Autore: Mariano Pizzimenti

in Figure Emergenti – Rivista della Scuola Gestalt di Torino Num. I, 2 Aprile 2013 (http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/08/Figure-Emergenti_aprile20131.pdf)

 

La pratica della Gestalt è molto cambiata negli ultimi anni, perché molto è cambiato l’ambiente in cui viviamo. Secondo alcuni colleghi è diventata meno aggressiva, come mi è capitato di ascoltare recentemente ad un convegno in cui si proponeva di smettere di usare il termine aggressività e sostituirlo con “assertività”. Io credo invece che in Gestalt il concetto di aggressività sia tutt’ora centrale per comprendere il muoversi dell’organismo nel proprio ambiente. Forse è arrivato il momento di dedicare più attenzione all’aggressività e di comprenderla in tutta la sua ampiezza.

Nella terapia della Gestalt usiamo il termine aggressività principalmente nel suo senso etimologico di ad-gredere, cioè di andare verso, ma non solo. Nell’uso corrente l’aggressività viene considerata sinonimo e quindi confusa con la violenza.

Quest’ultima però rappresenta solo una particolare forma di aggressività in cui si ignorano volutamente i confini dell’altro e i suoi tentativi di mantenerli. La confusione non è però del tutto immotivata, perché nel concetto di aggressività non c’è solo l’andare verso l’altro, ma andarci per soddisfare un proprio bisogno, per ottenere qualcosa che vogliamo e spesso la soddisfazione di un bisogno comporta una violazione dell’ambiente.

La soddisfazione del bisogno nell’ambiente è talmente importante nell’atto aggressivo, che alla fine è questo parametro a connotare principalmente l’aggressività, facendo scivolare in secondo piano il movimento verso l’altro. Se ci sentiamo aggrediti la domanda classica che poniamo è “COSA VUOI DA ME?” e non invece “COME VIENI DA ME?” che pure dovrebbe essere per noi più importante perché è di questo che ne viviamo gli effetti : il “cosa vuole” riguarda principalmente l’aggressore, ma il “come lo vuole” riguarda tutto l’ambiente.

Quando parliamo di aggressività, parliamo dunque di un fenomeno complesso che comprende la capacità di agire un moto verso l’ambiente o di provocare un moto dell’ambiente verso di noi e la capacità di soddisfare un bisogno. Bisogno che però non è rappresentato necessariamente da una mancanza, ma anche da un eccesso, e quindi il bisogno di liberarmi di qualcosa, di lasciare o rispedire o distruggere qualcosa nel o dell’ambiente.

La violenza, come l’invasione o come lo stesso contatto, sono resi possibili dall’aggressività. Anzi, possiamo affermare, che l’aggressività ha come scopo il rendere possibili una o più di queste tre dinamiche tra organismo e l’ambiente : l’invasione, la violenza o il contatto. Nessuna di esse sarebbe possibile senza un’azione aggressiva, neanche il contatto e nessuna di esse è negativa o positiva a priori, neanche la violenza.

Partiamo dall’invasione. Noi invadiamo l’altro quando oltrepassiamo i suoi confini senza essere invitati. In un processo di contatto questa è spesso un’esperienza inevitabile. Nel cercare il contatto con l’altro io posso oltrepassare i suoi confini senza accorgermene. Magari perché questi sono incerti, poco chiari o eccessivamente permeabili. Oppure perché io sono preda di un’urgenza che mi rende disattento rispetto ad essi. Quando però me ne accorgo posso fare un passo indietro e riportarmi sul confine di contatto.

Immaginate di essere per strada e vedere una persona che inciampa e cade. Voi vi precipitate e lo afferrate per un braccio per aiutarlo ad alzarsi. L’urgenza vi fa invadere il suo spazio fisico senza darvi il tempo di chiedergli il permesso. Se però la persona vi guarda imbarazzata dicendo:”faccio da solo”, voi lo lasciate andare immediatamente, fate un passo indietro e gli chiedete educatamente se ha bisogno di qualcosa. Questa esperienza di andare verso, invadere, fare un passo indietro e assestarmi sul confine di contatto è proprio di qualsiasi processo di contatto.

