Autore: Dott. Frabrizio Ioppolo
vedi articolo sul Sito dell’Autore http://www.teatroterapia.net/
Tra gli approcci derivati dalle teorie Rogersiane forse il più compiuto è quello della terapia gestaltica. Anche Perls preferì una visione ottimistica considerando l’individuo potenzialmente buono ed integro, lavorò principalmente sul comportamento di superficie, ciò che è visibile, l’ovvio, radicandosi nel presente, nel qui-ed-ora. La terapia di Perls era sostanzialmente emozionale, l’espressione emotiva è di primaria importanza (“la vera comunicazione è oltre le parole”), si rifece spesso alle tecniche drammatiche simili allo psicodramma, ai pazienti faceva assumere ruoli dei personaggi o degli oggetti della loro vita, (la tecnica della sedia vuota consente al cliente di esprimere i suoi sentimenti verso quella persona / parte di sé), lavorò molto anche sui sogni utilizzando sempre il metodo drammatico (la drammatizzazione dei sogni). L’obbiettivo principale della Gestalt è indurre il cliente ad acquisire autonomia nella gestione della propria vita, a percepire se stesso come un’unità organica in cui le funzioni, cognitive, affettive e motorie siano perfettamente integrate. Con il rifiuto di considerare le oscure forze inconsce, è diventata uno strumento di educazione ai sentimenti, poiché si appoggia largamente sull’esperienza espressiva, molta importanza è attribuita al movimento e alla spontaneità, avvicinando molto questa terapia al mondo del dramma. La Gestalt è tra le psicoterapie che costituiscono un approccio alle problematiche esistenziali, che promuove la consapevolezza del proprio vissuto interiore attraverso il recupero di quelle parti di sé, soprattutto emotive, perdute o rimosse, attraverso l’esperienza diretta di situazioni emozionali mutuate dalla vita quotidiana. La Gestalt in sostanza mira a realizzare una plasticità interiore che porta a un migliore contatto con la situazione presente, facendo coincidere attenzione e consapevolezza. L’espressione di quello che si ri-vive, la sua riformulazione verbale e non verbale nel contesto terapeutico permette l’insight al paziente, entrando nel “come sé” del setting terapeutico il cliente inizia ad uscire dalla situazione di fissità emotiva o di visione della vita in bianco e nero, vedendo crescere una fluida rotondità dei sentimenti insieme alla capacità di viverli diventandone consapevole, mentre sperimenta le sue emozioni (nel “come se”). I primi esempi di dramma in terapia si trovano all’interno di quegli approcci orientati all’azione quali la Gestalt e lo Psicodramma.
Recitare nella terapia può indisporre, ma in un certo senso serve a riproporre con onesta e sincerità, i propri conflitti emotivi in una situazione in cui l’oggetto di quei conflitti non è presente o molto spesso non è più. Giocare “davanti” a se stessi fa attuare e rivivere consapevolmente nella scena la “ripetizione”, la “coazione a ripetere”, mettendo così il cliente nella possibilità di riconoscersi di sanare l’altrimenti insanabile (quando è nella non consapevolezza del gesto coatto). Infondo il Teatro la Gestalt lo Psicodramma sono mezzi (di rivelazione d’esistenza) che servono per descrivere l’esistenza e le sue aberrazioni, o dare possibilità all’uomo di ritrovarsi e di trovare l’altro, in un vita che passo dopo passo si trasforma e che solo se posta di fronte alla domanda può non essere piena di sofferenza, di tristezza. Come una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una sorta di “rivolta virtuale”, impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile, anche l’azione gestaltica spinge ad una sorta di “rivolta virtuale”, nella certezza che è solo un giuoco suscita emozioni che agiscono come una “purificazione” un “sollievo” alle proprie passioni, quei comportamenti appetitivi compulsavi e ostili. Il teatro senza uccidere provoca le azioni più misteriose non soltanto nello spirito di un individuo, ma in quello dell’intera collettività, attraverso forme di identificazioni, proiezione, sublimazione, spostamento ecc partecipazione diretta viva. Si ha una reazione immediata aperta, liberata e autentica, è la natura socio-psicologica e simbolica dell’esperienza drammatica, consiste nel fare vedere il rapporto fra soggetto e mondo, fra soggetto e altri anziché spiegarlo.
