Autore: Dott.ssa Maria Grazia Antinori

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La persona in difficoltà psicologica per diventare paziente, per prima cosa deve scegliere un professionista a cui rivolgersi e fissare con lui un primo colloquio.

I primi incontri sono molto delicati, a partire dall’invio e dalla prima telefonata, in un breve spazio di tempo, si sovrappongono e si giocano molti e complessi fattori che coinvolgono entrambi i protagonisti.

 Modelli di Accoglienza

Secondo il modello di accoglienza della psicoterapia psicodinamica, sono previsti tre colloqui, viso a viso, per raccogliere l’anamnesi, la storia, sondare la motivazione e la reciproca predisposizione al lavoro comune. I primi incontri, oltre a permettere la conoscenza reciproca, danno preziose indicazioni sullo stato psichico del paziente, forniscono una prima valutazione diagnostica indispensabile per individuare la migliore modalità di trattamento che porterà alla formulazione del contratto terapeutico. Si configura un campo relazionale, dove il principale strumento di lavoro è la relazione transfert-controtransfert, che coinvolge paziente e terapeuta impegnati nel setting, ossia in un contesto constante nel tempo e nello spazio (Bleger, 1967).

Sono numerosi gli autori che hanno trattato nei loro scritti questa delicata fase introduttiva, ad esempio Sallivan, l’ideatore della teoria dei colloqui, descrive lo psicoterapeuta come un osservatore partecipante, che cerca di mettere in massimo risalto la personalità del paziente; Etchegoyen, sottolinea come le modalità operative del colloquio non possono seguire norme fisse, domande e libera espressione, devono amalgamarsi a seconda delle circostanze e dei bisogni.

Lo psicoterapeuta dovrebbe avere un atteggiamento riservato ma cordiale, mettendo particolare cura e attenzione, nel modulare l’angoscia (Meltzer, 1967). Le informazioni si ottengono con una tecnica non direttiva che lascia libera scelta sugli argomenti e sulle modalità di espressione, pur garantendo il sostegno nei momenti critici; non si usano le libere associazioni e le interpretazioni, se introdotte, generalmente hanno una funzione di prova o magari vengono utilizzate per risolvere un momento critico. Anche nel colloquio, il paziente porta i suoi conflitti e le tracce del suo passato  che si attualizzano nel qui ed ora, il transfert ed il controtransfert  rimangono  i due principali strumenti di lavoro, i contenuti sono sicuramente importanti, ma ancora di più come afferma Semi, è significativa l’esperienza del e con il paziente.

Si osserva, una speciale difficoltà in questa prima fase: non è raro che pazienti, di età e condizioni sociali diverse, con sintomi e diagnosi molto varie, mostrino una particolare difficoltà a rispettare il setting che durante i colloqui, coincide con semplici regole e convenzioni sociali, quali presentarsi puntuali agli appuntamenti, avvertire di un eventuale contrattempo, rispondere alle telefonate.

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 I Pazienti Difficili

I pazienti, sempre più spesso, sembrano utilizzare il setting, lo spazio ed il tempo offerto loro, con modalità disordinate ed impulsive, quasi predatorie, dando l’impressione di arraffare quello che possono, per poi fuggire senza lasciare traccia; neanche la qualità e l’intensità emotiva dei primi incontri è garanzia dell’avvio della psicoterapia. Di fronte al ripetersi di questi atteggiamenti, il terapeuta si pone molte domande, ripassa il colloquio, si interroga sulla sua tecnica, sul controtransfert, sulla possibilità di aver commesso qualche grossolano errore sempre possibile anche con una lunga ed intensa esperienza clinica, ma non sempre riesce a darsi una risposta e questo genera un senso d’impotenza che può arrivare all’ansia per la frustrazione subita. Nel controtransfert, il terapeuta deva fare i conti con una modalità passiva-aggressiva che colpisce per il violento annullamento della sua persona, oltre che del ruolo professionale.

