Autore: Dott.ssa Simona Saggiomo

 

 

1. INTRODUZIONE

Il Campanile della Chiesa di Pirago è stato miracolosamente in piedi dopo l’onda: oggi è simbolo di commemorazione e io lo leggo anche come messaggio di Speranza, che, nonostante la tragedia immane, qualche cosa si è salvato: va solo ricostruito.

Il mio lavoro sull’ansia non è stato facile, perché ha messo in discussione il modo che ho per affrontarla, con  limiti e differenze dagli altri. Ciò che in questo piccolo scritto ho intenzione di rilevare è una forma specifica di ansia, che nella tragicità degli eventi del Vajont non ha permesso in talune persone di superare non solo il trauma, ma anche di ricostruirsi una Vita.

Molti di noi conoscono la Storia del Vajont e le risonanze che ho avuto frequentando questi luoghi sono state molte: tre volte ci sono stata ed è sempre stato diverso, costruttivo e doloroso.

La prima volta che sono andata ero una semplice turista: ho visitato Longarone, la Diga, e i paesini di Erto e Casso. Tornata a casa ho iniziato a leggere il libro di Tina Merlin Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont ( Milano, La Pietra, 1983), una giornalista dell’Unità che ha fatto conoscere la storia dell’arrivo di coloro che hanno poi distrutto la valle del Vajont, nonché la vita di molte persone. Sono così ritornata in quei luoghi mossa dalla curiosità di rileggerli secondo altre prospettive : quelle dei Sopravvissuti, Micaela Coletti e Gino Mazzolana. Ho così potuto osservare  diverse visioni, diversi presupposti, che ho potuto costruire nel tempo. Infine sono tornata per l’anniversario del 9 ottobre del 2010: ho alloggiato ad Erto, per sentire come fosse vissuto da lì, dal luogo dove tutto è iniziato, e ho partecipato alla fiaccolata fino alla Diga, per ricordare i morti.  Questo è stato il mio percorso per questi luoghi.

All’inizio ho appoggiato alcune ipotesi e letto tutto in un unico modo; mancavano alcune posizioni e ho iniziato a comprenderne altre. Tutto era distribuito nella storia per essere quasi uno opposto all’altro, come le polarità semantiche della Ugazio: buono/ cattivo, colpevoli/ innocenti. Si poteva stare o da una parte o dall’altra: troppa diversità per unire, ma abbastanza per divedere e non comprendere. Che cosa teneva distanti le persone e i luoghi pur essendo colpiti tutti dalla medesima onda?

Una seconda parte è dedicata al riassunto di alcuni fatti della Tragedia avvenuta nella notte il 9 ottobre del 1963, utile solo per ricordare l’evento traumatico. Intorno a questa dolorosa vicenda iniziata negli anni ’20, ancora oggi rimangono i segni evidenti del passaggio dell’onda, non solo sul terreno di tutti i paesi colpiti, ma sulle Anime, tanto dei vivi, quanto dei morti. Se ne discute ogni volta che la parola Vajont è pronunciata. E’ tanto fredda quanto pericolosa. Crea ansia, in tutti.

Non si sa ancora oggi come affrontare tale questione, tanto difficile, frastagliata, scomoda e piena di sofferenza senza cadere in luoghi comuni o in facili semplificazioni che ne sottolineano la colpa di coloro che l’hanno costruita. Ogni parola deve essere pensata prima di essere espressa, sia in base a dove sei, sia in base a chi hai davanti. Erto e Casso, i due Comuni  friulani sopra la diga, hanno vissuto un’esperienza diversa da quella di Longarone; eppure ogni paese ha avuti i suoi morti, ma i modi per commemorarli, per onorare la loro Vita è differente. Io ho chiesto alla gente di entrambi i Comuni e le sorprese sono state molte.

Tutt’ oggi è pericoloso fare certe domande, si percepisce l’ansia di chi hai davanti e tu ne subisci le conseguenze. Non serve essere un turista o uno psicologo per capirlo: le strade di Longarone, soprattutto, sono espressione del non sapere ancora oggi come gestire l’ansia delle Vittime colpite, dell’ Amministrazione Comunale, della Chiesa, della popolazione che non era ancora nata, ma ha lì le radici, delle persone che sono tornate dopo anni di assenza, dei pochi interessati alla vicenda che si aggirano a fotografare la diga imponente, che è ancora là a ricordare a tutti il Dolore che da lì nasce e ha modificato il corso naturale, non solo di un fiume, il Vajont appunto, ma delle Vite di tutti coloro che intorno ci vivevano, o avevano progettato la loro casa per abitarci. Non tutto è stato sbagliato, ma forse incompleto o inefficace.

Le ultime sezioni, infine, sono dedicate alla creazione di nuove ipotesi secondo la modalità sistemico – relazionale:

Come rispondere all’ansia di un intero sistema? Come non leggere gli eventi solo in base all’ansia che domina sotto tanti aspetti il corso della Vita delle persone sopravvissute e quelle che hanno scelto di restare, o di tornare?

Tale approccio può dare un piccolo contributo nel modo di comprendere alcuni aspetti dell’ansia, considerando in maniera preminente i concetti di circolarità, feedback  e il processo di differenzazione,  che , per esempio,  permettono alle persone coinvolte di uscire dallo schema ormai obsoleto della linearità causa – effetto, tanto caro alla Scienza, quanto creatore di etichette e generalizzazioni, nonché di pregiudizi.

In tal senso proverò a leggere alcuni aspetti della vicenda del Vajont con un’altra lente, che spero possa mettere in circolo nuovi spunti di riflessione e comprensione del fenomeno  dell’ansia.

Infine ho allegato l’unica ricerca sulle conseguenze psicologiche del trauma del Vajont, effettuata dall’Università di Padova, per dare anche un contributo scientifico dell’effettiva importanza di iniziare a riconsiderare gli aspetti psicologici di coloro che sono stati colpiti e ignorati per lungo tempo.

2. BREVE STORIA DEL VAJONT

Mi sembra doveroso, e non solo per obbligo di cronaca, ripercorrere i momenti del passato e significativi della costruzione della Diga e di ciò che è avvenuto dopo. E’ un falso storico pensare che tutto è accaduto il 9 Ottobre del ’63. Quella è stata la fine di un periodo e l’inizio di un altro, che ha portato Dolore e distruzione di Vite umane, animali, case, progetti e speranze future.

Ho raccolto la cronologia dal sito di Erto (http://www.erto.it/diga.htm), molto ben fatto.

Eccola:

1928

  • 4 agosto: prima relazione del professor Giorgio Dal Piaz per la progettazione di un bacino artificiale: «Le condizioni strutturali dell’intera conca del Vajont, per quanto l’apparenza possa trarre nell’inganno, in sostanza non sono peggiori di quelle che si riscontrano nella grande maggioranza dei bacini montani dell’intera regione veneta» (CM 42)

1929                           

  • 30 gennaio ma la Società Idroelettrica Veneta chiede la concessione di derivazione del torrente Vajont per la produzione di energia elettrica, corredata dal progetto dell’ingegner Carlo Semenza

1937

  • 9 agosto: relazione geologica Dal Piaz

1940

  • 5 giugno: relazione geologica Dal Piaz
  • 22 giugno: la Società Adriatica di Elettricità (SADE) chiede l’autorizzazione per utilizzare i deflussi del Piave, degli affluenti Boite, Vajont e altri minori, nonché la costruzione di un serbatoio della capacità di 50 milioni di metri cubi creato mediante la costruzione nel Vajont, presso il ponte del Colomber, di una diga alta 200 metri

1943

  • 15 ottobre: voto favorevole del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: alla riunione partecipano 13 componenti su 34, dunque senza che venga raggiunto il numero legale (CP A1 7)

1948

  • 24 marzo: decreto Presidente della Repubblica di concessione
  • 25 marzo: relazione Dal Piaz: «i numerosi sopralluoghi effettuati in sito, i sondaggi e i cunicoli eseguiti avevano confermato che la diga, nella sezione prescelta, veniva ad impostare per tutta la sua altezza e, cioè, fino al nuovo livello massimo assegnatole [202 m, ndr], nella zona in cui la roccia, generalmente ottima, si presentava, nel suo complesso, più compatta» (CM 48)
  • 15 maggio:  la SADE presenta domanda di variante per l’utilizzazione dei deflussi di Piave, Boite e Vajont per la costruzione di un serbatoio di 58 milioni di metri cubi.
  • 11 ottobre: lettera di Semenza a Dal Piaz: «Si tratterebbe ora di esaminare la possibilità di elevare il livello del serbatoio oltre la quota attualmente prevista (677), eventualmente fin verso la 730. […] Gradirei anche qui il suo parere» (SGI 76)
  • 15 ottobre: lettera di Dal Piaz a Semenza: «Le confesso che i nuovi problemi prospettati mi fanno tremare le vene e i polsi» (SGI 76)
  • 21 dicembre: relazione geologica Dal Piaz: “La struttura geologica della Valle del Vajont agli effetti degli smottamenti dei fianchi che possono derivare dal progettato invaso e dalle oscillazioni del livello del lago”. L’attenzione è posta in particolare alla zona di Erto e a quella di Pineda che presentano materiali detritici di dubbia stabilità. Dal Piaz sostiene che, pur non escludendo la possibilità di smottamenti, si tratti di frane meno ingenti di quanto si può sospettare a prima impressione (CM 42-3).

1949

  • 23 gennaio: il Consiglio Comunale di Erto e Casso ratifica la vendita alla SADE dei terreni situati in Val Vajont di proprietà comunale per la somma di lire 3.500.000, ad un prezzo di lire 3,94 al metro quadrato, da vincolare in titoli di stato al Ministero dell’Agricoltura e Foreste, trattandosi di terreni sottoposti ad usi civici. Per un errore catastale il comune vende anche terreni di proprietà privata. Quando si tratta di versare al Ministero dell’Agricoltura e delle Finanze i 3.500.000, il comune li ha già spesi, compresi quelli che deve restituire alla SADE per la vendita dei terreni non suoi. La SADE anticipa la somma al comune, da scomputare dai canoni per i diritti rivieraschi in conseguenza dell’uso dell’acqua del torrente (MERL 32-33). Nei mesi seguenti comincia la trattativa tra la SADE ed i proprietari privati per l’acquisto dei terreni non comunali.

1952

  • 18 marzo: la SADE si impegna a costruire sul lago una passerella per riallacciare le comunicazioni con la sponda sinistra della valle, interrotte dal bacino.
  • 18 dicembre: decreto Presidente della Repubblica di concessione relativo alla variante del 15.5.1948.

1953

  • 18 novembre: appendice alla relazione geologica Dal Piaz del 21.12.1948.

