Autore: Dott.ssa Morena Romano

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Parlare di etnia oggi significa far affiorare alla mente dei nostri interlocutori immagini disparate e diverse fra loro, poche di esse sono corrette, ma tutte si ricollegano a differenziazioni di razza, cultura, colore della pelle; differenziazioni che a loro volta purtroppo si ricollegano a discriminazioni di ogni genere, soprusi e conflitti.

Ma parlare di etnia all’interno di una prospettiva antropologica ci propone diversi orizzonti su cui volgere lo sguardo, diverse sfaccettature di un argomento così complesso, articolato e reo di aver causato non pochi dissidi anche sanguinosi nella storia dell’umanità.

Ma che cosa si vuole intendere con il termine “etnia” ? Che cosa significa?

Il termine etnia si usa per identificare gruppi di persone che condividono particolari caratteristiche storiche-culturali e linguistiche; questo è piu o meno la definizione che potremmo trovare in qualsiasi vocabolario, ma è necessario analizzare i concetti e le implicazioni che vi stanno dietro.

Il concetto di etnia che si può assimilare per certi versi e per l’uso che ne è stato fatto a quello di cultura e tribu, risulta spesso fallace per le sue sfumature etnocentriche che gli derivano dalla sua provenienza  occidentale,  fonte di origine culturale in cui il rapporto con le altre razze si è risolto sempre (o senza essere troppo pessimistici, quasi sempre)  in un tentativo di dominio e prevaricazione, tanto che si è arrivati definire un legame speculare fra appartenenza etnica e sentimenti nazionalistici che è puramente fittizio dato che queste 2 nozioni non hanno nulla in comune se non il fatto che una lettura distorta della prima ha portato al fiorire della seconda e, in questo dobbiamo purtroppo dire, che ha avuto un ruolo determinante anche l’antropologia passata che, consapevolmente o meno ha creato relazioni gerarchiche fra la propria cultura, quella occidentale, quella bianca, quella civilizzata, e quelle da essa studiate, si pensi solo al fatto che queste venivano chiamate primitive, selvagge, non civilizzate.

Oggi con l’introduzione della concezione del relativismo culturale, fortunatamente l’antropologia ha potuto riscattare gli errori del passato trovando un nuovo orientamento che gli ha permesso di elaborare una nuova visione dell’umanità che esclude quelle gerarchizzazioni così subdole e poco produttive, che però restano consolidate e forti nel senso comune.

Come consolidate e forti sono le discriminazioni, gli atteggiamenti etnocentrici e la poca tolleranza e apertura verso le altre culture, sentimenti che caratterizzano la nostra come le passate epoche. Che questo sia poi servito ai  potenti di ogni paese per fomentare guerre e conflitti che avevano il particolare scopo di aumentare il loro potere ed espandere i loro confini e la loro ricchezza, è tutto un altro discorso che andrebbe ulteriormente approfondito.

L’etnicità fonda le proprie radici essenzialmente su rapporti di forza fra diverse culture che si concludono con vinti e vincitori, dominati e dominanti; tutti raggruppamenti che hanno come giustificazione di fondo l’identità etnica, l’appartenere ad una cultura anzichè ad un altra. Ma l’etnia e il sentimento di appartenenza ad essa, risultano essere, uno dei tanti dogmi con il quale l’umanità cerca di creare una percezione ordinata di sè. L’etnia diventa così una costruzione illusoria, fittizia, favorita anche dall’uso costitutivo del termine  che è stato fatto fino a poco tempo fa dall’antropologia, che l’ha portata sempre piu a promuovere l’immagine di un’umanità frammentaria, divisa che provoca tanti piu  danni se utilizzata per scopi politici.

E’ per questo necessario associare il termine etnia ad un uso regolativo che gli permetta di analizzare i diversi tratti culturali come il riflesso potenziale di una realtà che potrebbe effettivamente esistere.

Questo eliminerebbe, almeno in parte, gli effetti distorcenti dell’ottica in cui sono stati trattati i problemi etnici in passato, sulla base di quello che viene appunto definito: relativismo culturale.

