la picchia, anche in presenza di terze persone. Anni di violenza, umiliazione, profonda solitudine e mancanza di amore trascinano Paola nel “luogo oscuro” – luogo che i medici e noi psicologi definiamo depressione – e una delle conseguenze di tale malattia è un tentato suicidio. Nonostante il gesto estremo di Paola, la violenza del marito continua a ripetersi e manifestarsi in ogni sua forma, fisica, psicologica, sessuale. Paola rimane incinta, ma “il figlio non nacque mai, la sua vita fu stroncata da un calcio di suo padre”. Dopo una paralisi generata dalla paura e dal dolore, Paola riesce a fuggire da quell’uomo violento e a ritornare nel proprio paese e ad ottenere dopo circa tre anni la separazione legale.
“Chi ha ricevuto dalla vita tante sofferenze, ha bisogno di serenità, di affetto. Ha la necessità anche di trovare dentro di sé tanta forza di volontà e le migliori energie per guardare alla vita con serenità e fiducia”, nonostante tutto (pag. 96).

Conclusioni
Dalla violenza ogni donna può liberarsi. E’ importante non commettere l’errore di considerare la violenza esclusivamente il frutto di una patologia, di un disturbo di personalità, di carenze affettive, perché la violenza è anche figlia di una cultura del possesso, “tutto ciò che posseggo diventa mio”; l’altro diventa oggetto e non soggetto diverso da me; l’amore diventa prigione e non lo strumento più prezioso per esplorare, per creare, per donare, per condividere, per accettare la diversità reciproca che rende ogni coppia di persone uniche e mature.
È importante che ogni donna coltivi il sogno di un amore “generoso, aperto, disposto all’ascolto” (pag. 12)… “motore di ogni esplorazione, gratificazione, scoperta” (pag. 16); che ogni donna sia consapevole che “esistono uomini diversi… uomini che rispettano le donne… perché rispettano se stessi” (pag. 164); che ogni donna dentro di se trovi “la forza di non accettare, di dire no, di andare via, di non sottostare alla legge dell’impotenza” (pag. 175).


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