1957

  • gennaio: la SADE, senza autorizzazione, inizia i lavori di scavo.
  • 31 gennaio: la SADE inoltra la domanda per modificare il progetto della diga, portandone l’altezza a 266 metri, allegando la relazione geologica di Dal Piaz del 25.3.1948 ed un’appendice datata 31.1.1957
  • 6 febbraio: lettera di Dal Piaz a Semenza: «Ho tentato di stendere la dichiarazione per l’alto Vajont, ma Le confesso sinceramente che non m’è riuscita bene e non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice. La prego inoltre di dirmi se devo mettere l’intestazione dell’Ente al quale deve essere indirizzata, e se devo mettere la data d’ora o arretrata. Appena avrò la sua edizione la farò dattilografare e Le farò immediatamente invio. Scusi il disturbo» SGI 82
  • 7 febbraio: risposta di Semenza a Dal Piaz: «Le allego copia del testo al quale Ella secondo me potrebbe in linea di massima attenersi. Ho lasciato punteggiata una frase che, se Ella crede, potrebbe mettere per illustrare le condizioni delle note cuciture fra strato e strato. L’appendice dovrebbe avere l’intestazione e la data che ho indicato nell’appunto. In ogni modo Le lascio ogni più ampia libertà. […] A guadagno di tempo, sarebbe meglio che Ella ci consegnasse la relazione già stesa da Lei firmata» (SGI 82). La data che Semenza indica nell’appunto è il 31.1.1957.
  • 1 aprile: l’ingegner Bertolissi viene nominato dal Genio Civile assistente governativo per la diga del Vajont: il suo compito è quello di seguire in modo permanente i lavori del cantiere e riferirne regolarmente al Genio Civile ed al Servizio Dighe
  • 2 aprile: la SADE presenta il progetto esecutivo, a firma dell’ingegner Carlo Semenza, con aumento dell’altezza della diga da 202 a 266 metri e conseguente aumento della capacità utile del serbatoio a 150 milioni di metri cubi: costo previsto 15 miliardi di lire, con un contributo governativo di 4 miliardi e 805 milioni
  • 17 aprile: la IV sezione del Consiglio Superiore Lavori Pubblici autorizza l’inizio dei lavori, che la SADE ha già avviato dal gennaio
  • 31 maggio:  il Servizio Dighe chiede una relazione geologica adeguata al nuovo progetto
  • 11 giugno: Dal Piaz invia a Semenza il manoscritto della relazione geologica, con un appunto: «Spero che il mio scritto risponda ai suoi desideri e che non ci sia bisogno di modificazioni di fondo. La prego di rimandarmi con suo comodo il manoscritto con le sue osservazioni, delle quali non mancherò di tener conto come di consueto» (CP A1 8)
  • 14 giugno: lettera di risposta di Semenza a Dal Piaz: «Le ritorno la bozza della relazione che, previo soltanto due o tre varianti di scarsa importanza, ho fatto ribattere in bozza, pensando di fare cosa utile anche a lei prima della stesura definitiva.» (CP A1 9)
  • 15 giugno: voto favorevole dell’Assemblea plenaria del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con una prescrizione: «E’ però necessario completarle [le indagini geologiche] nei riguardi della sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche, che verranno a trovarsi in prossimità del massimo invaso» (CM 49). In altre parole si approva un progetto constatando che per affrontare lo stesso è indispensabile procedere ad ulteriori indagini. E’ presente Carlo Semenza, che porta con sé la minuta della relazione geologica di Dal Piaz
  • 6 agosto: rapporto geotecnico di Leopold Müller (il secondo che gli commissiona la SADE): «…il terreno in sponda sinistra, caratterizzato da ammassi di sfasciume, sui cui verdi pascoli sorgono numerosi casolari è in forte pericolo di frana, sebbene sia una formazione rocciosa. La roccia è ivi molto fratturata e degradata e può pertanto facilmente scoscendere ed essere posta in movimento» (ASC 57)
  • 25 settembre: la SADE invia al Ministero la versione ufficiale della relazione geologica presentata in bozza il 9.6.1957

 

1958

  • 12 febbraio: la SADE comunica al Servizio Dighe di aver preso visione del voto con la richiesta di ulteriori perizie e formula le sue osservazioni in merito ai rilievi, suggerimenti e raccomandazioni. Nel testo nessun riferimento alla richiesta delle nuove indagini. Né il Servizio Dighe né il Genio Civile rilevano tale lacuna
  • 1 aprile: la IV sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nomina la Commissione di Collaudo, il cui compito è quello di accertare che la diga venga costruita secondo le prescrizioni, che gli invasi e gli svasi diano risultati soddisfacenti e che l’impianto si dimostri pienamente efficiente. Di essa fanno parte: Francesco Penta, geologo; Francesco Sensidoni, ingegnere capo del Servizio Dighe; Pietro Frosini, ingegnere, presidente della IV sezione del Consiglio Superiore Lavori Pubblici, che aveva proposto al Consiglio Superiore l’approvazione del progetto; Luigi Greco, presidente del Consiglio Superiore Lavori Pubblici, che aveva approvato il progetto: il Regolamento sui lavori di competenza del Ministero dei Lavori Pubblici, (art. 92, ultimo comma, 25.5.1895 e art. 122 del 23.5.1924) vieta espressamente che possa essere nominato collaudatore né far parte di commissione di collaudo chi abbia preso parte alla redazione del progetto da collaudare. Alla lettera, Frosini e Greco non hanno redatto il progetto della diga del Vajont, bensì lo hanno approvato. E’ chiaro comunque che vengono chiamati a controllare due di coloro che hanno partecipato alla formazione dell’atto da controllare. Francesco Penta è inoltre consulente privato della SADE per l’impianto di Pontesei a Forno di Zoldo MERLIN 59
  • 22 aprile: autorizzazione provvisoria del Genio Civile di Belluno alla SADE ad iniziare i getti di calcestruzzo
  • 24 aprile: la SADE sottoscrive le condizioni dettate dal voto del 15.6.1957, dunque impegnandosi anche alle indagini geologiche suppletive
  • 25 agosto: liquidazione del primo contributo del Ministero dei Lavori Pubblici alla SADE
  • 3 ottobre: viene concesso alla SADE di sostituire la passerella prevista nel 1952 sul bacino con una strada perimetrale lungo tutta la sponda sinistra del bacino: alle proteste degli erto-cassani che preferivano la passerella, «La SADE risponde che non si può, che la natura del terreno non permette la costruzione dell’opera» (MERL 49)
  • 29 ottobre: nuova relazione Dal Piaz, riferita al tracciato della strada perimetrale sulla sinistra del Vajont. In essa si osserva l’esistenza, in località Pozza, di roccia fratturata e si suppone che possano esservi in profondità fessurazioni parallele alla valle. Dal Piaz conclude però sostenendo che mancano «segni superficiali per i quali si potesse parlare di avvenuti movimenti» (CM 58)

1959

  • 7 marzo: liquidazione del secondo contributo del Ministero dei Lavori Pubblici alla SADE
  • 22 marzo: frana di Pontesei: 3 milioni di metri cubi di roccia cadono nell’invaso costruito dalla SADE. Muore l’operaio Arcangelo Tiziani. Consulente geologico dell’impianto è Francesco Penta, che fa parte della Commissione di Collaudo per la diga del Vajont.
  • 23 marzo:  lettera del geologo Pietro Caloi (che sta studiando la zona della diga dal 1953) all’ingegner Tonini, a proposito della frana di Pontesei: «…ti prego di rileggere la relazione che al riguardo ti ho inviato ai primi di luglio 1958: ciò che è avvenuto vi è previsto con esattezza sconcertante» (ASC 33)
  • 27 marzo: Caloi, sempre a proposito della frana di Pontesei e della sua prevedibilità, scrive all’ingegnere Rossi-Leidi: «Rassicuri pure l’ing. Biadene: la discrezione è nel mio costume. Piuttosto, se mi posso permettere un consiglio, suggerirei di trarre le naturali conseguenze dal fatto.» (ASC 33)
  • 3 maggio: costituzione del Consorzio civile per la rinascita della valle ertana, fondato da 126 cittadini di Erto e Casso
  • 5 maggio: appare su “l’Unità” un articolo a firma di Tina Merlin dal titolo “La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono”. La Merlin denuncia le responsabilità della SADE e segnala i pericoli cui la costruzione del bacino espone gli abitanti di Erto. L’articolo costa alla Merlin ed al direttore de “l’Unità” la comparsa in giudizio «per diffusione di notizie false, esagerate, tendenziose capaci di turbare l’ordine pubblico» (CP A1 16)
  • 30 maggio: decreto di concessione relativo al progetto del 1957
  • 19-21 luglio: primo sopralluogo della Commissione di Collaudo, che viene portata anche a Cortina d’Ampezzo ed a Venezia, a cena sulla terrazza dell’albergo Europa. Del sopralluogo, l’ingegner Sensidoni deve presentare una relazione al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: «Ma del Vajont, tra paesaggi, pranzi e cene, si ricorda poco. Per essere più sicuro la chiede alla SADE, che gliela manda. Gliela invia il Direttore dell’Ufficio studi, Dino Tonini (MERL 61)
  • 23 luglio: il capo del Genio civile di Belluno, ingegner Desidera, che ha appena imposto alla SADE la sospensione dei lavori di costruzione della strada di circonvallazione sulla sinistra del Vajont (in quanto la società non ha presentato il relativo progetto al Genio Civile), viene trasferito in altra sede con lettera urgentissima firmata dal Ministro dei Lavori Pubblici.
  • settembre: la costruzione della diga è ultimata: 261,60 metri di altezza; 190,15 metri di lunghezza al coronamento; 725,50 metri di quota del coronamento; 22,11 metri di spessore alla base; 3,40 metri di spessore alla sommità; 168 metri di corda in sommità; 360.000 metri cubi di calcestruzzo e 400.000 metri cubi di roccia asportata.
  • ottobre: la SADE incarica il professor Caloi di condurre una campagna geofisica sul versante sinistro a monte della diga.
  • 10 ottobre: sesto rapporto geologico di Leopold Müller: i suoi dubbi sulla stabilità della sponda sinistra sono tali che egli propone alla SADE di saggiare la stabilità dei fianchi del futuro serbatoio attraverso dieci diversi tipi di indagine
  • 22 ottobre: secondo sopralluogo della Commissione di Collaudo.
  • 28 ottobre: la SADE avanza domanda di invaso sperimentale, fino a quota 600 metri.
  • dicembre: viene installata presso i comandi centralizzati della diga una stazione sismica definita da Caloi «unica al mondo» (CM 64).
  • 2 dicembre: crolla la diga del Frejus. Semenza scrive a Dal Piaz: «Spero di vederla presto anche per riparlare del Vajont che il disastro del Frejus rende più che mai di acuta attualità» (MERL 63).

