Autore: Dott.ssa Maria Grazia Antinori

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Forme di paura collettiva

Paura, allarme, ansia sono parole ripetute nelle conversazione private e dai mezzi di comunicazione, espressioni di inquietudine e di preoccupazione   che si legano a contenuti diversi quali la crisi economica, l’incertezza del futuro, le modificazioni climatiche, ecc.

Anche nei racconti dei pazienti in psicoterapia, viene spesso evocata la paura associata alle emozioni, alle relazioni, al trascorrere del tempo, alle malattie reali o immaginarie, ai cambiamenti.

La paura, individuale o collettiva giustificata da un evento quando non è paralizzante, è un prezioso strumento di adattamento, infatti, lo stato d’allarme attiva la persona o il gruppo sociale, rendendoli vigile e pronti a rispondere ad ogni evenienza e necessità. Il problema è che il timore può anche trasformarsi in una zavorra disfunzionale quando non è motivato da un pericolo esterno concreto, ma piuttosto da una preoccupazione interiore, un conflitto inconscio proiettato su oggetti esterni o quando, anche se giustificato da una situazione obiettiva, diventa così forte da paralizzare e da impedire il pensiero. La paura eccessiva può essere così intensa da rendere le persone più fragili ed inermi, inibendone il pensiero e la creatività, rendendole dipendenti da soluzioni esterne, atteggiamenti che incrementano anche sul piano sociale, la chiusura e la diffidenza verso il diverso o lo straniero o fanno cercare un capo carismatico a cui affidare la salvezza.
Molte fonti culturali, voci anche molto diverse tra loro, riconoscono il pericolo derivante dalla diffusione e generalizzazione della paura. In Italia, ad esempio, la Cardinale di Milano Tettamanzi, descrive la sua città come smarrita e piena di paura per la perdita di certezze e di valori condivisi, pur mantenendo salda la speranza che il sentimento della paura, possa trasformarsi in energia positiva.

Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti, parlando nel giugno 2009, al Cairo ad una grande platea araba e mussulmana, ha riconosciuto gli errori commessi da scelte politiche dettate dal terrore innescato dall’attentato contro le torri gemelle dell’11 settembre: «La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali».
La psicanalista francese Luce Irigaray, riflettendo sul contagio sociale della paura, sottolinea l’universalità di questo sentimento ma anche come questo si sia diffuso e potenziato. La Irigaray, insiste sulla necessità di cercare in noi stessi nel nostro modo di vivere, la causa dell’onnipresenza e del potere della paura: « Ci siamo tanto allontanati da noi che non abbiamo un luogo in cui ripararci, qualcosa in noi a cui appoggiarci per sfuggire alla pressione ambientale, la quale incita una gran parte di noi a rifugiarsi nel divertimento, come accade spesso nei tempi incerti. Ma un simile divertimento che corrisponde a una sorta di droga, contribuisce ad alimentare l’incertezza».. (Irigaray, 2009)
Così come è disfunzionale alimentare la paura paralizzante, altrettanto lo è l’atteggiamento opposto di negazione del pericolo che genera la preoccupazione. Una metafora esplicativa è il comportamento di negazione di alcuni passeggeri durante l’affondamento del Titanic causato dallo scontro con l’aisberg, questi seguitarono a ballare, annullando la tragedia per rimanere nell’illusione di poter mantenere il controllo, anche a costo della rinuncia ad ogni alla possibilità di salvezza.  Fare come i ballerini sul Titanic che affonda è evidentemente una strategia suicida, è un esempio estremo dell’affidarsi ad una soluzione magica onnipotente e maniacale, per negare la paura attivata da un pericolo reale.

Il tentativo onnipotente di negare il pericolo, rende in realtà più piccoli, chiusi in un micro mondo autistico e paranoico in cui la ricerca di un rituale magico per allontanare l’ansia, peggiora le situazioni e, anzi, alimenta e concretizza i rischi, come la benzina gettata sul fuoco.

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L’attacco di panico: “La paura di avere paura”.

