Autore: Dott. Sandro Marano
Chi pratica oggi la terapia psicoanalitica è esposto ad almeno tre pregiudizi: che la psicoanalisi serva a poco o a niente, che sia inferiore ad altre psicoterapie, che sia una pseudoscienza.
Il primo è piuttosto diffuso tra il pubblico in genere, e soprattutto all’interno della classe medica, che dovrebbe invece rappresentare una importante fonte di invio. E va di pari passo con la convinzione che la terapia psicofarmacologica sia l’unica vera terapia efficace, l’unica valida alternativa al non fare niente. In realtà è ormai ampiamente dimostrato che la psicoterapia funziona molto più di quanto si creda, e soprattutto più del non fare niente. Piuttosto, sull’utilità della terapia psicofarmacologica andrebbero fatte le necessarie distinzioni. L’importanza dei farmaci antipsicotici è fuori discussione, così come l’utilità dei farmaci ansiolitici, soprattutto nella medicina d’urgenza (crisi psicomotorie, attacchi di panico, manifestazioni somatiche acute); la questione verte tutta sull’efficacia dei farmaci antidepressivi. Esistono diversi studi, a favore e contro l’efficacia degli antidepressivi, ma i medici conoscono solo quelli a favore: e questa non è medicina basata sulle prove (Evidence Based Medicine). Grazie ad una informazione continua da parte dell’industria farmaceutica, il medico di MG è portato a dare importanza agli psicofarmaci, soprattutto antidepressivi; d’altro canto, mancando una informazione sintetica e chiara sui fondamenti, sulla prassi e sulle evidenze della psicoterapia, tende a considerare questa disciplina un semplice supporto opzionale alla terapia farmacologica.
Senza entrare nel merito della qualità o delle rispettive conclusioni dei diversi studi sperimentali, mi limito a due brevi considerazioni di ordine generale.
Una è che, come tutti sappiamo, gli studi sull’efficacia degli antidepressivi sono finanziati dalle aziende farmaceutiche, che poi pubblicano, tra tutti i lavori presentati per l’approvazione alle istituzioni preposte , la gran parte di quelli favorevoli e la minor parte di quelli sfavorevoli. Che dire, se non che quando sono in gioco forti interessi economici gli aspetti etici spesso lasciano a desiderare?
L’altra è che tra i due opposti schieramenti, che la depressione non sia una malattia del cervello e non vada curata con i farmaci, e che invece la depressione sia una vera e propria malattia del cervello e vada curata con gli antidepressivi, andrebbe forse inserito un concetto intermedio di “stato cerebrale”, cioè di una condizione il cui substrato neurologico è rappresentato da aree cerebrali, gruppi sinaptici, attività di neuromediatori, da definire in termini di durata, intensità, familiarità, etc. Non è più giustificata la contrapposizione tra fisico e mentale (dualismo), o la distinzione tra “mali dell’anima” contrapposti ai mali del corpo, e sarebbe ormai tempo di riconoscere che la sostanza delle cose è una sola (monismo), il cervello, che promuove due categorie, solo in apparenza diverse, di fenomeni (dualismo apparente). E che ogni manifestazione, somatica o psicologica che sia, ha origine e riconosce una causa nel corpo, e che la distinzione più utile clinicamente sia la minore o maggiore gravità del disturbo, la sua stabilità o temporaneità, la presenza di un danno o di una disfunzione.
Il secondo pregiudizio, che la psicoanalisi sia inferiore ad altre psicoterapie, si riscontra di frequente tra gli operatori della salute mentale, e tra gli aspiranti psicoterapeuti. Che la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) sia la migliore per rapidità d’azione, costi ed efficacia, come si ritiene in genere, è una conclusione tutta da discutere: tra l’altro, non è detto che una terapia rapida ed economica coincida con una terapia efficace e scientificamente fondata. Piuttosto che scadere in una inopportuna pubblicità comparativa, mi sembra corretto ricordare innanzitutto che numerosi studi sperimentali confermano l’efficacia della terapia psicoanalitica. Poi, più che chiedersi quale sia la psicoterapia migliore in assoluto (gli assoluti funzionano sempre poco nella pratica clinica), si dovrebbero considerare altri aspetti fondamentali, quali ad esempio 1)la complessità, la natura, la gravità del disturbo; 2)le migliori rispettive indicazioni per i due orientamenti; 3)le aspettative, le caratteristiche psicologiche, la disponibilità del paziente in quanto a tempo e denaro. Infine, dettaglio non trascurabile, alcuni studi mettono in evidenza che, a prescindere dalla impostazione psicoanalitica o cognitivistica del terapeuta, i fattori che più correlano con l’esito positivo del trattamento sono fattori psicodinamici: l’alleanza terapeutica, l’esperienza emotiva sempre più approfondita, la progressiva acquisizione di consapevolezza di elementi impliciti, la comprensione di sé.