La Gestalt è comunemente considerata un approccio umanistico, invece che transpersonale, ma le caratteristiche della terapia della Gestalt sono transpersonali, cioè stanno al di là della “persona”, poiché alla base di tutto vi è la consapevolezza stessa. La consapevolezza è transpersonale (o spirituale), la condizione di Buddha dalla radice bodh, consapevole, non è un particolare stato di coscienza, ma la coscienza stessa. L’illuminazione non è uno stato straordinario della mente, ma solo e semplicemente l’atto di meditare la vita e viverla in piena coscienza (risvegliarsi dallo stato di consapevolezza ristretta che è la coscienza ordinaria), accettare la nostra realtà, la nostra esperienza di qui ed ora, tale e quale è, senza cercare di trasformarla in altro. La consapevolezza è il tesoro transpersonale definitivo, è la chiave per ritrovare l’unità della nostra vita, lo spostamento dai contenuti mentali al contenente (la mente stessa) alla consapevolezza in sé, è la caratteristica più significativa delle terapie umanistiche e traspersonali. La spiritualità non è questione di ideologia, non è riprendere in considerazione esperienze e idee che sono generalmente considerate “spirituali” piuttosto che scientifiche.
La Buddhità è una tendenza autotrascendente piuttosto che autorealizzante: un desiderio di ritornare a uno stato che esisteva prima dell’intossicazione con la nostra importanza, prima della separazione dal cosmo. L’approccio transpersonale è in qualche modo, una reazione all’umanismo, legato all’idea di “autorealizzazione” (troppo narcisistico?).
Il terreno comune tra i concetti umanistici e quelli zen, è che entrambi gli approcci credono che al centro dell’individuo ci sia qualcosa di essenzialmente degno di fiducia, (questo qualcosa ha una natura transpersonale e si muove verso la trascendenza e la risoluzione). Si chiama buddhità questa fiducia, è semplicemente il fatto che l’universo vive in noi e noi viviamo in esso, l’io è in realtà composto del suo mondo fondamentalmente senza separazione. La psicologia buddista afferma che al centro c’è un processo etico, coltivare la nostra natura fondamentalmente etica è il primo passo per addestrare la mente, essere psicologicamente sani è ritornare alla nostra etica essenziale e vivere in base a essa. La pratica buddhista è essenzialmente addestramento alla consapevolezza, così come la terapia gestaltica, che è molto vicina all’atteggiamento buddhista. Il buddismo non spiega l’esistenza ontologica, spiega solamente l’esistenza fenomenologia all’interno del tempo e dello spazio, tutte le esistenze, tutti i problemi nel cosmo fanno sempre parte del mondo dei fenomeni. Nello zen non è così importante credere, sapere ciò che è sostanza, ciò che è la causa o l’effetto spiegati con l’ontologia. Ma piuttosto: come cogliere i vari fenomeni qui ed ora? Come dobbiamo essere? Come dobbiamo vivere? Non cosa ma come. Molti filosofi non hanno potuto comprendere la filosofia pratica non potendo così accedere alla vera filosofia pratica, qui ed ora. Sono necessarie due energie: sforzo personale e influenza dell’ordine cosmico, bisogna intraprendere uno sforzo personale per seguire l’ordine cosmico. Il buddismo e lo zen hanno in qualche misura, lo stesso punto di vista: tutte le religioni e le morali, come i nostri dolori, le nostre illusioni, il satori stesso, tutto appartiene solamente al mondo dei fenomeni sono i fenomeni stessi (mentre il mondo dell’ontologia, del noumeno, non è mutevole è eterno è permanente, non è necessario che esista una relazione tra esso e il mondo della nostra esistenza). Il nostro mondo, la nostra esistenza appartengono solamente al mondo dei fenomeni all’interno dello spazio tempo. Lo si spiega con la nozione di Ku: l’esistenza senza noumeno (spesso tradotta con vuoto, nulla), tutte le cose non possono avere esistenza statica, tutti i fenomeni sono relativi e dipendono da tutti gli altri fenomeni, Ku deve essere compreso così, non è (nichilismo) una negazione dell’esistenza dei fenomenica, qualunque sia. Se analizziamo le cause e gli effetti nel mondo dei fenomeni possiamo analizzarli in quattro maniere:
1) talvolta c’è causa ed effetti,
2) talvolta ci sono solamente effetti senza causa,
3) talvolta c’è solamente causa senza effetti,
4) talvolta non c’è né causa né effetti.