Nella pratica clinica, la paura prende spesso la forma dell’attacco di panico che è l’espressione “della paura di aver paura”, sostanzialmente una malattia della paura.
L’associazione dell’attacco di panico al modo e al luogo in cui questo si manifesta per la prima volta, acquista una valenza molto forte con connotazioni simili alla superstizione. La difesa fobica, come la superstizione che fa allontanare da eventi associati alla sfortuna, inizialmente sembra funzionare ma l’iniziale sollievo ha breve durata, infatti, progressivamente aumentano i potenziali pericoli, fino a limitare in maniera significativa la vita della persona che può arrivare al ritiro dalla vita sociale.

L’espressione della persona in preda ad un’angoscia senza nome, è proprio quella di qualcuno che si sente morire, impazzire, andare in pezzi. E’ una sensazione tremenda ma anche innocua, è proprio questo il paradosso: non c’è nessun pericolo, il paziente non morirà e non sarà aggredito, ma ugualmente soffre e si dispera per pensieri senza parole allontanati dalla consapevolezza.
I pensieri senza pensatore, come direbbe Bion, albergano nella persona che ignora se stessa e che si trasformano in sensazione fisica, in presunti pericoli ambientali. Raccogliendo la storia di questi pazienti, è tipico come descrivano eventi, esperienze difficili e traumatiche della loro vita, con assoluta leggerezza come se non li riguardassero direttamente e spesso non riescono ad associare la situazione vissuta emotivamente, con l’attacco di panico.
E’ proprio l’assenza del pensiero che scatena l’ansia, il poter riconoscere l’emozione disturbante, può diventare la chiave per liberarsi dalla paura.  E’ la pretesa dell’adulto di controllare tutto, scambiando l’illusoriamente l’essere “duro” con “forte”, ossia basando sull’assenza apparente di emozioni, la propria autostima di persona matura, ottenendo invece come risultato quello di allontanare la possibilità del dialogo interiore, il contatto con l’inconscio.
Colui che soffre di attacchi di panico, vive in un mondo fobico, pieno di divieti, obblighi, percorsi già fissati che vengono vissuti come immutabili. Si trova ad essere prigioniero di una realtà che non gli piace e non gli appartiene, ma di cui non può farne a meno perché altrimenti si sentirebbe perso e spaesato. Non si può rinunciare alla protezione della prigione, ma la sua costrizione è intollerabile. Il paradosso, per sua stessa definizione, è irrisolvibile in quanto ogni scelta è perdente e quindi impraticabile, conflitto è così acuto da non venire esplicitato con le parole ma spostato sul piano somatico con l’attacco di panico.
Chi sperimenta il panico, tende a percepire il proprio mondo interno, come concreto. Il pensiero è semplice e lineare, non si colgono le relazioni tra vissuti ed emozioni, le sfumature si appiattiscono, si riduce tutto ad un’unica realtà senza possibilità di cambiamento. Le parole rappresentano un prezioso strumento, una sorta di ponte che può riavvicinare la persona alle sue emozioni e sensazioni, a patto che siano parole speciali che sappiano rappresentare nello stesso tempo la cosa e l’affetto, parlando sia alla mente che alle emozioni rimosse o negate, vissute esclusivamente nel corpo. (Racalbuto, 1994)
E’ prezioso, per quanto doloroso, questo stato di smarrimento vissuto nella quotidianità, nel luogo più familiare che improvvisamente, magari dopo un trauma o un lutto o un attacco di panico, diventa perturbante ossia da luogo conosciuto si trasforma in estraneo, facendo sentire stranieri nella propria casa. E’ proprio in questo luogo sconosciuto, per quanto prima familiare, che l’analista dovrebbe incontrare il paziente ed il suo desiderio di ritrovarsi, la crisi diventa allora una preziosa occasione per dare senso e parola a quello che è rimasto nascosto, segreto, inascoltato. Non c’è ritrovamento senza smarrimento (Racamier ).
Questa sensazione di sperdimento, sembra comune al vissuto collettivo della paura associata a molte possibili ragioni, che spaziano dalle preoccupazioni ecologiste, alla crisi economica, ai cambiamenti sociali e politici.
Si potrebbero fare molte analogie tra la paura individuale e quella sociale, la paura personale è così diffusa, così contagiosa da trasformarsi in una paura collettiva associata a preoccupazioni reali e serie, ma che rischiano di rimanere parziali, perdendo il quadro complessivo. Del resto la paura sociale, alimenta quella individuale e fa sentire il singolo individuo privo speranza, senza valori condivisi e soprattutto deprivato di ogni riferimento.