1960

  • 4 febbraio: Caloi consegna la sua relazione, che parla di «un potente supporto roccioso autoctono» SGI 162, dunque di una roccia solida e compatta, dall’elevatissimo modulo elastico, con uno spessore del detrito superficiale di 10-12 metri. La relazione viene consegnata agli organi di controllo.
  • 9 febbraio: il Servizio Dighe (ingegner Frosini) concede alla SADE l’autorizzazione per un invaso sperimentale fino a quota 595 (comunicazione da parte del Genio Civile di Belluno del 16.2.1960): la SADE aveva già iniziato ad immettere acqua il 2 (SGI 98).
  • marzo: in concomitanza con il primo invaso si verifica una frana che si stacca dalla parete del Monte Toc, immediatamente sovrastante il fondovalle e poco a monte dello sbocco del rio Massalezza.
  • maggio: vengono installati i primi capisaldi destinati ad identificare eventuali moto franosi del Toc.
  • 10 maggio: la SADE, dati i risultati positivi del primo invaso sperimentale, chiede di poter elevare direttamente il livello dell’acqua fino a quota 660, senza prima aver svasato.
  • giugno: relazione geologica di Franco Giudici e Edoardo Semenza, figlio di Carlo (commissionata dalla SADE su indicazione di Leopold Müller): dopo avere elencato una serie di rischi minori, la relazione afferma che «più grave sarebbe il fenomeno che potrebbe verificarsi qualora il piano d’appoggio della intera massa e della sua parte più vicina al lago fosse inclinato (anche debolmente) o presentasse un’apprezzabile componente di inclinazione verso il lago stesso. In questo caso il movimento potrebbe essere riattivato dalla presenza dell’acqua, con conseguenze difficilmente valutabili, attualmente, e variabili tra l’altro a secondo dell’andamento complessivo del piano d’appoggio» (ASC 38-9). La relazione Giudici-Semenza non verrà mai inviata agli organi di controllo. Viceversa, prima che la relazione venga consegnata ufficialmente alla SADE, viene visionata da Carlo Semenza, che scrive al figlio: «Carissimo Edo, riteniamo indispensabile che tu mostri preventivamente la relazione al Prof. Dal Piaz, al quale preannuncio la cosa con la lettera che ti allego in copia. Se anche dovrai a seguito del colloquio attenuare qualche tua affermazione, non cascherà il mondo» (lettera di Carlo Semenza a Edoardo del 24.5.1969, ASC 38). E a Dal Piaz: «Egregio Professore ho piacere che lei la veda [la relazione]. Anche se ci saranno eventuali sfumature di opinioni, poco male: resterebbero sempre sotto la responsabilità di mio figlio, se Ella riterrà opportuno che egli firmi la relazione» (ibidem).
  • 11 giugno:  il Servizio Dighe concede l’autorizzazione a proseguire l’invaso fino a quota 660 (comunicazione del 22.6.1960).
  • 9 luglio: relazione Dal Piaz sugli smottamenti: «non può escludersi che questi smantellamenti dell’orlo esterno del ripiano non possano concorrere a dare alla superficie valliva sottostante un andamento sempre meno ripido, raggiungendo gradualmente […] il profilo di equilibrio.» (CM 68) Ciononostante, anche Dal Piaz consiglia una «sistematica sorveglianza» (ibidem).
  • 4 novembre: una frana di 700.000 metri cubi di roccia si stacca dalla parete del Toc e cade nel bacino. In contemporanea alla frana, compare, sul Toc, sul versante sinistro della valle, una fessura lunga 2500 metri, a forma di M: è il profilo della frana del 9 ottobre 1963. Dopo la frana, Edoardo Semenza continua le sue indagini. Al Giudice Istruttore Fabbri dirà: «In conclusione ritenevo che la massa instabile avesse una fronte di circa due chilometri di lunghezza, un volume di circa 250.000.000 di metri cubi e spessori variabili da 100 a 250 metri in media. Queste mie conclusioni comunicai a voce sul posto (Vajont) al Prof. Müller che le prese per buone, facendo poi approfondire studi di dettagli sulle fessure e sui movimenti manifestatisi. Ciò avveniva in una o due riunioni del novembre 1960» (ASC 39-40).
  • 15-16 novembre: riunione di tutti i tecnici SADE presso il cantiere del Vajont: Leopold Müller, Semenza, Pancini (capocantiere), Linari, Ruol, Biadene; si decide lo svaso e la costruzione di una galleria di sorpasso (by-pass) che colleghi, in caso di caduta della frana, i due bacini risultanti. Spesa prevista: un miliardo di lire.
  • 17 novembre: inizia lo svaso, fino a 600 metri, raggiunti il 31 dicembre.
  • 28 novembre: terzo sopralluogo della Commissione di Collaudo
  • 30 novembre: a Milano si apre il processo contro Tina Merlin e “l’Unità”: tre testimoni di Erto e le fotografie della frana del 4 novembre fanno desistere la parte denunciante a deporre. Il processo si chiude con l’assoluzione della Merlin e de “l’Unità” perché, recita la sentenza, nell’articolo incriminato «nulla vi è di falso, di esagerato o di tendenzioso» (MERL 75-6).
  • dicembre: inizia la seconda campagna geosismica di Caloi. Caloi e Müller non vengono mai fatti incontrare tra di loro, né sono a conoscenza dei reciproci studi (ASC 72).
  • 1 dicembre: promemoria del professor Penta: «una tra le numerose fenditure, lunga circa 2.500 metri, ha fatto sorgere i maggiori timori, in quanto può essere interpretata come l’intersezione con il terreno di una superficie di rottura profonda e che arriverebbe praticamente fino al fondo valle, separando dalla montagna una enorme massa di materiale. […] Prima di accedere a tale interpretazione catastrofica», Penta osserva che i dati a disposizione «sono relativi a manifestazioni di superficie, ma non si hanno elementi per giudicare se il fenomeno si estenda in profondità e se sia veramente in atto un movimento di massa. […] Il movimento potrebbe essere limitato al massimo ad una coltre dello spessore di 10-20 metri, con velocità molto basse, e comunque, non coinvolgerebbe masse di materiali tali da decidere non solo della vita del serbatoio, ma anche del pericolo di sollecitazioni anormali sulla diga. […] Nell’altro caso, si dovrebbe ammettere la possibilità di un improvviso distacco di una massa enorme di terreno (suolo e sottosuolo)» (CP A1 13)

