Autore: Andrea Careggio

in Figure Emergenti – Rivista della Scuola Gestalt di Torino Num. II – Gennaio 2012 (http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/08/Newsletter-gennaio-20121.pdf)

 

Nel percorso terapeutico è inevitabile imbattersi nel tema dell’amore: amare, essere amati, il bisogno di, e la paura di. In particolare sono spesso colpito da come facilmente viene vissuto tale sentimento e, a parer mio, frainteso. E poi, si tratta davvero di un sentimento? Certamente la percezione che ne abbiamo sembra essere tale, ed il romanticismo ad esso associato non fa che sostenere questa ipotesi. Ritengo, tuttavia, che questo non sia sufficiente, che non sia solo un moto, una passione mossa dal cuore al quale non si comanda, anzi, ritengo che non lo sia affatto.

Nelle espressioni che utilizziamo, infatti, esso viene utilizzato come sostantivo (amore) in cui sembra diventare soggetto (l’amore è…; l’amore rende, fa, …), o al massimo complemento oggetto (sento il tuo amore). Ma è nel suo uso come verbo che emerge la sorpresa. Non usiamo utilizzarlo come se fosse un’emozione o un sentimento. Noi possiamo dire provo gioia, o tristezza, o rabbia; ma suona proprio male l’espressione provo amore; al massimo diciamo provo compassione o sento che c’è amore (interpretazione). Normalmente noi diciamo ti amo o sento di amarti ( sento che ti amo).

Amare dunque sembra non essere un accidente che mi capita sulla testa, ma al contrario appare proprio come un azione e in quanto tale può avere un certo margine di volontarietà e di controllo. Del resto anche un certo approccio religioso/ filosofico lo pone come un gesto a cui tendere (ama il prossimo tuo…).

Un insegnamento zen recita pressapoco così: “non sposare la donna che ami ma, ama la donna che sposi”. Ancora una volta amare è utilizzato come gesto volontario con tutta la sua intenzionalità verso l’altro. Riportare l’attenzione sulla volontarietà dell’amare permette dunque di porsi nella condizione di una maggiore responsabilità. Noi decidiamo di amare, più o meno consapevolmente. In un matrimonio tale decisione, reciproca, viene assunta come impegno proprio attraverso quelle che comunemente chiamiamo promesse matrimoniali. In esse, ancora oggi nella maniera più ancestrale e sacrale dichiariamo di fronte a testimoni e alla popolazione tutta di prenderci l’impegno di amare e rispettare l’altro per tutto il resto della nostra vita. Non dichiariamo che in questo momento ci amiamo e ci auguriamo di farlo in eterno.

In altre occasioni l’atto di amare avviene come movimento spontaneo, ad esempio nel caso di una madre verso il proprio bambino (almeno così dovrebbe essere). In ogni caso, non è un qualcosa che ci capita di provare e basta, ma un vero e proprio atteggiamento mentale. In realtà non si tratta di un’azione particolare, bensì é nel significato, nell’intenzione che si pone in ogni singolo gesto, che si svolge il tutto.

Amare prevede, tra le altre cose, un certo sacrificio, nel senso religioso (fare sacro), verso l’altro; ovvero in qualche modo ci si offre all’altro porgendo tutto se stessi o per lo meno la parte migliore. Questo, per amore dell’altro; ovvero, recuperando il significato semantico, per l’a-mors (senza morte), la vita, l’eternità dell’altro.

Insegnare e aiutare a comprendere questi aspetti può certamente aiutare ad uscire da un certo atteggiamento, falsamente passivo in cui facilmente si scivola via dalla propria responsabilità. Quando un paziente dice non lo sopporto più (parlando del compagno) e quindi non lo amo più. In realtà penso sia buona cosa mostragli che in realtà si tratta del contrario: ho smesso di amarlo e quindi, non lo sopporto.

Sopportare l’altro è possibile, infatti, solo se si ama. Ma dirò di più: se si sopporta è perché già l’amore lascia il passo a qualcos’altro. Se si ama non c’è nulla che debba essere sopportato. Affermo questo non, ancora una volta, in termini romantici, ma nel senso dell’andare oltre: sopportare o meno, come qualsiasi altro gesto, è subordinato all’atto di amare. Ogni volta, infatti, si valuterà se sopportare sia la cosa giusta da fare, e, sopratutto, per chi. Che ci posso fare se non lo amo più? in realtà sarebbe da correggere in che ci posso fare se non sono più interessato? Questo è un altro punto chiave nel tema dell’amore: l’interesse. Amare nasce di per sé come un atto unidirezionale se amare dipendesse in qualche modo da l’altro stesso, allora si tratterebbe di interesse, di desiderio dell’altro, di possederlo. E il gesto di dare vita all’altro, si trasforma così, inevitabilmente, in prendergli la vita. Paradossalmente, amare può significare, infatti, ti lascio andare per la tua strada. Tutti noi sappiamo quanto questo sia difficile ( si pensi ad una madre, o a una coppia).

Mi rendo conto delle difficoltà di questi pensieri eppure prendere in mano queste riflessioni e rischiare di mettere da parte l’orgoglio e la paura di sentirsi “cattivi”, ritengo sia fondamentale. Imparare ad amare, credo sia una conquista e una scoperta senza pari nella vita di un’uomo, rendendolo forse pienamente responsabile. Per questo motivo ritengo che un terapeuta, nei confronti dei propri pazienti, debba mettersi al servizio di detta causa e, con molta umiltà cominciare, se necessario ad insegnare, ed apprendere, ad amare.