L’invasione può essere ridotta al minimo solo se ci diamo il tempo per un adeguato pre-contatto. Veniamo alla violenza. Essa comincia quando io invado i confini dell’altro e, nonostante le sue proteste o l’evidenza che gli sto arrecando un danno, resto all’interno dei suoi confini per soddisfare il mio bisogno. Se ballando con una ragazza un giovanotto le da un bacio sul collo (azione non prevista dal ballo), ha invaso il suo spazio. Se la ragazza sospira e si abbandona tra le sue braccia, gli sta dando il “benvenuto” e allora l’invasione diventa contatto, perché lei ha spostato il suo confine li dove lui è andato. Ma se la ragazza si irrigidisce, gli dice che ha solo voglia di ballare e lui comincia a ridere le poggia una mano sul sedere e la stringe a se, questa è violenza. Non commettiamo però l’errore di attribuire alla violenza una valenza negativa a priori.

Noi siamo esseri “naturalmente” violenti, in quanto appartenenti al regno animale. Noi non abbiamo la capacità di assorbire le sostanze nutritive direttamente dal terreno o dall’aria, come fanno le piante. Noi abbiamo bisogno di togliere la vita ad altri esseri viventi per sopravvivere. Letteralmente la nostra vita si poggia sulla morte. Difficilmente però qualcuno riconosce la violenza nell’atto di strappare un cespo di insalata. Eppure è quello che stiamo facendo : stiamo violando l’insalata. Per non parlare di quando mangiamo un pollo o un pesce.

La nostra sopravvivenza si appoggia sulla violenza almeno finché non evolveremo ulteriormente e saremo in grado di nutrirci attraverso lo scambio, invece che attraverso l’appropriazione.

Quindi l’aggressività è uno strumento fondamentale per una relazione soddisfacente tra l’organismo e il suo ambiente. Come tutti gli strumenti non ha una valenza etica o morale a priori. Sono io che mi assumo la responsabilità del suo utilizzo e delle forme in cui la esprimo. Aggressività e responsabilità dovrebbero essere indissolubilmente legati in un adulto. Io devo sviluppare l’abilità di sviluppare nell’ambiente la forma di aggressività più adatta e di assumermi il peso di questa abilità e delle conseguenze che ne deriveranno. Se definiamo l’autonomia come la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie dipendenze, possiamo definire l’aggressività adulta come la capacità di assumersi la responsabilità delle azioni necessarie a soddisfare i propri bisogni e desideri.

FORME DELL’AGGRESSIVITÀ NEL CONTATTO

Andiamo adesso a delineare diverse forme che l’aggressività può assumere e che possiamo differenziare in base alle diverse intenzionalità di contatto che esprimono.

1. AGGRESSIVITA’ RESPIRATORIA. E’ alla base di qualsiasi altra forma di aggressività. Il primo atto di appropriazione del bambino verso l’ambiente è il respiro ed è anche il primo atto di invasione (quindi aggressivo) dell’ambiente verso il bambino. Lo stesso Perls, verso la fine della sua vita, ritenne errato aver considerato la fame, diversamente dalla libido di Freud, il primo vero movimento vitale dell’essere umano, spostando quindi l’attenzione al respiro in quanto precedente. Il punto è che siamo talmente confluenti col respiro da non accorgerci di come influenzi ogni nostro moto verso l’ambiente. Qualsiasi azione o emozione è preceduta da un cambio di respirazione ed è sostenuta da una respirazione adeguata. In Gestalt noi stiamo molto attenti alla respirazione perché siamo consapevoli che ogni cambio di ritmo respiratorio segnala un’interruzione di contatto con un processo e l’instaurarsi di un nuovo contatto con un altro.

Qualsiasi movimento comincia con un atto di aggressività respiratoria. A questo riguardo c’è da sottolineare la grande importanza che i tre diaframmi principali gola, plesso solare e pelvico hanno nello sviluppo della nostra aggressività. A stati d’animo cristallizzati, corrispondono stati di contrazione o rilassamento cristallizzato di questi diaframmi. L’ansia comporta sempre un ansia da soffocamento, come ha ben spiegato Perls (1), e a questa corrisponde una forte contrazione del diaframma del plesso solare con un eccessivo rilassamento del diaframma della gola, da cui il senso del cuore in gola e l’impossibilità di espirare adeguatamente, o una eccessiva contrazione di quest’ultimo, da cui il senso del nodo in gola. Un eccessivo rilassamento del diaframma pelvico impedisce una buona respirazione addominale, così come una contrazione cronica. Una respirazione piena e profonda presuppone un armonico susseguirsi di contrazione e rilassamento dei tre diaframmi in questione. Anche il processo del radicamento corporeo, del grounding, secondo me non deve essere immaginato come un radicamento al suolo (come fa ad esempio la bioenergetica), ma un radicamento nella nostra corporeità ed, in particolare, al nostro pavimento pelvico, fatto attraverso una respirazione profonda. Lavorare sulla respirazione in terapia o in counseling è prima di tutto un processo di avvicinamento della funzione io alla f. es e alla f. personalità sul confine di contatto, perché aiuta me e il paziente ad entrare in contatto con cambiamenti avvenuti a livello della funzione es senza che la f. io fosse chiamata in causa.

