Autore: Dott. Sandro Marano

 

Le teorie di Freud sono state spesso, e continuano ad esserlo, fraintese, o semplificate; si sente spesso affermare che sono superate, sbagliate, infondate (ricorrono anche affermazioni molto peggiori sulla persona di Freud, che non meritano nemmeno menzione). Forse hanno avuto il difetto di andare contro il senso comune (di fine ottocento): ma anche la scienza lo fa, anzi, più  progredisce più si allontana dal senso comune, dalle apparenze sensibili. L’ultima parola spetta sempre alla conferma sperimentale: fino a quando una teoria non è confermata da esperimenti o osservazioni inconfutabili, resta una ipotesi provvisoria, a prescindere dalla sua minore o maggiore credibilità o vicinanza al pensiero comune.

Dal punto di vista scientifico quindi, ciò che conta è che le teorie freudiane possano essere organizzate in un linguaggio coerente, chiaro e preciso, tale da consentirne la verifica nell’ambito che è loro proprio, cioè quello delle neuroscienze. Ed è esattamente ciò di cui si occupa oggi la cosiddetta ricerca concettuale, cioè l’insieme degli studi sperimentali a supporto dei fondamentali concetti freudiani.

Inoltre, su di un piano strettamente clinico, ciò che conta è quanto del sistema teorico freudiano possa oggi fornire un modello credibile (in base sia al pensiero comune che alla comune esperienza psichiatrica) del funzionamento psichico, normale ed anomalo, nella vita quotidiana come soprattutto nell’esperienza psicoanalitica.

Se Freud non ha inventato l’idea di una mente inconscia, già nota prima di lui, l’ha sicuramente resa operativa ed utilizzabile in psicoterapia, mettendo in evidenza: che i processi inconsci, oggi ampiamente confermati dalla ricerca neuroscientifica, non sono soggetti all’usura del tempo, e che il passato si ripresenta costantemente nel presente; che quello che una persona non sa o non dice di sé viene rappresentato nel comportamento («agito»), soprattutto nel rapporto con l’analista («transfert»), viene attribuito agli altri («proiettato»), viene strenuamente, e paradossalmente, difeso («resistenza») o trasformato in altro tramite una serie di operazioni mentali («meccanismi di difesa»), viene dimenticato («rimosso»); e che tutto ciò che una persona (paziente) nasconde a sé stessa può essere osservato, o più spesso inferito tramite ipotesi di probabilità secondo un principio di causalità multipla non-lineare, da un’altra persona (analista) in un ambiente idoneo (il setting) e tramite una serie di regole interpretative. In sostanza, Freud ha inventato la psicoterapia.

Che poi su questa idea di mente inconscia abbia costruito una psicologia, anzi come lui stesso la definiva, una meta-psicologia («una psicologia che conduce oltre la coscienza»), andando oltre le apparenze senza poter contare su un valido sostegno neuro-scientifico («e allora non c’è che la strega.. non si può procedere di un passo se non speculando… stavo per dire fantasticando..»), è un altro discorso.

La meta-psicologia rappresenta la mente umana come un sistema dinamico (una macchina ad energia, anche se oggi parleremmo più di macchina ad informazione) alimentato dalle pulsioni e ordinato in strutture che Freud chiamò Es, Io e Super-io, diversamente funzionanti e spesso in contrasto tra loro. Essa può essere sintetizzata come un insieme di concetti ipotetici all’intervallo tra il cervello da una parte ed il comportamento e l’esperienza interiore dall’altra; concetti che, a prescindere da ogni possibile conferma o smentita sul piano neuro-scientifico, consentono di cogliere le apparenze (non tutte, ovviamente), più che di spiegarle. Apparenze date dalla forza e dalla urgenza di molti bisogni o desideri o impulsi, dal conflitto tra la loro attuazione  ed il loro controllo, dai sensi di colpa opprimenti per ogni azione sbagliata o presunta tale, dalle contraddizioni insite in molti comportamenti. Apparenze che possono essere inserite in questo schematico modello teorico per ricavarne una traccia nel percorso di comprensione del funzionamento psichico di una persona e delle cause del suo disagio. Termini che consentono di pensare l’esperienza come conflitti o mediazioni tra Io, Es, Super-Io, mondo esterno; non di spiegarla. Ci vuole ben altro che un semplice schema per spiegare la complessità dell’esperienza psichica (neurogenetica, neurofisiologia, neurobiologia, studi sperimentali ripetibili, osservazioni naturalistiche rigorose, etc).

