Autore: Gianni Francesetti

in Figure Emergenti – Rivista della Scuola Gestalt di Torino Num. III – Aprile 2012 (http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/08/Newsletter-MOD23.pdf)

 

Trascriviamo un brano che descrive tre possibili approcci nel lavoro corporeo nella depressione grave,tratto da: Francesetti G. (2011) Alcune Gestalten delle esperienze depressive, in: Francesetti G., Gecele M., L’altro irraggiungibile. La psicoterapia della Gestalt con le esperienze depressive, Angeli, Milano, pag. 154-156.

“Un altro punto importante è mobilizzare l’energia: la stanchezza anche estrema di chi è depresso non è la conseguenza di un’azione compiuta, ma dell’essere disimpegnato da ogni situazione: è una stanchezza che non viene dopo l’impegno e lo sforzo, ma che accade al posto dello sforzo. Si tratta di due affaticamenti diversi e chiaramente distinguibili; quello depressivo ha aspetti paradossali: è più forte al mattino, aumenta con l’inattività, trova sollievo quando si compiono sforzi fisici. Mobilizzare l’energia, muoversi, stancarsi fisicamente è sempre una buona esperienza per chi vive esperienze depressive: questo fatto va tenuto presente sia in terapia, dove è importante valorizzare ogni possibilità in tal senso, sia al di fuori della seduta, proponendo attività che sostengano il soggetto in tal senso. Ad esempio, dopo una lunga camminata l’umore può migliorare per diverse ore e ogni esperienza di sollievo in seguito ad un’azione scalfisce il senso di impotenza che caratterizza il mondo di chi è depresso. Si tratta di una prima modalità di lavoro corporeo con il paziente depresso, che si focalizza sulla mobilizzazione funzionale. Qualsiasi attività motoria o sportiva si inscrive in questo orizzonte: in primo piano vi è il muoversi del paziente.

In secondo luogo, il lavoro corporeo può essere finalizzato all’ampliamento della consapevolezza che aumenta le possibilità sensoriali e motorie del corpo. A questo livello, l’effetto non è solo di avere un corpo mobilizzato, più efficiente, ma anche più vivo, sensibile, libero e creativo. Ogni esercizio di ampliamento della consapevolezza si inserisce in questa prospettiva: in primo piano vi è il sentire del paziente mentre si muove.

Un terzo tipo di lavoro corporeo è specifico dell’approccio gestaltico perché la finalità del lavoro è l’esplorazione dei fenomeni di contatto. In primo piano vi è il sentire del paziente e del terapeuta mentre il paziente si muove (o non riesce a muoversi) verso il terapeuta. Il lavoro con i vissuti corporei (le percezioni e il movimento) sono finalizzati a sostenere il viaggio fra paziente e terapeuta. In questo viaggio vi è uno scarto fra lo spazio euclideo e quello relazionale: la distanza di pochi centimetri può corrispondere ad anni luce di distanza relazionale. In questo viaggio si attraversano territori scartati, altri inesplorati, altri spaventosi, altri infine affascinanti. L’effetto di questo lavoro non è solo di ampliare la consapevolezza corporea individuale, ma di metterla in gioco nel contatto acquisendo maggiore competenza nell’essere-con-l’altro, nell’incontro. Il risultato non è una muscolatura scolpita, ma un’altra qualità di bellezza: quella che sgorga, realissima eppure effimera, nell’attimo dell’incontro pieno. E che, pur fragile e transitoria come un soffio, trasforma per sempre.

Il co-movimento aggiunge infatti un elemento terapeutico ulteriore: trovare il senso per un’azione cocreata è un’occasione particolarmente preziosa perché arriva a toccare la radice da cui nasce il vissuto depressivo melanconico. La rinuncia a raggiungere l’altro e lo scollamento del sé impediscono ogni co-creazione: un’azione nata fra terapeuta e paziente è invece un’esperienza fuori dal campo depressivo. Anche la co-mozione è già fuori da questo campo. Infatti, “Nella condizione depressiva (…) lo sguardo è radicalmente interiorizzato: è diretto all’interno; e si astrae (si allontana) dalle cose. Le mani non sono mani che consentano di afferrare gli oggetti che siano al di fuori della vicinanza del corpo; e questo proprio perché il corpo smarrisce la sua trascendenza” (Borgna, 1992, 75).”