 Il relativismo culturale, innanzitutto,  si  fonda sull’idea che  la costruzione di  realtà culturali diverse dipende da un modo diverso di interpretare la realtà circostante; il maggiore rischio teorico in cui si può incappare accettando questa concezione che implica la totale eguagliarietà fra le culture, risulta essere quello di proporre l’umanità come costituita da universi culturali chiusi, isolati ed intraducibili.

Questo rischio puo essere ovviato impiegando il relativismo culturale non come un dogma o una dottrina, ma come un metodo appropriato all’analisi critica delle problematiche tipicamente di convivenza fra gruppi culturali diversi.

Ma ritorniamo alle questioni etniche da cui l’eminente importanza del fenomeno del relativismo culturale ci aveva un pò allontanato, e lo facciamo occupandoci del concetto di identità etnica.

Con questo termine s’intende delineare il sentimento d’appartenenza  ad una cultura che deriva dall’appropriazione da parte del soggetto dei tratti culturali tipici di essa.

L’identità etnica è percepita come un dato assoluto e concreto che però si differenzia a seconda del punto di vista, che può essere esterno e allora in questo senso assistiamo ad una concezione di questa come tentativo di stigmatizzare gli “altri”  ed esaltare la propria appartenenza etnica; oppure può essere interno e allora si connota con un’autorappresentazione di sè.

 A seconda di quale sia il punto di vista utilizzato, quindi, il concetto di identità etnica acquisisce particolari caratteristiche differenti che ne delineano diverse sfaccettature come le molteplici facce di un unico poliedro.

Infine, dobbiamo trattare, per concludere questa breve scorsa ai temi piu salienti delle questioni etniche, il concetto di gruppo etnico.

Definire che cos’è un gruppo etnico, è un dato di particolare importanza se si vogliono evidenziare con particolare accuratezza le dinamiche fra gruppi differenti;  il gruppo etnico che abbiamo precedentemente assimilato in maniera, devo ammettere purtroppo ingenua alla categoria semantica di etnia, è piu precisamente secondo la definizione di Cohen, (quella che fra le tante ci sembra la piu significativa), un insieme di persone che condividono tratti culturali e piu  dettagliatamente norme e comportamenti comuni.

I gruppi etnici non vivono (se non in casi rarissimi) isolati gli uni dagli altri, ma agiscono tutti all’interno di contesti piu ampi dove pongono in essere interazioni e relazioni con gruppi diversi per appartenenza etnica e quindi cultura e identità.

Secondo Barth l’identità etnica si mantiene all’interno del gruppo culturale d’appartenenza non in seguito all’isolazionismo, come si pensava in passato, ma in seguito al susseguirsi di contatti interculturali che permettono anche il perpetrarsi delle differenze.

Le differenziazioni culturali sono dunque il frutto di un continuo cambio/scambio fra i diversi gruppi etnici che avviene però solo per quanto riguarda alcuni settori e previa la conoscenza di codici di decodifica comuni (es.: il linguaggio), i contenuti culturali che stanno alla base di questi scambi rendono possibile l’edificazione di confini etnici ossia linee di separazione fra le diverse culture che permettono l’interazione fra esse; ma interazione non è solo contatto trasformarsi anche in conflitto o dissidio; ma il vero punto d’incontro fra due culture diverse è rappresentato dalla frontiera etnica quella zona che rimane scoperta e che funge da anello di congiunzione fra queste sia essa una congiunzione pacifica o meno.

Turner definì la frontiera come il luogo dove una cultura (egli intende quella occidentale), preme con un azione intrusiva su un’altra, enfatizzando l’ottica del “noi” nelle questioni di contatto fra due popoli.

Oggi infatti si cerca sempre piu di cogliere il punto di vista “altro” soprattutto in seguito alla crescente urgenza della richiesta delle culture considerate “altre” di un riconoscimento a tutti gli effetti della loro identità etnica.