1961

  • 1 gennaio: inizio della costruzione della galleria di sorpasso, tra quota 624 e 614.
  • 7 gennaio: il Genio Civile di Belluno, su incarico del Servizio Dighe, richiede ufficialmente alla SADE indagini sulla fenditura al fine di stabilire se si tratti di una rottura profonda o superficiale.
  • 10 gennaio: il Genio Civile di Belluno incarica l’assistente governativo di informare settimanalmente sul movimento franoso e sul comportamento della diga
  • 31 gennaio: la SADE commissiona al CIM, Centro Modelli Idraulici di Nove di Fadalto (Vittorio Veneto) un modello del bacino di Vajont e della diga in scala 1:200, al fine di valutare l’entità di onde provocate da frane che si verifichino dentro il bacino. Il CIM è un centro studi SADE affidato all’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova. Secondo statuto, il CIM deve costruire e sperimentare «grandi modelli idraulici di impianti in esercizio o in costruzione da parte della SADE». Nel Comitato direttivo del Centro Modelli Idraulici di Nove, accanto ai professori Augusto Ghetti e Francesco Marzolo, dell’Istituto di Idraulica, vi sono quattro rappresentanti della SADE: il responsabile dell’Ufficio studi, ingegner Tonini, e gli ingegneri Indri, Sestini ed il fratello dello stesso Ghetti (PAS 36).
  • 2 febbraio: al Consigli provinciale di Belluno, i gruppi comunista e socialista presentano una interpellanza sulle misure da richiedersi per scongiurare il pericolo che sovrasta la popolazione di Erto, Longarone e paesi limitrofi». Viene accolta la proposta di incaricare un geologo di fiducia dell’Amministrazione di provvedere a nuove indagini. Il Presidente della Provincia, Alessandro Da Borso, chiede la collaborazione del suo collega di Udine, essendo il comune di Erto in provincia del capoluogo friulano. La risposta, che egli riferisce nel Consiglio provinciale del 13 febbraio è: «La provincia di Udine si disinteressa completamente di quella questione che non la riguarda» (MERL 73-4).
  • 3 febbraio: quindicesimo rapporto geologico di Müller sulla frana del Toc. Müller parla di due differenti frane, una a est ed una ad ovest del torrente Massalezza. Diverse le interpretazioni di questa doppia frana: per Edoardo Semenza si tratta di una frana unica che Müller divide «in porzioni tipografiche unicamente per comodità d’esposizione» (ASC 40); per gli ingegneri della SADE si tratta di due distinte frane. Le conclusioni cui giunge Müller sono senza speranze per l’intero impianto: «A mio parere non possono esistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento o della zona limite. Il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi» (CP A1 12). Secondo Müller le contromisure sono ormai irrealizzabili sul piano pratico, umano ed economico. La sola misura di sicurezza possibile e percorribile è l’abbandono del progetto: «Alla domanda se questi franamenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente in linea generale; anche se, in linea teorica, si dovesse rinunciare all’esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta, non tornerebbe tanto presto all’arresto assoluto» (CP A1 13). La relazione Müller non verrà mai inviata agli organi di controllo.
  • 13 febbraio: nella seduta del Consiglio provinciale di Belluno, viene votato all’unanimità un ordine del giorno in cui si dà mandato alla Giunta di prendere contatti con i Ministri competenti per predisporre tempestivamente tutte le misure di sicurezza per garantire l’incolumità delle popolazioni nella zona del bacino del Vajont.
  • 21 febbraio: nuovo articolo di Tina Merlin su “l’Unità” dal titolo “Mentre si lascia alla SADE la possibilità di sottrarsi agli obblighi di legge, una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto”.
  • 10 aprile: relazione Caloi: rispetto alla precedente relazione del 1959-60, secondo Caloi la roccia si è frantumata, con un enorme decadimento delle proprietà elastiche della roccia del versante sinistro, che da solido e compatto, nel giro di un solo anno, sarebbe divenuto minutamente fratturato: un fenomeno senza precedenti nella letteratura tecnica, a detta dello stesso Caloi. Tale relazione non viene mai fatta leggere al professor Müller, che viceversa era stato informato della precedente e rassicurante relazione di Caloi. I due studiosi non vengono mai fatti incontrare (ASC 72).
  • 10 aprile: quarta visita della Commissione di Collaudo, in base alla quale Penta e Sensidoni dichiarano che gli spostamenti sul fianco sinistro sono andati attenuandosi fino ad annullarsi e che non è da temere un serio aggravamento della situazione per un aumento del livello del lago (CM 104).
  • 15 aprile: visita di Penta al bacino, mentre l’acqua è sotto quota 600 e si sta procedendo alla costruzione del by-pass. La situazione è tranquilla: «E’ da ritenere pertanto che nelle condizioni attuali e sempre che il livello del lago si mantenga attorno alle quote attuali non sussistano immediati pericoli» (ASC 49).
  • 20 aprile: lettera di Carlo Semenza all’ingegner Vincenzo Ferniani: «Ella può immaginare il mio stato d’animo in questa situazione. […] Dopo l’abbassamento del livello del serbatoio, probabilmente anche a causa del freddo sopravvenuto, i movimenti sul fianco sinistro si sono praticamente arrestati e credo che fino a che il livello sarà tenuto basso non sarà il caso di avere nuove preoccupazioni. Ma cosa succederà col nuovo invaso? […] Non le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati. […] I professori Dal Piaz e Penta sono piuttosto ottimisti: tendono a non credere che avvenga uno scivolamento in grande massa e sperano (anch’io lo spero!) che la parte mossa si sieda su se stessa. Sono entrambi d’accordo su ogni provvedimento di sicurezza. […] Dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni anche imponenti, mi trovo veramente di fronte ad una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani» (CP A1 14-5).
  • 5 maggio: alle interrogazioni del Presidente del Consiglio provinciale di Belluno, avvocato Da Borso, risponde Benigno Zaccagnini, ministro dei Lavori Pubblici, che parlando della frana del 4.11.1960 sostiene che si tratti di «roccia continua, omogenea e di sicura stabilità» (CP A1 17). Il Ministro rassicura Da Borso scrivendogli che «in linea generale mi pare che quel terreno stia fermo e possa dar luogo solo a frane superficiali del materiale di riporto» (CP 77). Tutt’altro che rassicurato, Da Borso decide di andare personalmente a Roma per ottenere maggior chiarezza. Al ritorno a Belluno «è costretto a confessare che a Roma è come battere la testa contro un muro perché “la SADE è uno stato nello stato”» (MERL 80 e 87).
  • 10 maggio: La galleria di sorpasso è ultimata. La SADE domanda l’autorizzazione a riprendere l’invaso sperimentale e proseguire fino a quota 660.
  • 19 luglio: lettera dell’ingegnere SADE professor Indri al professor Augusto Ghetti dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova e responsabile della ricerca commissionata dalla SADE al CIM di Nove. Nella lettera vengono specificati i criteri con cui devono essere condotte le prove sul modello. La SADE vuole difatti conoscere l’entità dell’onda creata dal crollo di una frana, dell’ordine di 20-40 milioni di metri cubi, con invaso a quote comprese tra i 680 ed i 720 m. s.l.m. Le prove prevedono che, secondo l’interpretazione degli ingegneri SADE degli studi di Müller, si tratti di due frane distinte e che si stacchino prima l’una e poi, di conseguenza, l’altra. Come materiale di frana impiegato nell’esperimento viene scelta prima la sabbia, poi – una volta verificato che la sabbia bagnata non è adatta allo scivolamento – ghiaia, in ciottoli arrotondati. In un primo momento, per tener ferma la ghiaia sul tavolato che simula il piano inclinato del Toc, vengono incernierate delle tavole di legno: al momento di effettuare le prove, le tavole di legno provocano onde più alte della ghiaia stessa. Viene deciso di eliminare le tavole e trattenere la ghiaia con reti di canapa, prima in caduta libera per gravità, quindi accelerata dalla spinta di un trattore. (PAS 37-38) Per simulare i tempi di caduta, viene usato come riferimento la frana di Pontesei: «…il Comitato ha proposto l’esecuzione di altre esperienze di caduta di frana prolungando i tempi fino a 5 minuti, dato che si ritiene che i tempi di caduta dell’ordine di un minuto o due siano troppo brevi in relazione all’andamento che questi fenomeni hanno normalmente: ad esempio la frana di Pontesei, che ha avuto un tempo di caduta prossimo ai dieci minuti». Diversa la testimonianza dell’ingegnere Linari, presente alla frana di Pontesei, che, interrogato se avesse riferito le modalità di caduta a Biadene e Semenza, dichiarerà al Giudice Istruttore: «Ciò ebbe la durata approssimativa di 30 secondi e a questo punto, per mia fortuna, cercai di scappare.» (ASC 29) Gli studi si protrarranno per più di un anno.
  • 25 luglio: tre deputati DC bellunesi interpellano il ministro dei Lavori Pubblici sui rischi del bacino, rischi resi evidenti dalla costruzione della galleria di sorpasso: il Ministro chiede al presidente della IV Sezione una risposta e questi chiede una relazione a Pancini, ingegnere alle dipendenze SADE. Significativa la risposta offerta dalla società: la galleria di sorpasso serve perché la frana del 4 novembre ha riempito un tratto della gola, dividendo così il serbatoio in due parti (PAS 29).
  • agosto-settembre: vengono ultimati i quattro piezometri sulla sponda sinistra del Toc: si tratta di tubi di acciaio infissi nel terreno attraverso fori/sonda, raggiungendo profondità comprese tra 167 e 221 metri. I piezometri assolvevano a due funzioni: controllare il livello dell’acqua dentro la roccia e verificare se la frana era superficiale o profonda: nel primo caso lo spostamento di uno strato superficiale di terreno avrebbe rotto i tubi, incastonati a grande profondità; nel secondo caso, i tubi avrebbero continuato a funzionare, a conferma che la frana toccava uno strato molto profondo di terreno e roccia, superiore alla profondità raggiunta dai piezometri stessi. Uno dei quattro tubi va subito fuori uso, mentre gli altri tre, fino al giorno della frana, non si rompono né subiscono deformazioni.
  • 1 agosto: Frosini, presidente della IV sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, va in pensione ed è sostituito dall’ingegnere Curzio Batini, capo del Servizio Dighe, responsabile ultimo delle autorizzazioni per gli invasi.
  • 19 settembre: al CIM giungono in visita il professor Giovanni Padoan, che ha sostituito Greco alla presidenza del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, e l’ingegner Curzio Batini. Insieme a loro, il vicedirettore generale della SADE, ingegner Marin e lo staff della diga: Semenza, Biadene, Tonini, Pancini, Dal Piaz. Ad essi viene mostrato un esperimento addomesticato, una simulazione con meno ghiaia, «per non mostrare onde eccessive» (PAS 38-9).
  • 5 ottobre:  la SADE domanda di poter raggiungere quota 680.
  • 16 ottobre: con decreto del prefetto di Udine, la SADE è autorizzata ad occupare permanentemente tutti gli immobili che le servono per completare la strada di circonvallazione sul versante sinistro del bacino (MERL 83), espropriando di fatto tutti i proprietari terreni.
  • 17 ottobre: quinta ed ultima visita della Commissione di Collaudo e parere positivo alla ripresa dell’invaso, per quanto nel verbale si legge «Non si può escludere che con l’aumento dell’invaso la frana si rimetta in movimento» (ASC 51).
  • 19 ottobre: senza attendere l’autorizzazione, la SADE riprende l’invaso (SGI 154-5).
  • 31 ottobre: muore Carlo Semenza. Lo sostituisce l’ingegnere Alberi. Relazione di Penta, relativa ai sopralluoghi del 10.4.1961 e del 17.10.1961: egli sostiene che è impossibile sciogliere l’alternativa tra moto superficiale e moto profondo per la frana. Secondo Penta non ci sono elementi sufficienti per una interpretazione catastrofica come quella di Müller, anche se non la si può escludere; egli propende però per una “lama”, ovvero per un semplice moto di detrito superficiale (CM 110).
  • 16 novembre: autorizzazione alla ripresa dell’invaso, ma solo fino a quota 640, con incrementi non superiori al metro al giorno e con l’obbligo di rapporti quindicinali sullo stato della diga e delle sponde. La SADE ha già iniziato l’invaso il 19 ottobre.
  • 5 dicembre: la SADE rinnova la richiesta per raggiungere quota 680.
  • 23 dicembre: il Servizio Dighe autorizza quota 655.

1962

  • 31 gennaio: la SADE rinnova la richiesta per raggiungere quota 680.
  • 6 febbraio: il Servizio Dighe autorizza quota 675.
  • marzo: Biadene cancella dai rapporti quindicinali al Ministero le scosse sismiche registrate dalle sofisticate apparecchiature montate alla diga (SGI 180-1).
  • 30 marzo: il Comitato direttivo del Centro Modelli Idraulici di Nove è del parere che «almeno per il momento non siano da compiere ricerche relative al prorogarsi di una onda di piena a valle della diga». Nella stessa sede, Indri rileva viceversa che sarebbe necessario conoscere la ripartizione dell’onda proveniente dal Vajont, in corrispondenza dell’abitato di Longarone (CM 139).
  • 20 aprile: muore Giorgio Dal Piaz, a causa delle ferite riportate in un incidente automobilistico che gli era occorso insieme ai membri della Commissione di Collaudo di ritorno dal sopralluogo del 17.10.1961 (CM 122).
  • 27 aprile: scossa sismica.
  • 3 maggio: la SADE chiede l’autorizzazione di raggiungere quota 700.
  • 13 maggio: scossa sismica.
  • 8 giugno: viene concessa l’autorizzazione a raggiungere quota 700.
  • 22 giugno: ordinanza del Comune di Erto-Casso per proibire l’accesso ai terreni perimetrali sotto quota 730 nonché di andare in barca sul bacino.
  • 3 luglio: relazione Ghetti relativa alle prove con il modello di Nove: «Già la quota 700 m. s.m. può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico prevedibile evento di frana. Sarà comunque opportuno, nel previsto prosieguo della ricerca, esaminare sul modello convenientemente prolungato gli effetti nell’alveo del Vajont ed alla confluenza nel Piave del passaggio di onde di piena di entità pari a quella sopra indicata per i possibili sfiori sulla diga» (SGI 201). La relazione Ghetti non viene trasmessa agli organi di controllo.
  • 8 luglio: relazione dell’assistente governativo, Bertolissi: «Oltre alle fessure verificatesi dopo la frana del 1960, si sono verificate altre fessure, alcune superficiali, altre più profonde […]. L’indagine di un geologo sulla natura delle fessure e sui movimenti darebbe un’idea più esatta della situazione» (CM 121). Non risulta che dopo 16.10.1961 siano state redatte relazioni geologiche da parte della SADE né dell’ENEL.
  • 3 agosto: lettera dell’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno al Servizio Dighe, nel trasmettere il rapporto dell’assistente governativo dell’8.7.1962: «L’ufficio scrivente conviene […] sulla opportunità di tempestivo controllo da parte di un geologo». Il Servizio Dighe non risponderà mai (CM 140).
  • 17 novembre: l’acqua raggiunge quota 700 e vi resta fino al 2 dicembre; quindi inizia uno svaso fino a m. 647,5, raggiunti il 10.4.1963
  • 1 dicembre: l’ingegner Almo Violin diventa il nuovo titolare del Genio Civile di Belluno, subentrando all’ingegner Desidera. Violin sostituisce l’ingegner Beghelli, preposto al ramo dighe, con un geometra che si dichiara essere all’oscuro della materia e di non aver mai visto la diga del Vajont. Violin ammetterà «che non conosceva le dighe se non attraverso le reminiscenze universitarie; di non aver mai visto l’assistente governativo; di aver visitato la diga una sola volta “per gusto personale”» (CM 152-3).
  • 10 dicembre: relazione dell’assistente governativo, Bertolissi: «I diagrammi relativi agli spostamenti dei punti sotto osservazione nella zona del Toc, indicano che la velocità di abbassamento è aumentata sensibilmente» (ASC 78).
  • 12 dicembre: nasce l’Ente Nazionale Elettricità, ENEL: in forza della legge 6 dicembre 1962 numero 1643, l’attività della SADE per quanto riguarda produzione importazione, esportazione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica, passa al nuovo Ente.