Non si prende in esame solamente una causa e si spiega tutto con essa, ad esempio l’ambiente, l’eredità, non si crede a una di queste spiegazioni escludendo le altre, talvolta una è più forte, o due o tre predominano sulle altre, a seconda del soggetto, non si deve commettere l’errore di dare spiegazioni escludendo le altre cause.
Secondo la fenomenologia zen dobbiamo raggiungere le vere cause e i veri effetti, ed esse si possono raggiungere attraverso la pratica dello za-zen (meditazione seduta). Non è importante credere o sapere ciò che è sostanza (ontologia), la pratica millenaria dello zen trasmessa dai vari Buddha restituisce al corpo e alla mente il suo equilibrio. La postura di za-zen rinforza le zone profonde e primitive del cervello, dove si sviluppano l’istinto e l’intuizione, unifica corpo e spirito in un’unità indissolubile. Lo zen è l’educazione silenziosa “ nel silenzio si alza lo spirito immortale e senza parlare la gioia viene” . “Tutta la rumorosa cultura del tempo sarà ridotta all’eterno silenzio” – Nietzsche.
Insegnamento d’essenza e d’armonia, unione del materiale e dello spirituale. La più alta saggezza vuole la pace, l’unità al di là della relatività, della dualità dei contrari. La grande saggezza è fondamentalmente ritorno all’origine, verità dell’universo, base della nostra vita, al di là dei fenomeni.
Qual è la cosa più importante da fare nella vita? Quella che stiamo facendo ora, qualunque essa sia. Qual è la persona più importante della nostra vita? Quella con cui siamo ora, questo è il miracolo dell’attenzione che trasforma ogni aspetto della vita. Nel momento dell’effettivo incontro con un’altra persona le teorie non servono, qualsiasi cosa sia se riusciamo a vederla, vedremo che è la cosa più bella del mondo, racchiuso in ogni momento della percezione c’è un universo. Il miglioramento della qualità della vita comincia con l’attenzione, è il tentativo di riacquistare contatto con il flusso dell’esperienza.
La Gestalt, fondata da Fritz Perls, è una delle principali scuole psicologiche umanistiche, che come approccio alla relazione d’aiuto, trova riferimenti teorici nella fenomenologia e nell’esistenzialismo. Presenza consapevolezza e responsabilità nell’esperienza, sono i tre presupposti fondamentali del processo di crescita della persona nella relazione; essi costituiscono i tre fili che permettono di dare un significato, oggettivo e soggettivo, alla propria esistenza nel mondo.
I mezzi e le vie da percorrere, perchè ognuno trovi, nel suo cammino, la propria forma originale e la propria interezza, sono il contatto, l’espressione e la creatività. Il contatto interpersonale, fisico o psichico, stimola emozioni che veicolano energia. Nell’espressione questa energia diviene realtà tangibile, comunicazione che fa da ponte fra l’essere umano e il mondo esterno. Attraverso le creatività, i problemi, in quanto situazioni di impasse di schemi ripetitivi, trovano soluzioni che nascono da nuove configurazioni.
Gli ostacoli nella propria realizzazione o le difficoltà di relazione possono così diventare occasioni per trasformare in modo più maturo e responsabile la propria realtà.
Non uscendo dalla porta si conosce il mondo.
Non guardando dalla finestra si scorge la via
Del cielo.