Ma ritorniamo all’analisi dei confini etnici, innanzitutto spiegando perché questa nozione è così essenziale d’analizzare nel contesto dei problemi etnici; il motivo risiede nella necessità sempre piu  incalzante di incanalare in maniera positiva l’incontro fra fattori culturali differenti entro una società che sta diventando di giorno in giorno piu cosmopolita e multietnica anche se ciò puo generare la delusione di chi, vittima ancora di un eccessivo oscurantismo retrogrado, vorrebbe una società monoetnica  o per usare un aggettivo dal significato piuttosto controverso “pura” che pur accettando le diversità altrui le preferisce al di là della propria frontiera.

I confini etnici sono linee invisibili all’occhio umano, ma talmente consistenti da essere quasi palpabili in talune situazioni, è perciò impossibile cancellarli  anche se il flusso di entrate e uscite a cui sono sottoposti diviene sempre piu forte e continuo.

Abbiamo già visto come le differenze culturali permangono anzi si rafforzino in seguito all’interazione e al contatto con altri gruppi etnici, e allora quali sono gli altri effetti provocati da tale contatto e interazione, quali sono in pratica i risvolti principali latenti e non, della questione del confine etnico?

Per contro a tutte quelle teorie tanto ottimistiche da cadere troppo spesso nell’utopistico, dobbiamo dire che dopo un attenta analisi della realtà, si è potuto osservare che le interazioni interculturali non si risolvono mai in maniera del tutto pacifica, e anzi la via piu pacifica che può essere intrapresa è quella della stratificazione delle etnie che come ben sappiamo porta all’assoggettazione di gruppi etnici da parte di altri gruppi etnici.

Questo modus operandi proprio “dell’attività” del confine etnico, può sfociare in un adattamento da parte del gruppo subordinato, che accetta tale condizione come il frutto di una norma prescritta e inamovibile; ma il piu delle volte lo vediamo concludersi in un vero e proprio conflitto che anche se non arriva alle atrocità tipiche della guerra si avvicina molto ad esse anche per le implicazioni a livello morale e psicologico.

Però prima di arrivare a parlare dei conflitti etnici analizzeremo le varie forme meno estremiste in cui si possono presentare le relazioni etnocentriche,  tenendo conto che in esse il confine etnico non è mai abolito ma persiste sempre e comunque, perciò le relazioni etniche anche se condotte in maniera positiva si fondano sempre su differenze valutative oltre che di comportamento, che vengono accettate e nei migliori dei casi integrate con le proprie.

Vista in questi termini, la relazione interetnica, è da considerarsi piu che soddisfacente e purtroppo anche tanto difficile da riprodurre.

Un esempio di relazione interetnica facile da trovare nei contesti sociali odierni, è quella in cui alla base dell’interazione troviamo un rapporto asimmetrico e gerarchico.

Esplicativo in questo senso diventa il caso degli zingari o gitani, che si spostano di paese in paese e in ognuno di questi vengono soggiogati entro un rapporto di subordinazione dove loro assolvono il ruolo di gruppo inferiore per razza, quindi differenze biologiche e cultura, quindi differenze intellettive.

Ma molte volte le relazioni etniche di questo tipo non si risolvono con la tacita rassegnazione dei gruppi considerati inferiori, poiché spesso questi tendono a ribellarsi alla loro condizione, sia spinti da impulsi propri, sia spinti da pressioni che vengono fomentate all’interno della vita sociale e che promuovono l’etnocentrismo, la superiorità della cultura d’appartenenza ecc… .

E così arriviamo ai veri e propri conflitti etnici.

La prima caratteristica peculiare che dobbiamo sottolineare è che, una volta che si sono instaurati i conflitti etnici, si rafforza anche quel sentimento di etnicità inteso come accrescimento dell’importanza che detiene la condivisione di  particolari tratti culturali, norme e riti comportamentali.

Ma, come tutti sanno, dalle crociate in Terra Santa del 1200 d.C., in poi, tutte le guerre  e i conflitti hanno avuto un qualche scopo politico e d’interesse, sia pur esso mascherato da ideali di supremazia etnica, miti religiosi o altro.