1963

  • 10 gennaio:  relazione dell’assistente governativo, Bertolissi: «i diagrammi relativi agli spostamenti dei punti sotto osservazione nella zona del Toc indicano che la velocità di abbassamento è aumentata nettamente, rispetto ai mesi di ottobre e precedenti: secondo il sottoscritto, i movimenti si stanno avvicinando alla criticità» (CP A1 20).
  • 14 marzo: decreto Presidente della Repubblica per il trasferimento della SADE all’ENEL.
  • 16 marzo: viene nominato Amministratore provvisorio della ENEL-SADE il professor Feliciano Benvenuti, di professione consulente economico del gruppo degli Industriali Veneziani, di cui è presidente Valeri Manera, consigliere della SADE. Viene deciso di mantenere la struttura organica del personale precedente fino a quando non ne fosse sopravvenuta una nuova. Ai vertici, due direttori, ingegneri Vittore Antonelli e Roberto Marin; vicedirettore generale per il ramo tecnico amministrativo Alberico Biadene, che è anche direttore dell’azienda di produzione e del servizio costruzioni idrauliche.
  • 16 marzo: il Consiglio Comunale di Erto-Casso delibera l’acquisizione della scuola elementare di Pineda, costruita dalla SADE e donata al Comune.
  • 20 marzo: l’ENEL-SADE fa richiesta di un ulteriore invaso fino a quota 715, 15 metri oltre la quota di sicurezza indicata da Ghetti. La Commissione Ministeriale commenta: «E’ di questo periodo la decisione di non proseguire nella lodevole attività esplicata con esperimenti su modello idraulico al Centro di Nove, nonostante che il prof. Ghetti, nel concludere la sua relazione, sottolineasse l’opportunità di estendere le prove a valle della diga per avere certe indicazioni sulla possibilità di consentire anche maggiori invasi del serbatoio […] senza pericolo di danni. La grande messe di dati raccolti con encomiabile diligenza e capacità dal personale della SADE sul bacino, non risulta essere stata oggetto di ulteriori esami ed elaborazioni» (CM 146-7).
  • 30 marzo: il Servizio Dighe autorizza quota 715 senza un parere scritto della Commissione di Collaudo, che non si è più riunita.
  • 11 aprile: inizia il terzo ed ultimo invaso.
  • 1 luglio: il Sindaco di Erto-Casso, rassicurato dalla donazione della scuola, revoca l’ordinanza del 22.6.1962, ripristinando il libero accesso al bacino. La SADE e l’ENEL avvisano la Prefettura di Udine dello «stato di pericolo nella zona del Vajont» e «richiamano la responsabilità» del Sindaco di Erto. In realtà, la strada di circonvallazione, posta sullo stesso lato della scuola, è già fuori asse di mezzo metro, a due anni dall’inizio dei lavori di costruzione. Il Sindaco ripristina la vecchia ordinanza ed il divieto di accesso.
  • 22 luglio:  il Sindaco di Erto telegrafa alla Prefettura di Udine ed all’ENEL di Venezia, richiedendo provvedimenti urgenti e segnalando i pericoli per «inspiegabili acque torbide lago, continui boati et tremiti terreno comunale» (MERL 94). Non ottiene risposta.
  • 27 luglio: verbale relativo alla presa in consegna dell’impresa elettrica SADE da parte dell’ENEL. Per quanto riguarda il bacino di Vajont, nell’allegato A, foglio 9, è scritto che il bacino è in esercizio, alimentatore della centrale del Colomber, anch’essa in esercizio (SGI 221 e 421).
  • 1 settembre: la quota dell’acqua raggiunge m. 709,40. A questo livello, con piccole oscillazioni fino a m. 710, l’acqua resterà fino al 26 settembre, quando inizierà l’ultimo svaso.
  • 2 settembre: scossa tellurica. Da questa data, ed ininterrottamente fino al 9 ottobre, tutti i capisaldi sul versante sinistro subiscono un continuo aumenti di velocità: il 2 6,5 mm, il 15 settembre 12 mm, il 26 22 mm, il 2 ed il 3 ottobre 40 mm, fino ai 200 mm del 9 ottobre (CP A1 22).

Lettera del Sindaco di Erto-Casso all’ENEL-SADE: «Richiamato il mio precedente telegramma del luglio u.s., rimasto, tra l’altro, senza risposta […]; constatato che le popolazioni di Erto e Casso stanno vivendo in continua apprensione ed in continuo allarme; considerato anche che altri queste cose minimizzano, ma che per la gente di Erto comportano, la sicurezza, la vita e gli averi, questa amministrazione fa nuovamente presente le proprie preoccupazioni per la sicurezza della popolazione e del paese e i propri dubbi sulla stabilità delle sponde del lago di Erto, e, pertanto, esige da codesto spettabile Ente la sicurezza e la certezza che il paese non vivrà nell’incubo» (CM 166-7) e diffida pertanto la ENEL-SADE a «togliere dal Comune la causa dello stato di pericolo pubblico, a mettere la popolazione di Erto in stato di tranquillità e di sicurezza e solo dopo rimettere in attività il bacino» (CP A1 22). La lettera viene inviata per conoscenza anche al Ministero dei Lavori Pubblici, al Genio Civile ed alla Prefettura di Udine. Negli archivi del Ministero di tale lettera non c’è traccia.

  • 4 settembre: l’acqua raggiunge quota 710: non salirà più oltre questa soglia.
  • 12 settembre: Biadene risponde alla lettera del Sindaco di Erto, parlando di «affermazioni piuttosto azzardate», richiamandosi – per tranquillizzare gli Ertani – agli studi geologici «eseguiti a suo tempo dal compianto Prof. G. Dal Piaz» (MERL 96).
  • 15 settembre: sul Toc si apre una nuova fessura; si notano inclinazioni degli alberi, avvallamenti della strada di circonvallazione e l’accentuarsi della lunga fessurazione a forma di M che attraversa la montagna.
  • 18 settembre: riunione alla diga tra Biadene, Mario Pancini, altri tecnici ENEL-SADE ed i consulenti Caloi ed Oberti: Biadene rinuncia a raggiungere i 715 metri e si riserva di decidere lo svaso, qualora la situazione peggiori.
  • 26 settembre: Biadene decide di iniziare l’opera di svaso.
  • 27 settembre: inizia lo svaso.
  • 30 ottobre: Mario Pancini, direttore del cantiere, in partenza per le ferie, informa personalmente la sede di Roma della ENEL-SADE della situazione e dell’inizio dello svaso. Prega l’ingegner Baroncini, direttore centrale delle costruzioni idrauliche ENEL, di convincere il professor Penta di fare un nuovo urgente sopralluogo.
  • 1 ottobre: Pancini parte per l’America. Al cantiere lo sostituisce l’ingegner Beniamino Caruso, direttore dei lavori del medio Piave. Caruso non riceve nessuna consegna da Pancini. Contemporaneamente, il geometra Rittmeyer, dipendente SADE presso la diga ma con trasferimento accordato a Venezia, si vede revocare detto trasferimento e riceve disposizione di rimanere sul posto.
  • 2 ottobre:  Biadene si reca personalmente a Roma alla sede ENEL-SADE e discute della frana con l’ingegner Baroncini: lo prega di insistere presso Penta perché si rechi alla diga.

Caruso si reca sulla diga e, accertati nuovi movimenti dei capisaldi e altre recenti fenditure, si rivolge al Genio Civile. Lo fa due giorni dopo e senza rivolgersi al responsabile, Violin, né a nessun altro in modo formale.

  • 5 ottobre: relazione di Caloi, in cui si parla di una frana avvenuta il 10 agosto 1963 alle ore 4 e 45. Non se ne conosce l’entità né l’ubicazione.
  • 6 ottobre: la strada di sinistra è quasi intransitabile per le continue crepe che si aprono nel manto stradale.
  • 7 ottobre: Caruso torna alla diga ed avverte Biadene del peggioramento della situazione; il Genio Civile dispone un sopralluogo dell’Assistente governativo.

Degli operai trovano in una zona boscosa del lato sinistro del Monte Toc due fessure larghe un metro e lunghe circa dieci; durante la giornata se ne aprono altre; rotolano sassi, si sentono crepitii provenienti dalle viscere del monte.

  • 7 ottobre, sera: viene dato ordine di far sgomberare il Toc, con esclusione delle frazioni Pineda, Liron, Prada.
  • 8 ottobre, ore 10,30  Biadene e Caruso si recano alla diga e verificano l’ulteriore peggioramento della situazione.

Caruso si reca da Violin al Genio Civile di Belluno, che a sua volta invita l’assistente governativo, Bertolissi, a recarsi presso la diga. Caruso lo prega di non «spargere voci allarmistiche». Violin chiede una relazione scritta (CM 177).

  • 8 ottobre, ore 12 Biadene telefona alla sede di Venezia della ENEL-SADE, perché si invii un telegramma al Sindaco di Erto-Casso, affinché emetta ordinanza di sgombero della zona del Toc e stabilisca il divieto d’accesso alle sponde del bacino, nonché il transito delle strade nella sponda sinistra del Vajont. L’ordinanza viene emessa.
  • ore 15,30 Bertolissi si reca alla diga e redige un rapporto che sottolinea «la gravità della situazione per cui si attendono istruzioni da codesto Servizio Dighe». Consegnato all’ingegnere capo del Genio Civile, Almo Violin, la mattina del 9, il rapporto viene spedito a Roma nel pomeriggio per posta ordinaria (PAS 57).

Biadene telefona anche alla sede di Roma della ENEL-SADE, pregando Baroncini di convincere Penta e la Commissione di collaudo di fare un nuovo sopralluogo. Penta accetta di inviare un proprio assistente, professor Esu, venerdì 11.

 I Carabinieri fanno sgomberare alcuni abitati sotto quota 730.