LAO-TZU
Nel corso della storia si è constatato che la mente dell’uomo è capace di due tipi di conoscenza, la prima modalità è quella razionale tenuta in grande considerazione dall’occidente, la seconda è quell’intuitiva che in genere è esattamente l’opposto, ed è confacente all’atteggiamento orientale. La conoscenza razionale appartiene al campo della scienza e dell’intelletto, la cui funzione è quella di analizzare, discriminare, dividere, confrontare, misurare e ordinare in categorie. La conoscenza razionale è un sistema di concetti astratti e di simboli, in questo modo si considera l’ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate, e si costruisce una mappa intellettuale della realtà, nella quale le cose sono ridotte ai loro contorni. Il pensiero orientale e più generalmente il pensiero mistico, forniscono alle teorie della scienza contemporanea un importante e coerente riferimento filosofico: una concezione del mondo nella quale i due temi fondamentali sono l’unità e l’interdipendenza di tutti i fenomeni, e considera l’uomo come parte integrante di questo sistema. Ciò che interessa ai mistici orientali è la ricerca di una esperienza diretta della realtà, che trascenda non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione sensoriale. La conoscenza che deriva da un’esperienza di questo tipo viene chiamata dai buddisti “conoscenza assoluta” perché non si basa su discriminazioni, astrazioni, e classificazioni dell’intelletto, le quali sono sempre relative e approssimate. Essa è come dicono i Buddisti, l’esperienza diretta dell’essenza assoluta, indifferenziata, indivisa, indeterminata. La conoscenza assoluta è quindi un’esperienza della realtà totalmente non intellettuale, un’esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere chiamato uno stato meditativo o mistico. E’ la realtà della vita del Sé che vive solo così com’è, la nuda esperienza della vita (quel soltanto essere vivo ora). Il Sé non è superficiale è la pienezza della gioia. Essere consapevoli del Sé significa essere gioiosi. “Cosa fa un Buddha sotto l’albero del Bodhi? Non fa nulla. Si limita ad essere”. Egli è colmo di un’insondabile gioia, perché ora non rimane nulla da raggiungere. Nel proprio essere si scopre che qualsiasi cosa degna di essere raggiunta esiste già. Il semplice accadere della vita, l’espirare e l’inspirare, il semplice pulsare della vita, è beatitudine. Non ha nulla a cui pensare, non pensa alla famiglia, né pensa al futuro, è semplicemente immerso nella beatitudine, il giusto modo di essere, non vi è passato né futuro. Non sta andando da nessuna parte, il cuore batte, il respiro entra ed esce il sangue circola semplicemente esiste, tutto è vivo e pulsante. Un’energia priva di scopo che fluisce senza meta, che fluisce ovunque ma che non va da nessuna parte. Fluisce verso il nulla. L’estasi non è una meta. E’ qui e ora, proprio nel movimento, è felice di per sé, proprio nella pulsazione dell’essere vivo. Lo zen che ebbe origine in seno al Buddhismo ma fu fortemente influenzato dal Taoismo, si vanta di essere senza parole, senza spiegazioni, senza istruzioni, senza conoscenza. Esso si concentra quasi interamente sull’esperienza di illuminazione (satori), ed essa non consiste nel fare qualcosa o nell’ottenere qualcosa, ma consiste semplicemente nel riconoscere quello che è sempre esistito di fatto, e si interessa solo marginalmente di interpretare questa esperienza. A causa dell’educazione e del condizionamento ambientale il funzionamento delle nostre menti è legato a un sistema particolare di logica formato da concetti, e ogni cosa viene considerata attraverso un sistema di opposti: buono cattivo, bianco o nero, giusto o errato. A causa di questo modo di giudicare non possiamo raggiungere le unità attraverso la molteplicità. Lo scopo dello Zen è quello di andare al di là dei legami della dualità, rinunciare a tutti i concetti creati dall’intelletto e vedere le cose come realmente sono, per mezzo della introspezione intuitiva. Poiché il flusso della mente non può essere fermato mediante uno sforzo egocentrico di volontà, quello che si richiede momento per momento è la osservazione continua delle dualità, della tendenza continua del nostro io, delle tendenze che costituiscono i nostri pensieri, i nostri sentimenti, il nostro corpo. In tutto il misticismo orientale, l’intelletto è visto soltanto come un mezzo per