L’attenzione ai cambiamenti respiratori sia dell’altro che miei ci aiutano a consapevolizzare l’esperienza dell’incontro tra le nostre intenzionalità che noi chiamiamo confine di contatto. Imparare a sostenersi con diverse respirazioni, significa imparare a sostenere tutte le nostre forme di aggressività.

Per esempio se sostengo una persona a sedersi in modo da sentire che si sta appoggiando sull’ano, sul perineo e sui genitali e poi lo invito a contrarre quest’area più i muscoli addominali quando espira e rilassarli ed espanderli inspirando profondamente, facilmente la persona sperimenterà un senso di maggior forza, mentre la schiena si raddrizzerà come conseguenza dell’espansione dell’addome e non dell’irrigidimento dei muscoli della colonna e/o delle spalle.

Questo non è un insegnamento di tipo idealistico, cioè non mira a dare alla persona un modello da seguire, ma bensì a sperimentare un possibile sostegno al suo essere nel mondo, come questo essere sia legato al moto verso il proprio ambiente e come questo moto sia aggressivo e corporeo.

2. AGGRESSIVITA’ ORALE. – Con questo termine intendo una forma di aggressività in cui io trasformo l’ambiente in me senza nessun lavoro di decostruzione o destrutturazione preventiva. Il termine orale si rifà all’espressione freudiana di “oralità passiva”, cioè alla prima volta in cui sperimentiamo un’aggressività verso e dall’ambiente. Quella fase di sviluppo del bambino in cui lui succhia il seno materno prima della comparsa dei denti. Durante questa esperienza il bambino non opera nessuna forma consapevole di destrutturazione del cibo prima di ingoiarlo, il nutrimento gli arriva in una forma che lui può direttamente ingoiare. Non è vero però che non operi nessuna forma di destrutturazione dell’ambiente esterno. Il pianto del neonato è uno strumento potentissimo di azione sull’ambiente. Nessun adulto non patologico è in grado di restare indifferente davanti al pianto di un neonato. Quindi possiamo affermare che il neonato non è impotente di fronte all’ambiente, anzi, è perfettamente strutturato per provocare nell’ambiente un’azione aggressiva verso di lui, per portare cioè l’ambiente a prendersi cura dei sui bisogni.

Quindi possiamo allargare il concetto di aggressività orale a tutti quei comportamenti che portano l’ambiente a soddisfare i nostri bisogni, senza che da parte nostra ci sia un’azione diretta sull’oggetto del nostro bisogno. Nella vita relazionale adulta questa forma di aggressività la ritroviamo in molte forme di manipolazione in cui appunto portiamo l’ambiente a darci quello che vogliamo senza una nostra azione sull’oggetto desiderato. Mi ricordo che quando ero un ragazzino la parola “voglio” era assolutamente proibita. Se andando in giro con mio padre io avessi detto :”Papà voglio un gelato”, non solo non lo avrei mai ottenuto, ma sarei anche stato severamente sgridato. Ecco che allora io avevo imparato a “parlare” del gelato. Potevo per esempio fare commenti generici tipo :”Sai mi hanno detto che i gelati di frutta sono fatti con l’acqua.” Al che mio padre mi faceva immancabilmente una spiegazione sull’argomento per poi concludere : “Vuoi un gelato ?” Vittoria ! Il gelato arrivava senza che io avessi fatto nessuna azione “aggressiva” verso il gelato. E’ interessante notare che, nell’esempio fatto, io avevo già sviluppato altre forme di aggressività, come quella dentale 2. di cui parlerò più avanti, e che questo è quindi un esempio di ritorno consapevole all’uso di un’aggressività orale. Uno dei motivi per cui torniamo consapevolmente all’aggressività orale, anche in età adulta, è, per esempio, quando riteniamo di non avere sufficientemente potere nei confronti dell’ambiente.