I conflitti etnici sono spesso armati e la guerra, è inutile dirlo, non porta né vinti nè vincitori; questo può sembrare un po’ retorico, soprattutto se detto da una pacifista convinta, tuttavia ciò non toglie che questa non sia un opinione personale, ma un dato di fatto, un fenomeno oggettivamente riscontrabile e verificabile nella realtà; e sembra quasi impossibile che anche dopo secoli e secoli di dimostrazioni, errori e cataclismi provocati dall’uomo contro se stesso, non si sia ancora arrivati a trovare una risoluzione non violenta che permetta agli uomini di vivere gli uni assieme agli altri accettando le reciproche differenze e rivalutandole come fonte di ricchezza.

Questo, a mio parere resterà solo un utopia destinata a chi possiede ancora la forza e il desiderio di sperare in un mondo migliore, ma a chi è abituato a vedere l’umanità attraverso la lente di un perspicace realismo o di un esasperato pessimismo, o con gli occhi della guerra, resta solo la frustrazione dell’eterna impotenza che da sempre opprime i popoli soggiogati al volere delle cariche massime che li governano o che li tiranneggiano, sarebbe piu giusto dire in alcuni casi.

Ma senza perderci in altre futili divagazioni, vorrei riprendere il discorso dei conflitti etnici, cercando di renderlo il piu chiaro e concreto possibile.

E quale modo migliore per farlo se non quello di utilizzare un esempio pratico  che ci permetta di analizzarli nelle loro diverse forme e nei loro particolari piu nascosti.

E di esempi in questo senso, ne pullula la storia dell’umanità sia passata che presente tanto da avere quasi l’imbarazzo della scelta poiché tutti hanno un forte potere esplicativo. Ovviamente per ragioni di spazio e tempo dovrò essere sintetica fino all’eccesso ma cercherò di fare della mia, un illustrazione

il piu possibile delucidativa.

Il caso che ho scelto fra i tanti, è quello riguardante la questione della ex Jugoslavia, i motivi per cui la mia scelta è caduta su questo e non su altri casi, sta nella vicinanza temporale e spaziale di tale conflitto, ma anche nelle ripercussioni di enorme portata che ha avuto sia a livello sociale che politico, nel resto d’Europa e del mondo.

La questione dei Balcani è ormai storia vecchia quanto il mondo, essa rappresenta il maggior crogiolo di etnie che si è potuto osservare e mantenere sin da tempi antichissimi.

Tutte queste etnie, se vogliamo dare una breve scorsa al passato, sono state da sempre assoggettate a domini diversi, e passando da tirannia a tirannia, dall’impero Ottomano a quello Austro-ungarico, alle varie occupazioni straniere fino ad arrivare ai piu recenti dittatori come Tito (in Albania) , sono rimaste in condizioni di arretratezza e di disagio sociale ed economico che si è di giorno in giorno aggravato, fino ad arrivare alla situazione ormai insostenibile che abbiamo visto precedere la guerra, dove la povertà era arrivata a livelli da terzo mondo, senza parlare poi delle condizioni igieniche e scolastiche del tutto deficitarie.

Nell’insieme tutti questi fattori negativi hanno rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso, e che i cosiddetti “Signori della guerra” hanno saputo sfruttare al meglio per arrivare a raggiungere i propri scopi.

Ma che ruolo hanno avuto allora le differenze culturali?, che cosa ha trasformato questo lotta per il potere in un conflitto etnico?

La risposta è presto data, le differenze culturali sono stati gli elementi principali su cui si è fatto leva per scagliare i membri delle varie etnie gli uni contro gli altri.

Risulta però difficile definire se le differenze etniche siano stati solo degli espedienti per fomentare la lotta per il potere o se comunque chi le ha esaltate fino all’eccesso, lo abbia fatto perché ci credeva, perché convinto, in un impeto di irrazionale etnocentrismo, di restituire alla propria cultura quello splendore simbolico e materiale che gli era stato ingiustamente e forzatamente tolto.