aprire la strada all’esperienza mistica diretta, che i Buddhisti chiamano “risveglio”. Lo zen insegna che il risveglio (satori) attraverso la meditazione è al termine della attesa-attenzione, che deve essere una vigilanza senza oggetto. Non c’è nulla da attendere infatti, ciò che succede succede. Non esistono leggi regole e scopi, né in natura né nei pensieri. Riacquistare la spontaneità della nostra natura originaria, la natura di Budda di tutte le cose, richiede un lungo percorso e costituisce una grande conquista spirituale. Attraverso la meditazione si può fare l’esperienza di sentire la nostra natura originaria. Il programma basico dello Zen è quello di calmare la mente e il corpo, in un primo tempo, mediante la pratica della meditazione, con lo scopo di arrivare ad una visione interiore. Zazen (meditazione seduta) seduti con le gambe incrociate, la schiena dritta, la respirazione calma, il corpo e lo spirito unificati, senza spirito avido. Girando il proprio sguardo verso l’interno, ciascuno depone naturalmente i limiti dell’egoismo e fa direttamente l’esperienza del risveglio alla sua vera natura. La base della filosofia Zen è il silenzio, è il Ku (il silenzio totale) che è la condizione originaria della natura umana. Praticare aldilà di ogni oggetto è lo zazen più elevato; soltanto sedersi senza scopo. Durante zazen non si pensa anche se il subconscio si manifesta, si lascia passare, non si ferma il pensiero, non si trattiene. In questo modo la coscienza diventa illimitata, infinita. E’ la coscienza cosmica (la cosmicità è la natura intrinseca della mente). Il metodo Zen, questo tipo di approccio alla realtà, è un metodo prescentifico, o metascentifico, o perfino antiscentifico. In questo modo lo Zen si immerge nella fonte della creatività e beve ad essa tutta la vita che contiene. Tale fonte è l’inconscio dello Zen. L’inconscio è fuori dall’ambito della ricerca scientifica, l’inconscio si può solo sentire, e non nel senso comune del termine, pertanto bisogna imparare a padroneggiare le vie dell’inconscio e la saggezza sconosciuta del Sé. Ciò che esiste nel centro interiore è aldilà di ogni spiegazione. Viceversa la scienza inizia là dove comincia la spiegazione, all’esterno, è una ricerca sulla circonferenza, nell’ambiente dell’uomo. Di solito la consapevolezza scientifica è oggettiva: conosci gli altri, conosci il mondo, conosci le stelle. Nel momento però in cui la consapevolezza si rivolge all’interno e inizia a conoscere se stessa, in altre parole nel momento in cui la consapevolezza diventa oggetto della propria conoscenza l’illuminazione fiorisce. D’ora in poi la consapevolezza sarà il padrone e l’incosapevolezza il servitore. La porta della verità non è né il centro né la circonferenza che sono in realtà due facce di una sola e unica verità, ma uno stato in cui colui che vede e la cosa vista, l’osservatore e la cosa osservata, si uniscono. Solo l’uomo libero da opinioni e da idee preconcette può vedere l’unità e l’integrità della vita. Scoprire il proprio inconscio non è un atto intellettuale, ma un’esperienza affettiva che non può essere spiegata a parole. L’intelletto in ultima analisi, è superficiale, è qualcosa che fluttua alla superficie della coscienza, e la superficie di deve spaccare perché possa raggiungere l’inconscio cosmico, lo spirito logico deve dissolversi progressivamente per consentire al pensiero translogico ed unificatore dello Zen di emergere.
Una volta che tale livello sia raggiunto, la comune coscienza viene pervasa dal flusso dell’inconscio, è questo appunto il momento in cui lo spirito finito comprende di avere le proprie radici nell’infinito. La presa immediata e piena sul mondo è proprio la finalità dello Zen, è l’autentico risveglio (farsi consapevoli) che si trova alla radice insieme del pensiero creativo intellettuale, e dell’immediata apprensione intuitiva, equivale al superamento della contaminazione affettiva e della manipolazione cerebrale; equivale alla scomparsa della polarità conscio e inconscio. Significa non avere nulla ed essere. Il seguace Zen consegue qui il suo oggetto perché è giunto a destinazione; egli è adesso pervenuto nel cuore delle dualità include in sé tutto ciò che vi è di intellettuale, di affettivo o creativo in modo indiscriminato, indifferenziato o meglio assoluto. Le sue attività non sono cambiate, ciò che è cambiato è la sua soggettività.