Ci sono però anche forme inconsapevoli in cui l’aggressività orale viene agita dagli adulti, per esempio nelle aspettative. Quando io mi “aspetto” qualcosa dagli altri ritengo di non dover fare niente perché questo avvenga. L’aspettativa è diversa dal volere o desiderare qualcosa. Se io “voglio” che tu mi compri il giornale mentre vieni a casa, attuerò una serie di azioni per “cercare” di ottenerlo da te, consapevole che posso riuscirci oppure no. Ma se io mi “aspetto” che tu ci penserai a comprare il giornale, non farò assolutamente nulla e sarò deluso e/o sorpreso se tu non dovessi portarmelo. Altre espressioni di aggressività orale sono le lamentele. Nella lamentela non c’è nessuna azione responsabile per ottenere quello che voglio. C’è solo un’espressione di dolore, nella speranza che qualcuno faccia quanto necessario affinché io possa essere soddisfatto.

L’apprendimento acritico, privo cioè di quella forma di aggressività che Perls ha definito “dentale”, è un’altra forma di aggressività orale. L’istruzione scolastica sostiene i giovani ad utilizzare l’aggressività orale tutte le volte che li costringe ad imparare concetti che non capiscono o per cui non riescono a sviluppare interesse. In questo caso i giovani vengono invitati ad utilizzare l’aggressività orale per “introiettare” concetti alieni e che resteranno tali dentro di loro. Non voglio dare però l’impressione che l’aggressività orale sia una forma di aggressività che dovrebbe sparire nell’età adulta e che denoti, quando agita, sempre una mancanza di potere e un retrocedere ad uno stadio meno evoluto.

Ricevere senza chiedere o essere nutriti senza fare la fatica di trasformare, può essere molto piacevole e certe volte vale la pena di correre il rischio della delusione, come quando un innamorato si aspetta che la sua donna si ricordi del suo compleanno. L’importante è rendersi conto che sto costruendo un’aspettativa e non che “è la cosa giusta” che l’altro si ricordi del mio compleanno. In realtà l’innamorato sta agendo una sorta di test per verificare se il modo di amare dell’altro è simile al suo. Se sono consapevole di questo allora va bene.

3. AGGRESIVITA’ DENTALE. Questo termine è stato sviluppato da Fritz Perls che era in disaccordo con ciò che Freud diceva riguardo all’oralità aggressiva. Col termine oralità aggressiva Freud indicava l’atto di mordere il capezzolo che a volte il bambino fa quando gli spuntano i denti. Per Freud questo era il segnale di un’aggressività distruttiva del bambino verso l’oggetto d’amore, cioè il seno materno. Per Perls invece, l’atto di mordere il seno, segnala solo il passaggio ad una nuova forma di aggressività che il bambino comincia a sperimentare ma che ancora non conosce e non sa utilizzare correttamente : l’aggressività dentale. Con la comparsa dei denti il bambino acquisisce la capacità di distruggere il cibo per poterlo ingoiare. Questo lo mette in grado di allargare enormemente il panorama di alimenti che ha a sua disposizione. In pratica il bambino impara che anche se l’ambiente esterno si presenta a lui in una forma che non è direttamente assimilabile, è impossibile ingoiare un grosso pezzo di carne, lui però grazie ai denti può destrutturarlo per poi poterlo ingoiare ed assimilare. Già molto è stato detto nella terapia della gestalt rispetto a questa forma di aggressività, per cui rimando ad altre letture sull’argomento. (F. Perls – L’Io la fame e l’aggressività- ed. Giusti e F. Perls, R. F. Hefferline, PGoodman – Teoria e pratica della Terapia della Gestalt – ed Astrolabio vol 2° cap 8 )

4. AGGRESSIVITA’ ANALE. Anche questo termine è stato utilizzato da Freud per descrivere uno stadio evolutivo del bambino e precisamente quello durante il quale il bambino comincia ad acquisire il controllo degli sfinteri e quindi ad esercitare il controllo della capacità di liberarsi di qualcosa che è dentro il suo corpo. Durante questo periodo il bambino sviluppa anche le sue capacità oppositive rispetto al mondo, la capacità di dire di no. In 4. termini relazionali adulti, con il termine aggressività anale indichiamo l’azione di indirizzare verso l’ambiente qualcosa che noi non vogliamo più o di rimandare all’ambiente qualcosa che da questo viene verso di noi e che noi rifiutiamo. E’ l’aggressività che ci serve per separarci da un compagno con cui abbiamo avuto una storia d’amore ma che ora non amiamo più, per licenziarci da un lavoro che non soddisfa più le nostre esigenze, per abbandonare la città in cui siamo nati ma che ormai sentiamo troppo angusta per i nostri progetti e ancora per allontanarci dalla famiglia d’origine, così protettiva, ma che frustra il nostro bisogno di volare. E’ l’aggressività che ci serve per rifiutare un corteggiatore troppo insistente, per difenderci da una persona che tenta di sottometterci, per fare uscire da casa nostra un amico con cui in quel momento non abbiamo più voglia di parlare.