 L’attacco di panico confrontato con la paura collettiva.

Il senso di paura collettivo, sembra legato al timore di perdere il controllo di non riconoscere più i contorni delle cose e di quello che era certo e scontato, come se improvvisamente ci si accorgesse di essere arrivati alla fine della corsa e davanti si spalanca il vuoto. Per poter cambiare direzione, bisogna guardarsi intorno, osservare il paesaggio per scegliere nuove strategie.
Continuare come gruppo sociale a negare la realtà, ed attribuire la causa di ogni malessere ad un singolo fatto parziale o periferico, fa rassomigliare intere nazioni, ai pazienti fobici che cercano di evitare l’ansia ritirandosi e chiudendo i confini limitati per non sentire la paura di aver paura o, al contrario, ai ballerini sul Titanic, che con la negazione maniacale, tentano di annullare la paura e la tragicità del momento.
Il fatto che il modo occidentale stia vivendo una fase di profonda crisi e di cambiamento è un fatto innegabile e riconosciuto. IL peso e la responsabilità del cambiamento è comunque a nostro carico, non lo possiamo demandare ad un presunto nemico esterno o sperare in un capo assoluto che trovi la soluzione. Il modo occidentale, dopo una lunga fase di crescita   economica e di benessere, si scontra con dei limiti obbiettivi quali risorse finite e non infinite, crisi economica, cambiamento degli equilibri politici mondiali, crisi energetica e ambientale, tutti fattori che sovrastano e che stanno cambiando le coordinate di riferimento sia collettive che personali. Riflettere su quale possa essere la strada per affrontare la fase di globale di cambiamento, è qualcosa che dovrebbe impegnare le migliori capacità e risorse individuali e collettive, ma il contagio della paura come del resto la negazione della crisi, sono sempre in agguato e facilmente possono suggerire pessime strategie. Il contagio della paura non consente di esplorare nuove strade e soprattutto, fa sentire circondati da un mondo paranoico ed ostile che spinge all’isolamento e alla perdita della creatività e della capacità di pensiero. Il rischio è quello di rifugiarsi in soluzioni semplicistiche, che allontanano la complessità dei problemi. Potrebbe sembrare la scelta ottimale quella di asserragliarsi dietro le mura del castello per difendere i privilegi acquisiti, cercando nemici reali od immaginari, possibili capri espiatori, lasciando in cambio l’illusione che il privato piccolo mondo resti immutati, rimandando il momento ineluttabile del confronto con i limiti collettivi ed individuali.
Il giornalista Rampini, sottolinea come vi sia una forte tentazione a lasciarci alle spalle la crisi mondiale attuale con la speranza, che definisce assurda, di poter mantenere i vecchi modelli. L’attuale crisi ha impegnato mezzi colossali che superano l’immaginazione, il rischio è che questa potrebbe risolversi con le forme di una ripresa anemica senza crescita, una bonaccia che potrebbe cronicizzare i nostri mali. Rampini, 2009)
La descrizione di Rampini, potrebbe essere paragonata alla difesa fobica di un paziente così spaventato dalle sue paure, che chiude in casa per limitare al massimo il contatto ansiogeno con il mondo esterno, anche a costo di impoverire e sterilizzare la sua vita.