Come è evidente ed indiscutibile, la persona in difficoltà, ha la piena facoltà e diritto di rifiutare un particolare psicoterapeuta o magari di fare più colloqui iniziali per individuare il professionista più adatto, quello che è patologico, è l’avidità aggressiva di alcuni pazienti che sembrano incapaci di aderire anche alle più semplici convenzioni sociali; è un fenomeno trasversale, apparentemente non collegato ad una particolare condizione psicologica o di ceto o di età.

Stefano Bolognini, presidente dell’IPA, in una sua intervista, parafrasando Freud, ha parlato del “disagio dell’inciviltà” ed il bisogno di riscoprire le regole pur salvaguardando la libertà e la creatività individuale. Egli sottolinea come il Freud del Disagio della civiltà, abbia evidenziato i costi elevati della repressione degli istinti a favore della convivenza sociale; nel secolo passato, le regole erano molto rigide e molta parte del lavoro dell’analista era dedicato a sollevare le persone da un Super-io castrante ed opprimente. Bolognini prosegue dicendo che oggi ci troviamo in una situazione opposta: si osserva una patologia diffusa della perdita di ogni limite, una sorta di “disagio dell’inciviltà”, il lavoro analitico è spesso volto a costruire dei confini, un senso della realtà e a ridurre un’ondata di narcisismo asociale. Sembrano smarriti contenitori psichici e sociali e le figure genitoriali nelle istituzioni e nelle comunità, quasi nell’illusione di adeguare l’ordine esterno ai desideri onnipotenti. In termini psicoanalitici, la problematica maggiore sembra essere quella di trasformare la gelosia e l’invidia in ammirazione e tolleranza, compito che Bolognini riconosce come arduo e difficile.

Pazienti con importanti problematiche pre-verbali, borderline, disturbi narcisistici, hanno da sempre costituito un gruppo clinico particolarmente difficile ma il nodo attuale, è che alcuni pazienti non si danno il tempo di diventare tali, se ne vanno prima che il terapeuta abbia la possibilità di accoglierli e di costruire un ponte tra il fare ed il dire, è particolarmente difficile raggiungere persone che sembrano mute al pensiero rappresentativo e anche agli affetti definiti (Racalbuto, 1994).

 I Pazienti Fantasma

Sempre più spesso, si incontrano persone che oltre ad avere una patologia narcisistica di fondo, sembrano analfabeti anche dei primi rudimenti della comunicazione. Basta poco per confonderli o spaventarli, anche un semplice ascolto empatico può diventare un’esperienza sconvolgente e nuova; così come cogliere l’interesse del terapeuta verso la propria persona, può essere elaborato come una forma eccessiva di legame e di continuità.

Di fronte ad nuova esperienza troppo forte, il rischio è che il paziente agisca l’unica  risposta che conosce, ossia la fuga senza lasciare tracce o notizie, si potrebbe parlare della scomparsa del paziente che, come nei vecchi film in bianco e nero,  si dissolve come un fantasma.

Questi pazienti-fantasma, trattano l’altro come hanno imparato ad essere trattati, ossia senza consistenza ed identità, in un vuoto senza speranza e senza parola. Di fronte a queste coordinate, il terapeuta può sentirsi smarrito e soprattutto con degli strumenti spuntati: l’ascolto silenzioso è troppo forte; una sottolineatura su qualche passaggio o ripetizione della storia, troppo intrusivo; definire le regole del setting, troppo severo; lasciare agire la persona, troppo passivo; interpretare un comportamento, troppo anticipato.

In un paradosso senza apparente soluzione, fare qualcosa è troppo, non intervenire è poco.

La Posizione del Terapeuta con I Pazienti Difficili

Riprendendo Bolognini, il terapeuta si trova a cercare di offrire un ponte, una possibilità, ad una persona che non ha confini o limiti o regole e che è in preda alla gelosia e all’invidia proprio verso colui che lo può aiutare, e questa ambivalenza che gli rende quasi impossibile tollerare l’esperienza dell’accoglienza e della comprensione.