Rispetto alle due forme di aggressività di cui abbiamo parlato prima, questa presenta un segno algebrico opposto. Sia l’agg. orale che quella dentale assecondano l’intenzionalità di appropriarci di qualcosa dell’ambiente, quindi il verso è dall’ambiente verso di noi. In quella anale il verso è da noi verso l’ambiente, perché l’intenzionalità espressa è quella di rimandare all’ambiente qualcosa che era stato indirizzato verso di noi o che fino a poco prima ci era effettivamente appartenuto. L’aggressività respiratoria ha come caratteristica un veloce ed incessante susseguirsi di questi segni algebrici. Tutte e quattro queste forme di aggressività obbediscono ad un intenzionalità di appropriazione, espressa col segno più (voglio che sia mio) o col segno meno (voglio che sia non mio). L’aggressività anale riveste una grande importanza per esempio per affrontare situazioni di impotenza in cui noi abbiamo l’impressione di non avere strumenti per contrastare un ambiente oppressivo. Ricordo un lavoro di alcuni anni fa con una paziente che viveva una situazione di impotenza e frustrazione nei confronti di un padrone di casa vessatorio e invadente (lei era in affitto), nei cui confronti lei si sentiva assolutamente impotente se non accettando l’idea di cambiare casa, cosa che lei non avrebbe voluto perché l’alloggio le piaceva molto ed era molto comodo in rapporto al suo lavoro. Con lei lavorai sulla possibilità di fare un rito woodo, cioè modellare una statuetta di cera che rappresentasse questo uomo odiato e poi infilzarla con degli spilloni augurandogli ogni sorta di disgrazie.

Superati i sensi di colpa legati al timore di un’onnipotenza magica, la paziente pian piano recuperò il senso di poter utilizzare il proprio malessere e uscì dal suo senso di impotenza, fino a riuscire a modificare il proprio rapporto con questa persona. Questo è un esempio di un uso di ciò che Freud avrebbe chiamato sadismo anale per uscire da una dinamica di impotenza e trovare un modo di trarre forza dalla propria intenzionalità di contatto dando dignità ai propri vissuti di odio. Poter accettare di desiderare il male di una persona che ci fa soffrire, richiede un buon sviluppo di questa forma di aggressività, per poter dare dignità anche a quegli aspetti di noi che giudichiamo “brutti, sporchi e cattivi” e trovare una forma di espressione “contenuta” che non ci renda bloccati nella diade “essere bloccati, impotenti e sopportare” oppure “compiere azioni socialmente insostenibili “

5. AGGRESSIVITA’ SESSUALE. Con questo termine intendo una forma di aggressività che presenta una diversa intenzionalità rispetto alle tre viste finora. L’aggressività sessuale non obbedisce ad un’intenzionalità di appropriazione ma bensì ad un’intenzionalità di scambio. Il fine è quello di rendere i confini sia miei che dell’altro più permeabili per permettere che avvenga uno scambio tra di noi. Il mezzo che l’aggressività sessuale utilizza per raggiungere questo scopo è l’eccitazione, che crescendo fa vibrare i confini e li rende quindi meno omogenei. Perché utilizziamo il termine “sessuale” ? Per due motivi principali. Il primo è che la forma più evidente di eccitazione che rende i nostri confini permeabili al fine di permettere uno scambio tra le persone coinvolte è il coito. Durante il rapporto sessuale assistiamo proprio a questo fenomeno: l’eccitazione cresce continuamente rendendo i confini sempre più permeabili. Le persone scambiano emozioni, contatti, fluidi organici, fino al momento dell’orgasmo in cui i confini si dissolvono per qualche attimo permettendo 5. un’esperienza di fusione con il tutto, cioè noi non percepiamo più le differenze. Il secondo è che l’esperienza di questa forma di aggressività è essenzialmente piacevole e spesso, nel momento che si dispiega completamente, porta con se anche sensazioni genitali. Questo non significa che l’agg. sessuale comporti sempre un coinvolgimento “genitale”, ma che sempre comporti uno scambio caratterizzato da elevata eccitazione . Pensate all’allievo che fa domande all’insegnante per meglio comprendere una lezione. Se le domande si limitano a cercare di decostruire ciò che precedentemente l’insegnate ha spiegato, per permettere all’allievo di comprenderlo ed assimilarlo, stiamo assistendo ad un utilizzo di aggressività dentale.