  • 9 ottobre, mattina. I movimenti della frana fanno sì che il canale di scarico dell’invaso sia ostruito. Biadene scrive a Pancini, chiedendogli di rientrare dalle ferie: «…in questi giorni le velocità di traslazione della frana sono decisamente aumentate […]. Le fessure del terreno, gli avvallamenti sulla strada, l’evidente inclinazione degli alberi sulla costa che sovrasta La Pozza, l’aprirsi della grande fessura che delimita la zona franosa, il muoversi dei punti anche verso la “Pineda” che finora erano rimasti fermi, fanno pensare al peggio. Ieri abbiamo telegrafato al Sindaco di Erto e alla Prefettura di Udine, chiedendo che sia ripristinata l’ordinanza di divieto di transito sulla strada; intanto il serbatoio sta calando 1 metro al giorno e questa mattina dovrebbe essere a quota 700. Penso di raggiungere quota 695 sempre allo scopo di creare una fascia di sicurezza per le ondate […]. Mi spiace darle tante cattive notizie e di doverLa far rientrare anzitempo. […] Che Iddio ce la mandi buona» (SGI 244-5)
  • ore 12: durante la pausa pranzo alcuni operai ENEL fermi sul coronamento della diga vedono ad occhio nudo il movimento della montagna.
  • ore 13: dietro le baracche degli operai in sponda sinistra, si apre una crepa larga 50 centimetri e lunga 5 metri. Dopo tre ore la crepa ha progredito di 40-50 centimetri.
  • ore 15-16: un operaio attraversando la zona del Massalezza ad una quota superiore alla strada, vede alberi cadere e sollevare con le radici grandi zolle di terra.
  • ore 17: Caruso riceve da Venezia le direttive di avvertire il Comando dei Carabinieri per disporre il blocco del traffico stradale nella zona di pericolo (CP A1 24).
  • ore 17,50: Biadene telefona a Penta, che lo rincuora: «Mi raccomanda la calma e di “non medicarci la testa prima di essercela rotta”» (SGI 250). E’ in quella telefonata che Biadene, per la prima volta, informa Penta degli esperimenti su modello del CIM e sulla presunta quota 700 come quota di sicurezza (ASC 20). Subito dopo Batini telefona a Biadene, che gli conferma il procedere dello svaso, «compatibilmente all’esercizio di Soverzene», messo abusivamente in funzione per produrre energia elettrica con l’acqua dello svaso (SGI 251).
  • ore 20: i camion non sono più in grado di transitare sulla strada in sponda sinistra. La strada per il Toc viene sbarrata dalla SADE.

Caruso incontra al caffè Deon di Belluno il comandante dei Carabinieri e gli spiega la necessità del provvedimento di chiusura della statale di Alemagna, prima e dopo Longarone. Il comandante telefona da un bar alla Caserma di Cortina d’Ampezzo e dà l’ordine, che viene trasmesso al maresciallo di Longarone (CM 184).

  • ore 22: Rittmeyer telefona a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua estrema preoccupazione, dato che la montagna ha cominciato a cedere visibilmente. E’ preoccupato altresì per la frazione di Erto delle Spesse, a quota 729. Una telefonista di Longarone sente il colloquio, si intromette per chiedere se non ci sia pericolo anche per Longarone. Biadene la tranquillizza ma consiglia Rittmeyer di «dormire con un occhio solo» (CP A1 24).
  • ore 22,39: la frana si stacca. Non in due tempi, bensì come corpo unico, compatto: 260 milioni di metri cubi di roccia. In quel momento il livello dell’acqua è a quota 700,42 m. s.l.m. L’onda, di 50 milioni di metri cubi, provocata dalla frana, si divide in due direzioni. Investe da una parte i villaggi di Frasein, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo. Quindi arriva ai bordi di Casso e Pineda. Dall’altra parte, superando la diga, raggiunge Longarone, Codissago, Castellavazzo. Infine Villanova, Pirago, Faè, Rivalta, per poi defluire lungo il Piave. L’onda provoca 1917 morti: 1450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 persone originarie di altri comuni, di cui la maggior parte lavoratori e tecnici della diga con le rispettive famiglie. Pochissimi i feriti. In tutta la zona l’unica opera umana che resiste, senza danni, all’onda è la diga di Carlo Semenza sul torrente Vajont.
  • 11 ottobre: viene nominata la Commissione di inchiesta sulla sciagura del Vajont, per espressa volontà del Ministro ai Lavori Pubblici, di comune accordo con il Presidente del Consiglio. Insediata il 14 ottobre, alla Commissione vengono concessi due mesi di tempo per presentare la relazione. Il suo compito è quello di «accertare […] le cause, prossime e remote, determinanti la catastrofe».La Commissione consegnerà la relazione in 90 giorni.
  • 7 novembre: ultima relazione della Commissione di collaudo, che dichiara concluso il suo mandato ed impossibile «la prosecuzione delle operazioni di collaudo» della diga (CP A1 9).

1968

  • 20 febbraio: il Giudice istruttore Mario Fabbri deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin, Augusto Ghetti. Penta e Greco sono nel frattempo deceduti.
  • 28 novembre: Mario Pancini si toglie la vita
  • 29 novembre: inizia a L’Aquila il processo di primo grado

 

1969

  • 17 dicembre: si conclude il processo di primo grado. L’accusa chiede 21 anni per tutti gli imputati per disastro colposo di frana e disastra colposo d’inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento e omicidi colposi plurimi aggravati. Vengono condannati a sei anni di reclusione Biadene, Batini e Violin, per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. Non viene riconosciuta la prevedibilità della frana.

 

1970

  • 26 luglio: inizia a L’Aquila il Processo d’Appello, con lo stralcio della posizione di Batini, gravemente ammalato.
  • 3 ottobre: la sentenza riconosce la totale colpevolezza di Biadene e Sensidoni: il primo viene condannato a 3 anni di reclusione, il secondo ad un anno e mezzo; Violin e tutti gli altri vengono assolti.

1971

  • 15-25 marzo: Processo di Cassazione a Roma: viene confermato il verdetto del processo di secondo grado, ma vengono ridotte le pene a Biadene e a Sensidoni: il primo è condannato a due anni di reclusione, il secondo a dieci mesi.

1982

  • 3 dicembre: la Corte d’Appello di Firenze, cassando una precedente sentenza della Corte di Appello de L’Aquila del 16 dicembre 1975 – 23 gennaio 1976, condanna in solido l’ENEL e la Montedison (in cui è confluita la SADE) al risarcimento dei danni sofferti dallo Stato e la sola Montedison per i danni subiti dal Comune di Longarone, riservandosi di quantificare in altra sede l’ammontare dei danni stessi e la loro ripartizione fra i responsabili civili. In questo stesso anno, la Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso dell’ENEL nei confronti del comune di Erto-Casso e del neonato comune di Vajont, obbligando così l’ENEL al risarcimento dei danni subiti, che verranno quantificati dal Tribunale Civile e Penale di Belluno in lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti; lire 500.000.000 per danno patrimoniale conseguente alla perdita parziale della popolazione e conseguenti attività; lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico; le cifre non sono state ancora corrisposte e, rivalutate, hanno raggiunto il valore di 22 miliardi di lire circa.

 

1986

  • 17 dicembre: la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso intentato dalla Montedison alla sentenza del 1982.

 1997

  • 15 febbraio: il Tribunale Civile e Penale di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni subiti dal Comune di Longarone per un ammontare di lire 55.645.758.500, comprensive dei danni patrimoniali, extra-patrimoniali e morali, oltre a lire 526.546.800 per spese di lite ed onorari e lire 160.325.530 per altre spese. La sentenza ha carattere immediatamente esecutivo.

 

Fonti citate e loro abbreviazioni si trovano nella Bibliografia.

 3. RICERCHE PSICOLOGICHE SUGLI EFFETTI DEL DISASTRO DEL VAJONT e TESTIMONIANZE

Esempi di esperienze lineari

Un aspetto che molte Vittime reclamano ancora oggi è stato la completa mancanza di supporto psicologico non solo al momento della tragedia, ma anche negli anni successivi. Il fatto di non cogliere con sensibilità e dovere medico tale richiesta, ha gettato nello sconforto le persone che si sono sentire rispondere che ormai erano passati troppi anni e che non era più utile. A fronte di tale osservazione poco professionale, come si può chiedere alle Vittime di fare da soli e arrangiarsi?

La polemica spesso sfocia nel cassetto delle responsabilità ed in parte è anche vero, ma credo che qui la discussione sia più profonda. Non dare il diritto alle persone di potersi ricostruire alcuni aspetti della propria vita rende tale persone passive, senza strumenti e sempre dipendenti dagli altri. Come responsabilizzare una Vittima se non aiutandola a trovare per se i mezzi per affrontare il proprio dolore? Ciò non significa in termini lineari  di dar loro un oggetto in modo da usarlo, ma creare una sinergia di feedback utile per ri costruire una sana indipendenza dall’altro, una sorta di maggiore differenzazione e autonomia. Tale posizione assunta dalla Vittima  le permetterebbe di avere qualche strumento da usare quando necessita, senza trovarsi nelle condizioni di chiedere continuamente, e restare costantemente delusa e arrabbiata. Eccone alcuni esempi, direttamente dai protagonisti:

Mauro Corona nella prefazione del testo “Psicologia dell’emergenza: il caso Vajont”  ( 2008) scrive:

“E noi, tutti, non dobbiamo permettere che si continui ad ignorare volutamente i danni interiori, quelli meno plateali ma più devastanti, quelli intimi dei sopravvissuti, quelli che tornano puntuali, giorno dopo giorno, mese dopo mese come le stagioni a tormentarli finchè avranno vita. A loro, il dovuto, preciso riconoscimento , non deve essere un atto di pietà o di comprensione, ma di giustizia. Quella giustizia che manca da quarantacinque anni.”.

Micaela Coletti ( ibidem, 2008):

“Di noi ( bambini) non interessava niente… oltre allo shock subito, non avevamo gli strumenti, i mezzi, per fare qualche cosa… dopo un mese non erano arrivati né vestiti, né scarpe…non ho ricevuto mai nel tempo un aiuto psicologico”.

Renzo Scagnet ( Vastano L., 2008):

E’ difficile dimostrare che la causa ( di crepacuore) sia quello ( il dolore)che furono costretti a vedere quella notte o a patire dopo. Ma noi tutti sappiamo che è proprio così.

Mi sono quindi domandata chi so fosse interessato di prendersi in carico tale sofferenza: come psicologa ho scritto alle Asl del luogo, ma nessuno ad oggi mi ha risposto. Ho però trovato una ricerca, che ha espresso l’interesse psicologico verso i Sopravvissuti “nel 1999, fatta dal Dipartimento di Scienze Neurologiche e psichiatria dell’Università di Padova : “… il nostro studio ha evidenziato che il disastro del Vajont è stato un’ esperienza traumatica che ha lasciato, in molti casi, ferite profonde… culminate in …PTSD e …MDD” ( ibidem, 2008).