Io sono piu propensa a credere che sia valida la prima delle due ipotesi, ma ovviamente questa è solo un opinione personale.

Sono invece da considerarsi nella loro piu effettiva e triste oggettività le conseguenze che tale conflitto ha provocato, e non sto affatto parlando di quelle a livello materiale o a livello di perdite umane, che pure hanno causato danni inestimabili che lasceranno segni indelebili negli occhi e nel cuore di chi li ha vissuti.

Mi riferivo piu precisamente, per restare nell’ambito di studio da noi affrontato, agli effetti che hanno avuto riscontri sociali, e qui possiamo elencarne diversi tutti di enorme portata, che vanno dal disgregamento del tessuto sociale le cui trame ancori deboli erano state formate in seguito agli apocalittici sforzi di riunire in spazi così modesti e inospitali membri di culture diverse fra loro; rotture anche violente di rapporti ormai consolidati nel tempo e nella rilevanza affettiva ecc… .

Ma il piu grande di tutti, secondo me, resta quello di aver introdotto o piu spesso ravvivato l’odio e l’ostilità etnica, l’intolleranza verso chi è diverso e l’urgenza di eliminare tale diversità.

L’errore piu grande è stato quello di seminare morte, guerra e dolore in nome di un’antagonismo piu fittizio che reale, in nome di ideali di purezza di razza cosi falsamente professati, ma soprattutto il ripetersi di tale errore nonostante il sangue di milioni e milioni di essere umani avesse già macchiato le mani di coloro che li decantavano.

In ultimo, vorrei esplorare un’altra tematica legata alle questioni etniche ossia quella dell’emigrazione, che è un fenomeno che ha toccato la nostra cultura molto in profondità e ci ha visti sia come emigranti che come paese meta di migrazioni.

E’ questo un fatto, che ha forti ripercussioni sia a livello sociale, politico che economico, ma l’ottica che andiamo ad analizzare noi ora è quella da cui siamo partiti e che ci ha accompagnato per tutto questo viaggio alla scoperta dello scenario sociale e culturale tanto multiforme quanto complesso che è la questione etnica, così difficile da interpretare e da risolvere.

Quest’ottica è appunto quella antropologica.

E se utilizziamo questa prospettiva possiamo dire che il malessere che molte volte si riscontra nelle aree con alto tasso di popolazione emigrante, non è dovuto solo alle precarie condizioni di vita, ma a tutti quei problemi che abbiamo analizzato finora, ciò equivale a dire, lo scontro fra due culture diverse e l’associazione che avviene d’ambedue le parti di stereotipi  pregiudizi e preconcetti alla cultura “altra”, con ovvia distorsione condizionata da questi, degli atteggiamenti e delle valutazioni nei confronti delle persone che appartengono appunto alla cultura diversa dalla propria che determinano aspettative del tutto infondate, poco veritiere che oltre a disturbare l’interazione interculturale a volte la impediscono.

Ma la prospettiva antropologica ci porta ad osservare un’altra sfaccettatura del problema dell’emigrazione, e questo è rappresentato dal modo o dalla possibilità che la cultura “altra” possa integrarsi in quella ospitante. Questo è un fenomeno molto importante perché il soggetto emigrante porta con sé, nel paese d’adozione un bagaglio culturale dotato di regole, norme, comportamenti, ecc… , che egli deve saper orientare nella direzione impostagli dalla cultura del paese in cui si reca a vivere; ciò sembra facile, ma non lo è affatto, non è facile far coincidere usi e costumi differenti cosi come norme sociali a cui attenersi.

Ma il soggetto emigrante deve farlo, se non vuole essere escluso, emarginato dalla società nuova in cui intende vivere e lavorare, i modi per farlo sono molteplici e ogni popolo emigrante sceglie e sviluppa quello che preferisce, può rimanere attaccato alla propria cultura d’origine, riunendosi in ghetti o quartieri che riproducono in tutto e per tutto luoghi, pensieri e memoria etnica di quella cultura, come hanno fatto e fanno anche oggi gli Ebrei di mezza Europa, o come i gruppi emigranti negli USA all’inizio del secolo scorso.