Il paradosso è che questi personaggi, a prescindere dai sintomi, sono spaventati proprio da quello che desiderano: la relazione, il contatto affettivo con l’altro che viene invidiato ed aggredito proprio per questa sua potenzialità. In realtà, questa ambivalenza è un fenomeno conosciuto bene nella letteratura e che è stato ampiamente trattato, che può dare il via alla reazione terapeutica negativa che lo stesso Freud ha associato al senso di colpa, in un primo tempo legandolo al solo masochismo dell’Io, per poi estenderlo al sadismo del Super-io. Autori successi come l’Horney, hanno evidenziato il rapporto tra reazione terapeutica negativa e narcisismo; Abraham ha sottolineato la competitività con l’analista come una causa dell’interruzione dell’analisi proprio in un momento positivo di sviluppo. La Riviere ha parlato di gravi nevrosi del carattere in pazienti narcisistici che si oppongono e dubitano dell’analista, la reazione terapeutica negativa diventa una difesa maniacale basata sulla negazione della dipendenza per mantenere lo stato attuale, la cui rottura darebbe luogo all’irruzione dei pericolosi vissuti depressivi (Etchegoyen, 1986).

La Klein, mette al primo posto l’invidia e delle difese contro di essa come essenziali nella reazione terapeutica negativa, l’analista per affrontarla con successo deve tenere presente l’intreccio del senso di colpa, della relazione oggettuale narcisistica e dell’invidia e soprattutto non dimenticare la confusione che l’invidia produce tra l’oggetto buono e quello cattivo.

Il problema nuovo posto dai pazienti-fantasma, è la precocità del fenomeno e il pochissimo tempo e strumenti del terapeuta per affrontarlo, la domanda è come interpretare un agito che sta avvenendo nel qui ed ora durante i primi colloqui, senza quasi conoscere il paziente e non aver ancora definito con chiarezza il setting, in altri termini la questione è trovare la lingua per raggiungere il fantasma-paziente in procinto di dissolversi da un momento all’altro senza aver avuto il tempo di gettare le basi della relazione e del lavoro terapeutico.

Le reazioni sono così rapide e mutevoli, che i pazienti-fantasma ricordano l’acqua che si spande su una superfice, questo tipo di persone si potrebbero definire, parafrasando il sociologo Bauman, con “una personalità liquida” alla ricerca di un contenitore che quando è trovato, è aggredito in quanto impone una forma rigida ed esterna al liquido; del resto se mancasse il contenitore, l’acqua si disperderebbe ed evaporerebbe.

I pazienti-fantasma potrebbero rientrare nel fenomeno dell’incestualità di Racamier, l’incestualità è uno stato molto esteso e trasversale, caratterizzato da confusione generazionale, perdita dei confini, perversione narcisistica, legamenti che prendono il posto dei legami, gelosia, invidia, diniego, negazione, uso e consumo narcisistico dell’altro. Di fondo, nella problematica incestuale vi è un’importante ferita narcisistica che trasforma le persone in predatori dell’intimità e del valore dell’altro. L’incestualità riguarda sia le persone che i gruppi e le istituzioni, è una caratteristica psicologica ma anche uno stile relazionale.

Secondo Racamier, trattare in psicoterapia o in analisi l’incestualità, richiede al terapeuta tempo e grande impegno, nel processo di recupero è necessario ridare valore narcisistico all’oggetto incestuale che ha perso ogni riconoscimento, ricostruire quell’humus da cui far ripartire i processi di sviluppo e di maturazione.

Ritorna il tema della velocità del paziente-fantasma, che resta sulla scena un tempo troppo breve per avviare qualsiasi processo, ci si muove nell’agito, nel pre-verbale, offrire un contenitore sicuro non sembra sufficiente, visto che il potenziale paziente agisce immediatamente, senza considerare il setting che rimane sullo sfondo apparentemente inutile e svuotato di ogni significato e valore, così come la persona del terapeuta.