Certamente non può esistere diritto di proprietà su importanti aspetti comuni tra terapie diverse, ma non sembra corretto ignorare che la psicoanalisi è stata la prima, e per oltre mezzo secolo unica, forma di psicoterapia, e che alcuni dei suoi concetti fondamentali sono stati incorporati nella scienza cognitiva senza riconoscerne l’influenza.
L’ultimo pregiudizio, che la psicoanalisi sia una pseudo-scienza, è senz’altro il più dannoso. Nasce da una lettura forse frettolosa e sommaria delle critiche espresse in proposito da alcuni importanti filosofi della scienza. Ma mentre tali critiche oggi sembrano aver perso gran parte della loro consistenza, sia perché sono state a loro volta messe in discussione, sia perché sono state in parte assimilate in un atteggiamento critico ed in una esigenza di credibilità scientifica all’interno di molte istituzioni psicoanalitiche, il pregiudizio resta. La questione della scientificità della psicoanalisi è argomento troppo complesso per essere anche solo brevemente accennato. Dico solo che tra il sollevare dubbi, più o meno legittimi, sulla scientificità di una disciplina e il sentenziare che si tratta di pseudoscienza c’è un’enorme differenza. Forse la storica carenza di dati a supporto e di metodi adeguati di controllo, tra l’altro oggi fortemente ridotta, avrebbe giustificato la denominazione di protoscienza (scienza in via di sviluppo) piuttosto che quella di pseudoscienza. Termine quest’ultimo che come sappiamo definisce invece tutta una serie di teorie strampalate, obsolete, assolutamente indimostrabili, il cui verificarsi (se predizioni o azioni a distanza) è legato al caso o all’apparenza, e la cui eventuale efficacia (se pratica curativa o manipolativa) è frutto di suggestione. E la cui sopravvivenza è consentita solo dalla ingenuità e dalla credulità delle persone che ad esse si rivolgono, oltre che da legislatori poco attenti.
L’unico modo, diretto e concreto, per smentire e ridurre al silenzio questi pregiudizi è la ricerca empirica. Gli studi di risultato dimostrano che la psicoanalisi è in grado di produrre cambiamento sintomatico e generale, e gli studi di processo mostrano in sostanza cosa succede in una analisi in relazione ai risultati. E tutti sembrano indicare che la psicoanalisi, nelle sue varianti a lungo e breve termine, ad alta o bassa frequenza, ha le carte in regola per essere considerata un capitolo importante della psichiatria e della psicologia clinica.
Per sostenere la credibilità della propria attività clinica di fronte alla comunità scientifica, alla società, ai pazienti, lo psicoanalista può contare oggi su tre fondamentali condizioni.
La prima condizione è la conferma tramite adeguati studi sperimentali della validità esterna della psicoanalisi e della psicoterapia psicoanalitica. Le domande cui rispondere sono del tipo: Funziona? Quanto? Con chi? In quali condizioni? In pratica, la terapia psicoanalitica produce risultati? I risultati sono adeguati a quanto ci si aspetta da una cura? Si mantengono nel tempo? Sono estesi alle fondamentali aree del comportamento umano, vale a dire il funzionamento globale, “interno” ed “esterno”, la personalità specifica, i sintomi specifici? Questa condizione viene soddisfatta dai cosiddetti studi di risultato.
La seconda condizione è la conferma, sempre tramite studi empirici, degli aspetti di validità interna rispetto ai risultati. Come funziona? Quali sono gli elementi costitutivi fondamentali del processo analitico? C’è differenza tra psicoanalisi e psicoterapia? Come e perché porta al cambiamento? Questa condizione viene garantita dagli studi di processo.
La terza condizione, forse la più difficile da realizzare, è la conferma sperimentale della validità intrinseca dei concetti e delle ipotesi psicodinamiche di base. Le domande di rito sono: c’è prova dell’inconscio? Sono validi scientificamente concetti tipo pulsione, struttura psichica, rimozione, ed altri? Quest’ultima condizione viene sostenuta dalla cosiddetta ricerca concettuale, che in linea di massima esplora concrete possibilità di convalida, esterna alla psicoanalisi (leggi neuroscienze), dei fondamentali concetti psicoanalitici.
Inoltre, quella empirica sembra anche l’unica via per arrivare ad un riordino e ad una ridefinizione dei concetti fondamentali della psicoanalisi, isolando quei concetti e quelle ipotesi che a prescindere dai diversi punti di vista abbiano un dimostrato fondamento empirico, e mettendo da parte una volta per tutte tutti gli altri. Assumere e mantenere un atteggiamento positivo, cioè sottoporre costantemente a verifica empirica le teorie ed i concetti con cui si lavora, è sempre una pratica salutare, di qualunque cosa ci si occupi. Per una disciplina come la psicoanalisi, da sempre criticata, e non sempre a torto, per l’assenza di supporto empirico e la sovrabbondanza di teorie speculative, l’atteggiamento empirico diventa fondamentale per la sua stessa sopravvivenza.
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