La mia esperienza personale della consapevolezza nella vita di tutti i giorni, è quella di perderla facilmente, continuamente, in ogni momento. Mi capita a volte di perdermi nelle reazioni, o mi isolo da ciò che accade. Ogni giorno infinite volte perdo la consapevolezza, spesso cado vittima della “tigre della mente”. Purtroppo le pressioni, le tensioni e la frenesia della vita non sono certo condizioni ideali per la consapevolezza. Tuttavia non appena riconosco di averla smarrita posso ricominciare d’accapo. Si affaccia così un Sé semplice basato sul respiro, capace di arrendersi al momento presente. Ecco quanto voglio sottolineare come esperienza personale; nel momento in cui riconosco di aver smarrito la consapevolezza, l’ho già riconquistata, perché quel riconoscimento stesso è una funzione della consapevolezza. La consapevolezza infatti non è qualcosa di astratto o lontano: per ognuno di noi prende vita nel momento in cui iniziamo, e ogni volta che ricominciamo. Essere consapevoli, svegli, ricordarsi di Sé, osservare, non farsi travolgere dal chiacchiericcio della mente, questo è il potere della consapevolezza, essere attenti e presenti con equilibrio, serenità e comprensione, sia che l’esperienza sia piacevole, spiacevole o neutra. Restare un semplice testimone indifferente. Quando siamo presenti osserviamo con la visione meditativa, con un’attenzione profonda e penetrante caratterizzata dall’assenza di superficialità, e sappiamo incontrare direttamente ciò che accade nel nostro mondo (la nuda realtà), con apertura, sensibilità, lucidità. Quando accendiamo la luce dell’attenzione saggia, possiamo vedere con chiarezza, comprendiamo che non dobbiamo fare neppure un passo in nessuna direzione, per ritrovare il nostro posto dove possiamo essere a nostro agio; è proprio qui, dove ci troviamo ora. Di solito manchiamo d’intuizione e di una chiara visione perché siamo prigionieri dei nostri condizionamenti. La realtà è già presente in noi ma per la nostra cecità essa ci sfugge completamente. In un certo senso sperimentiamo qualcosa di continuo, ma siamo scarsamente in contatto con le nostre esperienze, solo a metà svegli di fronte alla realtà. In questo senso possiamo dire che non sperimentiamo veramente. Per la Gestalt la vera esperienza è terapeutica o correttiva di per sé, è quel punto al di là delle tecniche come realtà-consapevolezza-responsabilità. Un momento di veglia un momento di contatto con la realtà è quello in cui i fantasmi dei nostri sogni a occhi aperti possono venire riconosciuti per quello che sono, è un momento di addestramento all’esperienza, attraverso il quale possiamo imparare ad esempio, che non c’è nulla da temere, o che la soddisfazione di essere vivi supera la sofferenza o la perdita che avremmo voluto evitare col nostro dormiveglia. Colui che ha sviluppato la stimolazione dall’interno, può ricongiungersi così ai suoi sensi ed entrare in contatto con la propria esperienza, ridestandosi e tornando alla realtà nuda della vita che è “il Sé in Sé per Sé”, il Sé che fa se stesso in Sé stesso, qualunque cosa capiti. Questa è la vera dimensione spirituale, quel punto in cui non si è più diretti dall’io, ma da una coscienza non dualista, non c’è più nessuno che pensa: “tu giungi senza alcun concetto di giungere e vedi senza alcun concetto di vedere”. Finche non avremo superato il dualismo, non conosceremo la libertà definitiva (l’ultima realtà).
Realizzare questa profonda comprensione di sé stessi è la fonte della vera saggezza, l’autentica saggezza risiede nell’osservazione e nella conoscenza di se stessi. Il punto di vista della terapia gestaltica su questo come su altri temi è che la consapevolezza è abbastanza, tenendo bene a mente la distinzione tra essere aperti all’esperienza e fabbricare esperienze. Infatti le azioni che derivano dall’esperienza e la esprimono non sono tese a produrre un effetto. Le azioni che affermano la vita piuttosto che negarla, che rivelano piuttosto che nascondere, che esprimono piuttosto che reprimere, sono in un certo senso non azioni. L’azione infatti contrariamente alla manipolazione (di se stessi o degli altri), viene sperimentata come fluente dall’interno invece che compiuta per andare incontro a modelli estrinseci. Per finire voglio dire che la consapevolezza è il nostro vero Sé è ciò che siamo. Perciò in un certo senso non c’è bisogno di sviluppare la consapevolezza: basta rendersi conto di come la blocchiamo con pensieri, fantasie, opinioni e giudizi. Stare semplicemente nell’istante fare una cosa alla volta e consegnarci totalmente a essa è il modo più efficiente di vivere, è essere semplicemente qui, vivere la nostra vita. “Niente di speciale”. La vita è così com’è, il lavoro è così com’è, il mondo è così com’è, e forse, se sappiamo accettarlo così com’è, ci sveglieremo al suo significato.
In ogni situazione, che gli altri ci osservino o no, dovremmo essere consapevoli di ciò che avviene in noi e stare in guardia contro la trascuratezza e la disattenzione. Così non nuoceremo agli altri. La meta è sviluppare gradualmente la consapevolezza, e attivare quella compassione e gentilezza amorevole che già sono in noi. E questo è alla portata di tutti.
Akong Tulku Rinpoche
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