Ma se le domande dell’allievo si fanno acute, esprimendo quindi un interesse che nasce da un processo di assimilazione già avvenuto per cui non c’è solo un chiedere, ma anche un offrire stimoli nuovi all’insegnante, ecco che quest’ultimo si eccita e comincia a chiedere all’allievo come sia giunto a certe conclusioni, facendo obiezioni, ma anche sviluppando nuove ipotesi partendo proprio dalle intuizioni dell’allievo. Ecco che tra i due comincia ad avvenire uno scambio, i confini di entrambi sono permeabili ed eccitati. Nessuno dei due è interessato ad appropriarsi di qualcosa dell’altro, ma a scambiare e creare qualcosa di nuovo.

Da quanto detto emerge una considerazione : l’aggressività sessuale tende a sostenere una relazione tra pari.Non tra uguali, ma tra pari. Non ha importanza che la quantità di ciò che io do all’altro sia uguale a quella che ricevo, l’importante è che ognuno dei due si riconosca di avere qualcosa da dare all’altro, cioè che entrambi abbiano pari dignità, cioè che abbiano qualcosa di degno da trasmettere e che questa dignità sia riconosciuta reciprocamente.

Dal mio punto di vista grossa parte del lavoro terapeutico o di counseling consiste infatti nel dare “dignità” alle esperienze dell’altro. La parola dignità ha un etimologia complessa perché deriva dal latino “dignus” cioè degno e dal greco “axios”, cioè assioma. La combinazione di questi significati ci indica che la dignità esprime un valore intrinseco alla persona che non dipende dalle sue azioni o scelte, ma da una sorta di nobiltà non dimostrabile e intima propria di ogni essere.

Riconoscere dignità ad un vissuto, ad un’emozione, ad uno stato dell’essere, vuol dire sostenere un radicamento dell’essere nel mondo della vita in cui egli sente di avere il diritto di occupare uno spazio per il solo fatto di essere nato. Ecco perché la pena di morte nega la dignità degli esseri umani, perché non riconosce più questo diritto di base. Ed ecco anche perché spesso ai dittatori o a persone molto odiate (pensiamo a Bin Laden) tocca in sorte la morte a volte anche senza processo, perché la punizione peggiore è privare un essere umano della propria dignità. Non lo si riconosce più come un pari, ma come un essere diverso, inferiore: indegno.

Quando sperimentiamo ed esprimiamo la nostra aggressività sessuale è importante renderci conto se è possibile uno scambio tra pari. Quando si gioca con un bambino è facile sentire la propria aggressività sessuale, perché il bambino la vive con grande forza e eccita i nostri confini stimolando la nostra. Diventa allora importante che l’adulto riesca a rendersi un pari del bambino, per esempio giocando giochi adatti alla sua maturazione sia fisica che psichica e cercando in se stesso i propri ricordi di bambino per contattare quel tipo di piacere. Questo l’adulto lo può fare, perché un grande può essere anche piccolo ( come ad esempio facciamo quando ci accucciami per metterci allo stesso livello del bambino), ma un piccolo non può diventare grande prima del tempo, ad esempio sperimentando un contatto erotico in una forma non adatta alla sua maturazione fisica e psichica. Questo è il motivo per cui la pedofilia toglie dignità al bambino e non avrebbe neanche senso in questo caso dire che l’adulto ha espresso dell’aggressività sessuale, perché viene meno il presupposto di scambio tra pari. Sarebbe più corretto parlare di aggressività anale o dentale, ma non sessuale

Quindi riconoscere l’altro come un pari, vuol dire sostenere la sua dignità. Riconoscere che l’altro ha qualcosa di degno da darmi ed io qualcosa di degno da scambiare con lui vuol dire riconoscere la nostra reciproca essenza di esseri umani che hanno il diritto di prendersi dello spazio in questo mondo, cosa che in molte forme di sofferenza, la persona ritiene di non potersi prendere. In tutte le tre forme di aggressività precedentemente esposte (dentale anale e sessuale) è importante dare dignità alle esperienze ed ai vissuti della persona, ma ciò diventa importantissimo nell’aggressività sessuale, proprio per questa sua caratteristica di sostenere lo “scambio tra pari” che è l’esperienza in cui maggiormente sperimentiamo la nostra “dignità”.