Il paziente che chiede e si presenta ai primi colloqui, dimostra di avere abbastanza strumenti e capacità per arrivare allo studio del professionista, ma non sembra tollerare il rimanerci abbastanza per iniziare un  lavoro. Si potrebbe pensare che  l’aspettativa del paziente-fantasma è troppo distante dall’incontro con la realtà e così l’oggetto esterno rappresentato dal terapeuta, non è tollerato e viene semplicemente espulso ed annullato, questo perché il paziente-fantasma non mantiene la continuità dell’essere nel tempo e nel flusso emotivo, ossia è carente nelle funzioni della holding materna, così come la descrive Winnicott.

L’holding materna, mantenuta con  grande sforzo e fatica della madre anche a costo di annullare se stessa, costruisce  per il bambino l’illusione di un mondo con un tempo ritmato sui suoi bisogni psicologici e fisiologici. E’ una fase essenziale e fondamentale, che garantisce al bambino le condizioni per sperimentare il movimento spontaneo e di diventare padrone delle sue sensazioni  (Ogden, 2005). Quando il bambino cresce, si modifica la funzione della holding, ad esempio permettere al bambino di sentirsi sicuro ed integrato sia fisicamente che psicologicamente, ne è un esempio il paziente che ha bisogno di raccontarsi all’analista per avere una persona che lo conosce in ogni suo aspetto. L’esperienza del fenomeno transazionale (Winnicott, 1951) e la capacità di stare solo (Winnicott, 1958) sono aspetti del processo di interiorizzazione della funzione materna che consente di mantenere una situazione emotiva nel tempo (Ogden, 2005).

E´infatti  nell’area transazionale che Winnicott colloca l’origine della scoperta del tempo che  è una dimensione che presuppone il riconoscimento di un mondo esterno non controllato del bambino, se questo  non è in grado di tollerare l’assenza della madre, prevale invece la fantasia onnipotente che impedisce il riconoscimento e l’uso degli oggetti esterni e anche il  riconoscimento del tempo, minando così la continuità dell’esperienza di essere vivo e la capacità di essere solo.

Forse questi pazienti-fantasma così difficili da afferrare, sono proprio sprovvisti dell’interiorizzazione della holding materna, non riescono ad utilizzare l’aiuto che loro stessi stanno  cercato, hanno la speranza di un oggetto esterno finalmente positivo e nutritivo come la madre nella prima fase della vita, ma incappano in un eccesso di realtà che è data dalla stessa necessità di  rispettare  una dimensione temporale e  di riconoscere l’esistenza  dell’altro.

Il terapeuta dovrebbe quindi esserci, ma al contempo restare nello sfondo, ricreando l’illusione che sia il paziente l’unico protagonista a determinare la situazione che vive; come la madre sufficientemente buona della preoccupazione materna primaria, il terapeuta dovrebbe confondersi con lo sfondo.

Questa particolare atmosfera, non può essere garantita dal terapeuta con  la semplice osservazione partecipata, è piuttosto necessario   garantire uno speciale stato  inconscio,  che deve essere modulato sulle necessità della persona e che certamente non si esprime con il semplice significato letterale delle parole, ma piuttosto con il loro valore emotivo e nel gioco del transfert e controtransfert. In una parola, il terapeuta è chiamato ad una rèverie complessa, senza rete di sicurezza, è chiamato a sognare un sognatore senza sogni e senza spazio psichico e  tempo (Ogden, 2009).

La sfida per il terapeuta, è quella di trovare il giusto  assetto interno quasi alle prime battute, prima che il paziente-fantasma, al contatto troppo violento con la luce della realtà, possa dissolvi nel nulla.

Maria Grazia Antinori

Psicologa,psicoterapeuta.

antinorimariagrazia@virgilio.it

www.arpit.it

BIBLIOGRAFIA

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