Autore: Dott.ssa Emanuela De Bellis

 

Supereroi, superpoteri, lunghi combattimenti, costumi assurdi… Il mondo dei fumetti stile Marvel e Dc per me è sempre stato sinonimo di banalità, indugio su valori tendenti al machismo e una spruzzata di invito alla violenza.

Da brava intellettuale, ho sempre preferito i fumetti di Bonelli, difendendo per anni Dylan Dog dalle accuse di splatter mosse da mia madre.

Quando le reminiscenze fumettistiche hanno cominciato a popolare le sale cinematografiche, ho anche deriso tra me e me gli adulti in fila al botteghino per andare a vedere l’ultimo Batman di Nolan, pensando “Il regista di Memento? Che spreco di risorse per un filmetto…”

Fortunatamente, vivo con quello che si può definire un “Nerd”: il mio compagno è uno di quei trentenni che non si perdono un film tratto dai fumetti, parlano in continuazione di come “la poetica mutante non sia stata riprodotta nell’ultimo X-men”, e citano con i propri amici dialoghi tra Luke Skywalker e Ian Solo (a dire il vero, quelli li cito anch’io…)

Fortunatamente, perché altrimenti avrei perso l’occasione di apprezzare gli aspetti espressivo comunicativi di queste storie.

Il primo dubbio è arrivato guardando X-Men 2: colpita dal tema di accettazione del diverso che attraversa tutto il film, ho apprezzato innanzitutto l’indagine dei meccanismi che possono innescarsi all’interno della famiglia in presenza di una diversità non conclamata (protezione da parte dei genitori, rabbia da parte del fratello); che poi si parli di mutanti, oppure di omosessuali, o di disabilità, poco cambia.  Il messaggio di base viaggia sulla tolleranza in ambedue i sensi.

Invece della solita storia che si basa sulla dicotomia di fondo buoni/cattivi, mi sono trovata di fronte a racconti di reazioni diverse di fronte al dolore: dai mutanti che cercano inutilmente un’integrazione con gli altri essere umani, a quelli che compensano la loro emarginazione contrapponendosi al sistema, per ottenere non più solo diritti, ma supremazia, fino ad arrivare a chi, a causa della diversità del figlio, perde la moglie e si ritrova a combattere contro il proprio senso di fallimento, proiettandolo sugli altri mutanti e dando inizio a una campagna persecutoria.

Attraverso la metafora dei mutanti, quindi, vengono approcciati meccanismi sociali individuabili, che con questo veicolo possono essere spiegati ai bambini.

Ho cominciato a guardare questi film con occhi diversi, improvvisamente consapevole delle possibilità di significato che racchiudono: Catwoman e il movimento di Occupy Wall Street, Batman e il senso di colpa per la morte dei genitori, Wolverine e la tematica costante della solitudine…

Ma la vera illuminazione è arrivata con The Avengers, visto durante le vacanze di Natale: in quel periodo stavo lavorando con un piccolo paziente di 9 anni, terrorizzato dalla propria rabbia. Convinto che la rabbia fosse sbagliata, pericolosa, suggerita dal diavolo per portarlo all’inferno, tentava in continuazione di reprimerla: avendo una serie di difficoltà relazionali, e vittima di piccoli ma continui atti di bullismo da parte di alcuni compagni, il tentativo disperato di contenere la rabbia lo portava inevitabilmente a esplosioni della stessa, con comportamenti aggressivi, verbali e fisici, cui conseguivano punizioni da genitori e insegnanti e isolamento dai coetanei, con notevole aumento della frustrazione. Era arrivato ad aver paura di commettere atti gravi, uccidere da sonnambulo i suoi genitori, e di finire nel carcere minorile (prospettiva che la coordinatrice scolastica peraltro non mancava di paventargli). La sua rabbia veniva vissuta come aliena, altra da lui, estranea, e per questo pericolosa: non c’era modo di approcciarsi ad essa come a parte di lui.

In The Avengers troviamo lo scienziato Bruce Banner che, colpito per errore dai raggi gamma di una sua invenzione,combatte da una vita contro un alter ego verde e violento che esce fuori quando lui si arrabbia. Chiamato a lottare insieme a una squadra di supereroi che devono salvare il mondo dall’ennesimo cattivo, viene interrogato più di una volta su come sia riuscito a controllare l’Altro (“Yoga? Meditazione?”); racconta anche, in mezzo al film, di come l’Altro gli impedisca di farsi del male volontariamente, preservando la sua incolumità anche contro la sua volontà (bellissima metafora degli aspetti adattativi dell’emozione).

Quando, nel momento di massimo pericolo della Terra, Hulk deve uscire per sconfiggere il cattivo, il dottor Banner si dichiara pronto a svelare il suo segreto per il controllo della rabbia. Lui è SEMPRE arrabbiato.

L’enfasi posta dal film su questa scena è tale da non poter restare impassibili di fronte a tale dichiarazione: accettando la sua rabbia, è riuscito a controllarla, per canalizzarla nella risposta più funzionale.

Anche il mio paziente, commentando il film, è rimasto colpito dalla frase: forse perché avevamo tanto parlato della sua rabbia, forse perché rispecchiarsi in un personaggio che contiene aspetti così diversi tra loro gli ha dato modo di riappropriarsi di tali aspetti, forse perché sapere che anche un adulto ha avuto paura della propria rabbia ti fa sentire meno solo.

Quello è stato il momento, comunque, in cui la terapia ha avuto una svolta, almeno per quello che riguarda gli aspetti legati alla rabbia e all’aggressività.

Da allora considero supereroi, mutanti, eroi mascherati, come una risorsa preziosa per chi, come me, lavora con i bambini e cerca sempre nuove metafore per comunicare con loro. E ho così avuto un’altra occasione di imparare qualcosa di nuovo da un ambito che ho sempre disdegnato.

Un ultimo consiglio: tutto quello che ho scritto non vale per “X-Men 3: Conflitto finale”. E’ il peggior film che abbia mia visto…

E voi? Apprezzate i film tratti da fumetti? Pensate che possano essere utili a comunicare con i bambini? Lasciate un vostro commento!