Questa ricerca l’ho inserita in modo completo al termine della tesina per una maggiore comprensione dello studio, anche se , gli stessi conduttori dello studio hanno espresso una serie di limiti, qui esposti.

La prima cosa che salta all’occhio è stato per me aspettare il 1999 per fare una ricerca psicologica.

Mi chiedo che cosa l’Asl locale pensasse rispetto alle richieste di alcuni Superstiti: nessun progetto d’ascolto, nessuno spazio per loro, alcun contenitore! Come professionista del settore mi sono molto arrabbiata : mi sono domandata come fosse possibile e se tale atteggiamento non potesse nascondere la paura di scoprire un Vaso di Pandora pieno di Dolore.

E mi sono chiesta: se il Sistema non è in grado di contenere l’ansia delle Vittime, come ci si può aspettare che siano loro, da sole, a farcela?

Un altro limite di questa ricerca sono da  ricondurre al Comune stesso:

 “ Non è stato facile contattare i Sopravvissuti perché non è mai stato stilato un loro elenco e inoltre molti non abitano più in questa zona. Alcuni non hanno accettato di partecipare alla nostra indagine perché non se la sentivano di parlare. Anche questo è comunque un dato significativo in quanto manifesta che a così lunga distanza dalla tragedia, ancora non sono riusciti a elaborare il trauma… probabilmente avrebbero superato con più facilità il dramma se qualcuno li avesse aiutati allora… non si doveva lasciarli soli ad affrontare una disgrazia troppo grande per loro” ( ibidem, 2008).

Inoltre, in seguito a tale ricerca, non c’è stata alcuna restituzione né alle Vittime che hanno partecipato, né all’Asl appartenente tramite i medici di base di riferimento. Che cosa significa per coloro che hanno partecipato tale disinteresse?

Questi  limiti hanno permesso di dare non solo risultati parziali, ma un’ulteriore dimostrazione che forse l’interesse non era di aiutarli e iniziare con loro un processo di elaborazione dei lutti subiti, ma solo di raccogliere dati  e farne un articolo. Questa mia piccola polemica rispecchia la rabbia di chi è stato intervistato e mi ha ribadito che anche questo ha determinato nuovamente una sorta di abbandono e sfiducia nel Sistema non contenitore.

Come biasimarli?

Mi sono domandata quali fossero le mie risonanze rispetto la loro richiesta d’aiuto, a che cosa ora poteva servire loro, che cosa fosse importante affrontare e che cosa no. All’inizio mi sono solo messa in ascolto e le reazioni emotive erano di ansia e rabbia rispetto ad ogni richiesta che era fatta loro. Il solo chiedere che cosa si ricordavano di quella notte creava un circolo vizioso molto intenso: da un lato la voglia di scaricare addosso all’interlocutore tutto il Dolore e la rabbia tutt’oggi intensi, dall’altro la richiesta ansiosa di fare qualche cosa per loro. Nel momento in cui  a tale domanda non era data la loro risposta, questi sentimenti intensi diventavano emozioni fortissime, alcune sfociate in rifiuto e disattesa, altre in delusione e ulteriore sfiducia nell’altro.

Secondo la ricerca di Zaetta (2007) dell’Università di Padova il maggiori disturbi di cui soffrono i Sopravvissuti riguardano il PTSD e il MDD, di cui molti sintomi ancora oggi non si sono esauriti, e su questo all’inizio mi sono concentrata. Ho potuto così constatare la veridicità di tali risultati. Ma come usare questa etichetta diagnostica come risorsa, in modo tale da non far emergere solo l’ aspetto riduttivo – limite che implica questa posizione?

La Scuola che sto frequentando mi sta insegnando come ogni elemento abbia in se rinchiuso un elemento arricchente, spesso spodestato da ipotesi poco flessibili o posizioni non mosse dalla curiosità di conoscere , ma di giudizio. Così, dopo aver ascoltato la parte di me che considerava un elenco di sintomi e percentuali annesse un modo per ridurre il dolore, ho iniziato a considerarlo come un punto di partenza, non di arrivo: la sofferenza non era solo rinchiusa nell’ansia acuta o cronica, ma aveva anche altre forme ed era importante dar loro voce. Ho così incominciato ad integrare e a costruire anche con questi elementi una dimensione ampia dei disagi e sofferenze psichiche delle Vittime. Questa mia nuova posizione “meta” mi ha permesso di osservare un processo molto complesso, dove ogni puntino era parte del tutto e considerando come ognuno di loro si influenzava reciprocamente: era possibile dare così una lettura più aperta e meno rigida.

Il DSMIV inserisce il PTSD all’interno dei disturbi d’ansia, ed è sorprendente come l’ansia sia un disturbo trasversale, comune a molte patologie. Nel caso specifico del Vajont l’ansia ha un valore di attesa e attenzione costante, verso tutto ciò che riporta, ricorda o riattiva il trauma. Le persone che parlano del Vajont la sentono, anche se non sempre la riconoscono. Eppure ci sono oggetti, luoghi che la rimettono in moto, come per esempio la freddezza del Cimitero Monumentale di Fortogna e il silenzio per le vie di Longarone, di cui riporto le foto qui di seguito,  che urlano un Dolore che non vuole parlare e ricordare i suoi Morti. Ad evidenziare questi aspetti sono alcuni paradossi: benchè il Cimitero Monumentale  di Fortogna sia un luogo di Memoria, tutto è reso molto sterile e poco utile al superamento dei lutti, dal momento che è vietato portare fiori e lumini per pregare i propri cari. Le posizioni opposte del Comune e di alcuni Superstiti le ho così evidenziate: due foto e le testimonianze, utili a comprendere polarità semantiche distanti. Ho allo stesso modo messo in evidenza il contrasto col primo Cimitero e le strade di Longarone ricostruite senza il calore utile ad un contenitore buono per il sollievo delle Vittime.

 Cimitero Monumentale di Fortogna ( foto tratta dal sito flickriver.com).

Rispetto alla questione del Cimitero rifatto, il Comune così descrive il suo operato:

“Il cimitero monumentale, inaugurato dopo la ristrutturazione il 19 giugno 2004, si presenta come un immenso giardino, un infinito prato verde, sul quale poggiano 1910 cippi marmorei bianchi, uno per ogni vittima della tragedia, a prescindere dal ritrovamento, dal riconoscimento o dal luogo di sepoltura: sono tutte Vittime di una stessa tragedia e vanno ricordate tutte allo stesso modo.”( http://www.prolocolongarone.it/cose-da-vedere/96-cimitero-delle-vittime-a-fortogna.html). Questa è il commento del Comune nella realizzazione del Cimitero Monumentale, e anche se ad un primo impatto  tutto appare ordinato e bel distribuito, i ceppi costruiti col marmo di Carrara non possono essere accompagnati da una croce, da un lumino né da fiori. Solo il giorno della Memoria, il 9 ottobre, il Comune mette delle piantine di erika al fianco di ogni ceppo.

Micaela Coletti, Presidente del Comitato Sopravvissuti Vajont, risponde così :

“Sono Micaela Coletti, Presidente del “Comitato per i sopravvissuti del Vajont” e sopravvissuta alla tragedia del 9 ottobre 1963. Siamo nel cimitero delle vittime a Fortogna dove riposano tutti coloro che quella notte sono morti, questo è un cimitero però che nel 40° è stato rifatto in pratica, inizialmente il cimitero non era così, mentre questo è un cimitero che è un falso storico perché non ricorda la cosa più emozionale e più importante che è il discorso dei non riconosciuti perché se è vero, com’è vero che sono morti 2.000, anche se 2.000 è un numero convenzionale, dobbiamo ricordare che meno della metà sono stati riconosciuti, tutti gli altri non hanno un nome. Noi per 39 anni abbiamo fatto un certo percorso per andare a trovare i nostri, adesso facciamo lo stesso percorso e non ci troviamo più con il cippo e il nome, addirittura all’interno del portale hanno messo un personal computer, noi digitiamo il nostro cognome e ci viene detto che strada percorrere per andare a trovare il cippo che rappresenta i nostri cari e questa è sicurezza matematica che nella realtà è stato stravolto anche questo e per noi è un dolore grandissimo, abbiamo perso per la seconda volta la nostra identità.( http://www.beppegrillo.it/2011/01/il_vajont_44_anni_dopo.html#*vaj1*).

Inoltre, continua, “i cippi non riportano nemmeno più la famigerata data del 9 ottobre 1963.
Se c’era una cosa che stringeva il cuore e dava l’idea della tragedia a chi, come me, ebbe modo di visitare il cimitero di Fortogna prima del suo stravolgimento, era leggere su tutte le lapidi, pur diverse tra loro, la stessa data di morte. Duemila nomi, volti, età, spazzati via nello stesso momento ma ognuno con la sua storia che era lì pronta per essere raccontata se avevi la pazienza di soffermarti ad ascoltarla. Ora sembra un cimitero di guerra, con i cippi tutti uguali dove vedi solo dei nomi che non ti raccontano la storia di ogni soldato con la sua faccia di ragazzino andato via troppo presto. Come ti sembrerebbe più orrenda la guerra se potessi guardare in volto ogni soldato morto.
In questo modo, anche per gli innocenti del Vajont, vale questa versione stravolta e disumana della livella, dove le vittime sono uguali ma nel senso che diventano un numero, una statistica. Forse per fare meno impressione.” (http://www.mentecritica.net/it/a-quarantaquattro-anni-luce-dal-vajont/meccanica-delle-cose/storia-e-memoria/lameduck/1662/)

Queste, invece, sono le vecchie lapidi, del precedente Cimitero, prima che facessero quello Monumentale della memoria: al momento sono accatastate dietro all’attuale  camposanto.

Gli arredi originali del vecchio cimitero furono rimossi e le lapidi accatastate e rotte, mentre la collocazione delle salme  è stata stravolta.

Lapidi originali appartenenti al primo Cimitero di Longarone, attualmente accatastate dietro l’attuale Camposanto.

Il paradosso è che ciò che ha permesso una preghiera per un proprio caro, oggi, nel nuovo Cimitero non è più possibile. Mancano le foto, piccoli ricordi personali messe sulla lapide, oggi tutti accatastati senza rispetto. Da anni è così.

In un sistema così organizzato, come si può chiedere alle Vittime di accogliere ed accettare il nuovo camposanto? Il Comune lo apprezza, orgoglioso del proprio operato, alcune Vittime lo sentono come un oltraggio verso i propri cari.

La mia prima domanda è stata : come biasimare chi voleva ricordare i propri cari e oggi è ostacolata? Faccio però ancora fatica a pensare che nessuno del Comune abbia pensato alle conseguenze di tale operazione; come coniugare le due posizioni e renderle meno opposte?

