Autore: Dott.ssa Marika Fellini

 

Ritengo fondamentale sottolineare in apertura di dibattito il fatto che l’alleanza con il genitore deve essere considerata come una risorsa fondamentale per il lavoro clinico con i bambini, perché è lui che vive quotidianamente con loro, li ha a cuore come nessun altro e li può aiutare meglio se viene aiutato lui stesso a capire.

Non a caso, in campi molto diversi, due illustri personalità dei nostri tempi hanno recentemente proposto questo stesso tema dei limiti e delle imperfezioni inevitabili del vivere: Bettelheim nel suo “Un genitore quasi perfetto” (che insiste proprio sul “quasi” per correggere l’idea di un ideale di perfezione inesistente) e Rita Levi Montalcini nel suo “Elogio dell’imperfezione”.

Forse il pensare di essere onnipotenti è uno dei rischi che viviamo noi uomini del ventesimo secolo, abituati come siamo nel nostro mondo occidentale ad avere sempre più risposte dalla tecnologia, che interviene in aiuto nella maggior parte dei bisogni spiccioli quotidiani e che spesso utilizziamo come risorse onnicomprensive e salvifiche.

Eppure quando ci troviamo davanti ai normali problemi emotivi della vita purtroppo nessuna tecnologia può intervenire ad aiutarci e siamo dunque costretti a confrontarci con la limitatezza delle nostre risorse.

Ecco perché è importante aiutare il genitore a uscire dall’empasse che si instaura quando sopraggiunge una problematica: egli sperimenta sentimenti di colpevolezza nel momento in cui si rende conto di non poter aiutare e sostenere il suo bambino, che soffre nonostante il suo amore.

Nella letteratura troviamo citazioni illuminanti ed esaustive, come la Mishne, per la quale:  “L’obiettivo nel lavoro coi genitori sarebbe quello di aiutarli a vedere il collegamento fra i loro problemi personali e quelli del bambino, così da reclutarli nella ricerca dei mezzi per rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la crescita.”  O come la Dolto  che insiste su questo punto dicendo: “Quando la madre può esprimere a parole le sue angosce, il bambino ne riceve un impatto meno traumatico e, all’improvviso, si sente meglio. […] “

Là dove ad esempio un genitore aderisce totalmente a dei comportamenti che, nonostante l’affetto che li lega, fanno soffrire sia lui che il suo bambino, il compito del terapeuta è quello di cercare di aiutare a disinnescare questa adesione dannosa per entrambi, oppure semplicemente quello di aiutare a vederne l’esistenza, il che è già una presa di distanza.

È quindi non solo possibile, ma del tutto legittimo, che l’interesse del genitore e quello del bambino normalmente coesistano, ma questa coesistenza deve avvenire all’interno di una differenziazione e non di una simbiosi, attraverso l’elaborazione di un conflitto, che sul piano psichico significa “vita” e non “morte”, differenziazione intesa come ricchezza e condivisione e non come separazione e distanza.

Una valida strategia diventa quindi quella di discutere insieme, confrontarsi con il terapeuta, ma anche in piccoli gruppi, affinché sia possibile accorgersi che ciò che spaventa, perché sembra unico e troppo difficile da affrontare da soli, è invece un problema comune, di cui si può parlare senza esserne schiacciati e su cui ci si può confrontare, trasformando dei fantasmi minacciosi in parole e  dando loro dei contorni e dei limiti.

Il problema non è quello di colpevolizzare la madre o i genitori in generale, ma di aiutarli a star meglio.

Proprio perché il bambino è figlio di “quella” madre e di “quel” padre e non di altri, si porta dentro anche le loro storie, seppur vivendole in modi diversi, anche tra fratelli, perché ognuno ha la propria storia e il proprio patrimonio genetico.

Come un bambino assorbe e impara dai genitori le cose più evidenti (a camminare, a parlare la loro lingua e non un’altra, a nutrirsi, lavarsi, vestirsi, eccetera), così è da loro che impara anche le cose meno evidenti, come l’uso dei meccanismi di difesa e le modalità relazionali.

Dietro un bambino che impara a fare uso massiccio di modalità difensive che a lungo andare si riveleranno poco adattive, ci sono dei genitori che forse fanno inconsapevolmente la stessa cosa.

Aiutare questi ultimi a prendersi cura della loro parte infantile sofferente in modo diverso, che non si ritorca contro di loro e i loro figli, sia uno dei terreni più fertili e gratificanti per chi opera nel campo della terapia e della prevenzione del disagio psicologico, sia nei bambini che negli adulti.

Bibliografia

  • Balconi-Del Carlo Giannini, “Il disegno e la psicoanalisi infantile, Cortina, Milano 1987.
  • Bellocchio-Ravasi, “Di madre in figlia”, Cortina, Milano 1987.
  • Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, 1987.
  • Bettelheim B., “Il mondo incantato”, Feltrinelli, Milano 1977.
  • Bowlby J., “Attaccamento e perdita”, Bollati-Boringhieri, Torino 1972. “Costruzione e rottura dei legami affettivi”, Cortina, Milano 1982. “Una base sicura”, Cortina, Milano 1989.
  • Dolto F., “Le parole dei bambini e l’adulto sordo”, Mondadori, Milano 1987. “Il gioco del desiderio”, SEI, Torino 1987. “Come allevare un bambino felice”, Mondadori 1992.
  • Fornari F., “La vita affettiva originaria del bambino”, Feltrinelli, Milano 1970.
  • Freud A., “Normalità e patologia nell’età infantile”, volume terzo, “Opere”, Boringhieri, Torino 1985.
  • Isaacs-Freud, “L’osservazione diretta del bambino”, Boringhieri, Torino 1984.
  • Klein M., “La psicoanalisi dei bambini”, Martinelli, Firenze 1970.
  • Levi Montalcini R., “Elogio dell’imperfezione”, Garzanti, Milano 1987
  • Mahler-Pine-Bergman, “La nascita psicologica del bambino”, Boringhieri, Torino 1978.
  • Mahler M., “Le psicosi infantili”, Boringhieri, Torino 1985.
  • Winnicott D. W., “I bambini e le loro madri”, Cortina, Milano, 1987.