Si può essere ancora oggi freudiani? Storicamente, i contrasti all’interno della psicoanalisi ci sono sempre stati. Allora si risolvevano con la cacciata degli eretici o con il silenzioso auto-ritiro, dato che Freud imponeva, per così dire, le regole per la pratica della psicoanalisi e per la definizione del termine stesso di psicoanalista. Il dopo-Freud è un panorama articolato in cui non esistono più dissensi ma orientamenti, definiti a seconda dei casi in base alla teoria centrale (paradigma) o al nome del caposcuola: orientamento Klein-bioniano, psicologia dell’Io,  orientamento interpersonale, esistenziale, delle relazioni oggettuali, psicologia del Sé (dell’Oggetto/Sé), lacaniano, ermeneutico, intersoggettivo, e quant’altro.

La svolta storica sembra essere stata quella relazionale, che ha stabilito un contrasto tra due modelli psicoanalitici fondamentali, quello classico freudiano, centrato sull’individuo e sulla sua costituzione neuro/psico/biologica, e quello relazionale, che invece mette l’accento sulla relazione tra l’individuo ed il suo ambiente, familiare prima e sociale poi. Un contrasto per lo più  apparente, dato che nessuna delle due parti nega od esclude l’altra: del resto, le neuroscienze hanno da tempo abbandonato una simile contrapposizione, ed adottato un modello interattivo costituzione-ambiente come spiegazione dello sviluppo e del funzionamento mentale. Il che significa che esiste solo una questione di quantità: quanto del comportamento umano dipende dalla costituzione genetica, quanto dall’esperienza. Così come non ci dovrebbero più essere difficoltà a considerare la mente umana un fenomeno biologico che richiede per il suo sviluppo e funzionamento un’esposizione all’ambiente sociale. Piuttosto, la contrapposizione assume valore e significato importanti in ambito clinico, promuovendo due diverse impostazioni terapeutiche, l’una più fedele alla tecnica freudiana di neutralità e di lavoro sul paziente, l’altra fondata su un maggiore coinvolgimento da parte dell’analista, che lavora col paziente. In realtà, in analisi si osservano azioni dell’analista, azioni del paziente, azioni della coppia analista-paziente.

Un altro contrasto all’interno della psicoanalisi è stato posto dalla concezione ermeneutica, che in sostanza nega la validità della metapsicologia, freudiana o post-freudiana, in favore di un approccio contenutistico, attento cioè alle ragioni ed ai significati soggettivi piuttosto che ai meccanismi causali ed ai processi oggettivi. Per gli ermeneuti, la psicoanalisi non è una scienza ma una pratica filosofica che ha per oggetto il perché, non il come: perché (ragioni e significati) le persone fanno quello che fanno, non come (cause e meccanismi) lo fanno. Anche questo contrasto può essere sanato a partire dalla considerazione che il lavoro analitico scorre su un doppio livello, separabile solo concettualmente, di indagine e di riflessione teorica, uno per così dire tecnologico, interessato a circoscrivere meccanismi e processi, magari tenendo conto di quanto le neuroscienze vengono mettendo in luce sul funzionamento cerebrale, l’altro di natura ermeneutica, interessato alle radici storiche, alle ragioni soggettive ed ai possibili significati del comportamento e dell’esperienza interiore. La difficoltà sta nel trovare strumenti idonei di verifica e di controllo: non è affatto semplice adattare la multiformità della psicopatologia che si incontra nella pratica clinica e la complessità delle ipotesi e degli interventi psicoanalitici alle esigenze sperimentali (manipolare una sola variabile e controllare tutte le altre, formare gruppi omogenei e sostanziosi numericamente, confrontare con un placebo, confrontare con altro strumento terapeutico, randomizzare, manualizzare il trattamento).

Un modo di essere ancora oggi “freudiani” è ridurre la lezione freudiana ai pochi fondamentali principi sopra esposti, senz’altro integrabili, o correggibili, con teorie ed osservazioni successive: e qui è questione di scelta, in base alle proprie personali esigenze e convinzioni. Il lavoro successivo di “ripulitura” di una teoria essenziale è ciò che contraddistingue la scienza normale, lavoro che di solito resta all’interno del paradigma accettato e condiviso; se d’altro canto si abbandona il paradigma di una disciplina, si esce dall’ambito che quella disciplina definisce.

Insomma, tutto va sottoposto a verifica. Non ci si dovrebbe affezionare (più facile a dirsi che a farsi) alle proprie teorie, e nemmeno ai propri padri spirituali: si dovrebbe piuttosto andare avanti. Progresso scientifico non è però inventarsi nuove teorie, ma sottoporre a verifica con strumenti idonei ed aggiornati quelle “vecchie”. Sicché, la vera svolta in psicoanalisi, fondamentale per la sua credibilità scientifica, quindi per la sua sopravvivenza in seno alla psichiatria ed alla psicologia clinica, non è quella relazionale (rispetto ad una direzione individualistica) né quella ermeneutica (rispetto ad una direzione biologistica), ma quella empirica, sperimentale.