E’ molto interessante a questo proposito il pensiero del filosofo Mario Perni ola, che scrive che dopo la seconda guerra mondiale, non è accaduto nulla di veramente importante.
I fatti più significativi, definiti “fatti-matrice” dagli anni sessanta ad oggi, sono stati relativamente pochi quali il Maggio francese del 1968, la caduta del muro di Berlino del 1989, la rivoluzione iraniana del 1997, l’attentato alle torri gemelle del 2001. Questi eventi hanno sostanzialmente lasciato immutato l’ordine mondiale, ricoprendo invece una forte valenza medianica, ossia sono stati trasformati in “fatti-spettacolo” filtrati ed interpretati dai mezzi di comunicazione. Questi fenomeni hanno contribuito a mantenere la stabilità politica globale ma hanno anche sviluppato e diffuso la mentalità “miracolistica-traumatica”, ossia una larga maggioranza di persone, nutre l’aspettativa, che le cose si ottengano in modo “miracolistico”, casuale, fortuito piuttosto che attraverso il lavoro, la pazienza, la dedizione e la collaborazione. Si immagina che esistano delle scorciatoie, disgiunte dal merito e all’impegno, per la realizzazione personale e per la felicità.
Secondo Perniola lo stile recente della comunicazione, ci ha resi più dipendenti e meno capaci di pensiero autonomo ed assertivo e soprattutto ha limitato la capacità di provare piacere. ( Perniola, 2009)
Si potrebbe dire che il piacere è stato sostituito da uno stato di generica eccitazione, senza una meta precisa e stabile.
In ambito scientifico, lo studio dei fenomeni fisici ha evidenziato l’esistenza di una stretta correlazione tra fenomeni che appartengono all’ordine del molto grande e del molto piccolo, altrettanto si può osservare nella sovrapposizione tra i fenomeni individuali e quelli sociali.
La crisi attuale così complessa e globale, probabilmente richiederebbe un ripensamento anche sull’idea data per scontata, di un’espansione e crescita infinita dell’economia e del progresso come lo abbiamo inteso fino a questo momento.
Del resto, la nascita psicologia di ognuno di noi, parte proprio dall’elaborazione dei limiti: Racamier chiama “Lutto Originario”, il processo fondante dell’identità che porta all’accettazione della variabile del tempo, del riconoscimento delle differenze generazionali e dei confini personali. (Racamier, 2003)
Il neonato sperimenta all’inizio della vita, in una breve fase, il paradiso dell’unisono narcisistico con la madre cui deve presto rinunciare per crescere e differenziarsi come individuo. Solo rinunciando al paradiso, troverà la possibilità di diventare una persona e di incontrare l’altro diverso da sé.
Non possiamo pretendere ogni cosa, annullare qualsiasi limite fisico e temporale come individui e come umanità forse proprio rinunciando all’illusione narcisistica ed onnipotente di avere ed essere tutto, potremmo sperare in un futuro meno cupo e più aperto.

 

BIOGRAFIA

  • Bion W. R. (1966): Il cambiamento catastrofico. Torino:Loescher editore, 1981
  • Bion W. R. (1978): Discussioni con W. R. Bion. Torino:Loescher editore,1984.
  • Borla E, Foppiani E.Losfeld. Moretti&Vitali,2005.
  • Obama B. H. Discorso tenuto al Cairo, 4 giugno 2009 (traduzione di Anna Bissanti). Quotidiano “La Repubblica”, 5-6-2009, pag 4
  • Freud S.(1908) Analisi della fobia di un bambino di cinque anni. Opere,5:481-588. Torino: Boringhieri,1980.
  • Freud S. (1919) Il perturbante. Opere,9:81-114.Torino: Boringhieri,1980.
  • Irigaray L. La paura, le nostre vite esposte all’incertezza. Quotidiano “La Repubblica”, 1-4-2009, pag. 44.
  • Perniola M. Miracoli e traumi della comunicazione. Einaudi, 2009.
  • Racalbuto A: Tra il fare e il dire. Raffaello Cortina Editore.
  • Racamier P. C. Gli Schizofrenici. Raffaello Cortina Editore .
  • Racamier P. C. Gli schizofrenici. Raffaello Cortina Editore, 1983.
  • Racamier  P. C. Il genio delle origini. Raffaello Cortina Editore, 1993.
  • Racamier P. C. Incesto ed incestuale.Franco Angeli, 2003.
  • Rampini F. Le dieci cose che non saranno più le stesse. Mondatori, 2009.
  • Tettamanzi D. Non c’è futuro senza solidarietà. Edizioni Paoline, 2009