Oppure può amalgamarsi totalmente nella nuova cultura, abbandonare non solo usi e costumi ma anche norme sociali e morali della cultura d’appartenenza , relegandoli a mere rimembranze etniche che molto spesso diventano anche poco importanti per la costituzione di un identità sociale.

Questo può essere ad esempio, il caso di molti gruppi presenti negli USA, oggi che dopo generazioni e generazioni, si sono identificati in una società omogenea per atteggiamenti e comportamenti, nella quale si sono integrati pagando come prezzo, a mio parere troppo caro, la perdita di quelli che erano stati i valori fondanti della loro cultura d’appartenenza, e quindi anche i valori fondanti della loro identità sociale.

Se ne sia valsa la pena oppure no, se sia stato un bene o meno, questo non so dirlo, però credo che, ciò abbia contribuito, come nel caso degli indiani d’America, a disperdere i preziosi frammenti di una cultura distrutta dalla ferocia dell’uomo bianco al quale, quindi, dobbiamo imputare anche l’errore di aver provocato la perdita di tali importanti contributi, di cui oggi non ne è rimasta che qualche debole traccia.

Ma c’è un’altra cosa, importantissima da dire, ossia che la caduta nell’oblio della cultura d’appartenenza ha provocato in taluni casi forti crisi d’identità di molti popoli; la perdita delle proprie radici molte volte causa anche l’incapacità d’integrarsi in contesti diversi e di conseguenza l’emarginazione, l’esclusione sia dalla cultura d’origine che da quella d’adozione.

E allora forse sarebbe piu giusto che le persone mantenessero la propria identità etnica e culturale intatta così da non perdere mai di vista quello che erano, per sapere chi sono e poi chi diverranno.

 Ma per arrivare a questo Noi, inteso come Umanità, nella sua globale complessità dovremmo imparare a tollerare, accettare le differenze, a concepirle, come ho già detto, come fonte di ricchezza e non come uno strumento per classificare, sminuire e ghettizzare categorie di persone.

Occorre così, e con immediata urgenza, un nuovo modo d’interpretare le diversità, l’alterità, che deve, anzi non può che nascere da modificazioni apportate ai processi di inculturazione.

Questi, sono importantissimi e devono orientarsi verso un nuovo modo di leggere la cultura propria e “altra”, in pratica si deve insegnare alle nuove generazioni, ad accettare e apprezzare chi ha la pelle diversa, chi proviene da una cultura diversa, chi ha radici etniche e per questo usi, costumi e lingua, diverse dalle proprie.

E’ di fondamentale importanza quindi formare una nuova coscienza che consenta il recupero e il rinnovo delle diverse identità etniche e la loro convivenza all’interno di uno spazio comune.

A tutto questo però siamo ancora molto lontani, e per arrivarci si dovrà faticare a lungo se non altro, e questo è il compito principale che spetta alle scienze umane in generale e all’antropologia in particolare, per abbattere i miti e i preconcetti  propri del senso comune che disturbano una visione “pulita” della realtà.

In questo modo, anche se dubito che questo obbiettivo possa essere raggiunto in pieno, si potrebbe arrivare ad instaurare almeno, quella convivenza interetnica e interculturale pacifica, a cui mi riferivo prima, che non lasci piu spazio a conflitti, guerre, razzismo e altro.

Quest’ultima battuta sembrerebbe dettata da un impeto di ingenuo ottimismo ma io la intendo piu come una speranza che le scienze umane possano finalmente dare adito alle pressioni sociali che si fanno sempre piu forti in questo senso, e quindi anche una risoluzione ai piu immediati problemi che infuocano la nostra epoca così presa dal costruire satelliti sempre piu sofisticati, processori sempre piu piccoli e intelligenti, macchine sempre piu umane, ma che ancora non ha imparato a conoscere e amare i suoi simili.