La foto successiva è rappresentativa del primo Cimitero di Longarone, luogo molto più vicino alla commemorazione dei propri cari, secondo il punto di vista del Comitato, morti nella tragica notte del 9 Ottobre 1963.

Longarone ( foto tratta da wikipedia.org).

Questa è Logarone, ricostruita secondo i canoni degli anni ’70. A detta degli architetti, si è trattata di una ricostruzione veloce e non pensata rispetto a ciò che c’era prima. Lungo la via principale ci sono cartelloni con immagini  della città precedenti alla tragedia, ma non sono illuminati o con particolari descrizioni. Come ci si sente percorrendo quelle vie? Dove sono finiti i punti di riferimento della vecchia Longarone?

Se gli oggetti, i luoghi e le persone del posto non divulgano volentieri il proprio passato che cos’è successo loro?

Se ogni anno c’è una discussione sul che cosa fare o meno durante l’Anniversario delle Vittime, che cos’è successo?

Se ancora oggi la Comunità è frammentata e divisa sul ricordare o dimenticare, che cosa è accaduto loro?

Se ci sono Comitati e  Associazioni divise, pur essendo colpite, dalla stessa Onda prodotta dall’uomo, che cosa è capitato loro affinchè non si potessero stringere nello stesso abbraccio?

Queste domande sono quelle a cui sto cercando di rispondere attraverso una lettura dell’ansia un po’ più circolare, piuttosto che adottare la modalità causa effetto, che ad oggi non permettere di uscire dal circolo vizioso in cui i Sopravvissuti sono caduti, loro malgrado. E purtroppo credo che molte problematiche sociali e psicologiche siano tali proprio perché ognuno ha cercato di prevalere sull’altro, di avere per forza ragione, spendendo energie e consumandosi di dolore ulteriore.

L’ansia  è stato il denominatore comune, non solo  come elemento trasversale del PTSD ancora presente in alcune persone oggi, ma come sintomo, come paziente designato di un’intera Comunità e si riconosce ogni volta che si nomina la parola Vajont.

C’è paura :  da ogni parte. Io stessa vedevo modificata  nell’interlocutore la mimica facciale quando pronunciavo la parola diga, 9 ottobre, commemorazione… parole chiave che toccano ferite aperte. Ma lo stesso capita alle Istituzioni: ogni domanda a loro posta è vissuta in termini persecutori. I Sindaci di oggi non hanno vissuto direttamente l’Onda, ma non si possono scollare da questa storia, dalla loro Storia, che ancora li vede coinvolti ogni volta che si chiede come poter gestire i soldi per le Vittime, quali progetti ci sono in atto per ricordarle, che cosa pensano di fare nel futuro con la Centralina che userà di nuovo il fiume Vajont. Domande scomode, fatte molte volte e spesso senza risposte esaustive, soprattutto per i Sopravvissuti, che continuano per questo a chiedere e a non ottenere ciò che per loro è importante.

Come lo chiedono?

A chi lo stanno domandando?

Come si sente l’altro?

Che posizioni ognuno di loro assume di fronte alla tragedia?

Come si sente l’altro quando non  si risponde come uno vorrebbe?

Alcune di queste domande sistemiche aiutano a comprendere meglio la posizione degli interlocutori, indipendentemente dalla status sociale che occupano.

La posizione lineare fino ad oggi adottata ha visto pochi successi, e la ripetizione degli stessi schemi ha determinato lotte infinite, denunce e ripicche, sotto tanti punti di vista.

Il  Dolore ha così preso forme diverse, spazi immensi e spesso domina le proposte, le domande e le risposte di coloro che sono coinvolti. E per usare la metafora della mia collega Dott.ssa Federica Durando: “il problema non è che il topo è nel labirinto ma che il labirinto è nel topo. I topi che danno per scontata la loro prigione non possono decidere nulla e devono reagire ad iniziative altrui”.

E le Vittime, dopo quasi cinquant’anni, piangono ancora.

4. LA CIRCOLARITA’ DEL SISTEMA :  UNA PROPOSTA DI SPERANZA

Una possibilità propositiva è quella di abbandonare la visione causa – effetto, poiché il sistema è non solo più complesso, tale da includere molteplici domande e risposte che a loro volta ne hanno prodotte altrettante. I paesi di Erto – Casso, Longarone e relativi paesi limitrofi colpiti sono molto più che la somma dei superstiti e persone coinvolte in modo indiretto; l’intero Sistema influenza e risponde a tale influsso in modo reciproco, e si diventa così interdipendenti: aiutare i Superstiti, significa aiutare l’intera società colpita, anche se in modi diversi. Si tratta di interessarci oltre che degli individui, delle relazioni tra loro e di ciò che capita nel mezzo. Questa prospettiva esce dalla vecchia visione di vittima – colpevole e creazione di chiusure all’interno di etichette obsolete, ma permette di unire diversi puntini e leggerne le rispettive reciprocità.

I feedback corrisposti aiutano a comprendere come l’ansia si muova e che cosa produce, come risponde e che cosa ri – crea nel circolo. Ognuno ha in tal modo una certa responsabilità, una posizione attiva e utile tanto a se stesso, che all’altro, perché legati dalle rispettive influenze.

Se la prospettiva della causa – effetto fosse l’unico modo per leggere questa tragedia , dare un calcio ad un sasso o ad un cane sarebbe la stessa cosa. Bateson invece ne sosteneva la differenza, soprattutto in termini di complessità dei sistemi interagenti.

Spesso ho assistito ad un unico modo di affrontare l’ansia che circola tra le vie dei paesi colpiti: l’uso del capro espiatorio. Tale modalità è rassicurante, ma poco risolutiva in termini di utilità. Piuttosto alimenta rabbia e dolore senza troppi limiti. Quindi: a chi serve? Sicuramente non alle Vittime, ma nemmeno ai Carnefici, per mantenere la metafora; all’inizio tale visione sembra giustificare e trovare una causa consolatoria, ma è fittizia. Crea un sistema chiuso e frustrato, rigido e poco adattabile a nuove prospettive. Le persone diventano insoddisfatte, ancora più ansiose di dimostrare che è tutto falso, che la loro posizione è legittima e che è colpa di altri se stanno male così. Con tale modalità le Vittime designate non solo portano il loro dolore, ma anche quello del Sistema Comune e  della Civiltà  che non sono in grado di affrontare i propri problemi e quelli degli altri.

Come aiutare quindi tale Sistema a non usare l’altro come mezzo improprio per affrontare una tragedia così complessa? Come osservare tutto ciò? Come costruire una nuova storia per il Vajont?

Ognuno ha uno spazio, un’emozione, presupposti personali che agiscono sull’altro, che a sua volta reagiscono e rispondono. In modo circolare si osservano tutte le parti che interagiscono e si influenzano vicendevolmente, non si osserva solo uno verso l’altro. Secondo tale prospettiva tutto il sistema appare più ricco e complesso, dove si può iniziare a vederlo in toto e non solo nelle sue parti. Questa osservazione aumenta  le possibilità di interpretazione, di costruzione di ipotesi nuove,   amplia la mobilità delle persone, l’elasticità del Sistema,  una volta  conosciuto solo come rigido e unico. La malattia è restare sempre nella medesima convinzione, senza mai spostarsi o semplicemente curiosare. Come fare a vedere altri tramonti e albe, se siamo sempre chiusi in casa, e non usciamo sulla porta?

Co – costruire altre possibilità  di visione tra le Vittime e il Sistema aiuta anche ad eliminare tale differenza: tutti diventano parte Sistema, non più divisi da etichette, ma uniti dal senso di appartenenza, perché vicendevolmente influenzati. Si tratta di un nuovo modo di stare insieme, non tanto basati sull’ essere buoni e carini col vicinato, ma comprendere realmente il processo che unisce gli uni agli altri. Nasce così un nuova trasformazione volta alla  guarigione, che non è solo delle Vittime, ma è del Sistema:

ciò che accade ad uno, il come capita e che cosa sente, influenza l’altro e viceversa e ancora così per tutte le parti.

Il cambiamento può creare a propria volta ansia, ma non è più vissuta da una persona sola e da sola, ma dal Sistema che diventa a sua volta una base sicura da cui co – costruire altre possibilità di ripresa.

Un esempio recente di tale  co – costruzione è stato il coinvolgimento di tutte le parti del Sistema nella scelta del logo  da usare per l’Anniversario del 50° anno dalla tragedia: sono state le Vittime con altre persone a scegliere il loro rappresentante grafico, non qualcuno che ha deciso per i Sopravvissuti e la Comunità. Riporto dal giornale Corriere delle Alpi del 9 novembre 2012:

“Hanno partecipato al concorso di selezione indetto dalla Fondazione Vajont 56 lavori da tutta Italia e alla fine è stata scelta l’opera di Lorenzo Letizi e Mattia Fuligni dello studio grafico Nerodecò a Mondolfo, in provincia di Pesaro e Urbino.

«La qualità dei partecipanti è stata alta», ha detto il sindaco di Longarone Roberto Padrin, così come quella dei giurati. Ricordiamo che, oltre ai quattro sindaci dei Comuni del Vajont, hanno collaborato alla valutazione degli esperti del settore della comunicazione come Tiziana Pittia (che ha presieduto la giuria), dei pubblicitari come Renzo Schiratti, il grafico Franco De Poli, l’esperto d’arte Franco Fonzo, lo scultore Mauro Corona e i presidenti delle associazioni superstiti e sopravvissuti Renato Migotti e Micaela Coletti, coordinati dal direttore della Fondazione Vajont Giovanni De Lorenzi. I vincitori avranno in premio, oltre all’onore di vedere il logo pubblicato ad ogni evento, una targa in oro con la riproduzione del simbolo»… Renato Migotti ha sottolineato positivamente l’impegno dei giovani, «perché è a loro che dovrà passare il testimone della memoria», mentre Micaela Coletti ha spiegato: «Secondo me questo logo è il migliore per rappresentare nel modo più vivo la tragedia, è molto lineare ma di grande impatto emotivo, immagine efficace per stimolare la memoria»”.

 Logo scelto per il 50° anniversario

Questa è stata una possibilità non solo dei Sopravvissuti di co – partecipare a tale nuovo processo, ma di co – costruirlo insieme a chi , nuove leve, poteranno il futuro della Memoria del Vajont.

Il mio pensiero è volto anche verso le altre modalità decisionali, che nel passato hanno determinato ulteriori ansie e paure quando mancava la rispettiva partecipazione al processo di ricostruzione tanto di Longarone, quanto del modo di affrontare il Dolore nell’anima. Nel modello sistemico il peso della sofferenza non è solo della Vittima e tanto meno solo sulle spalle del Comune. L’ansia dell’intero sistema è ancora in circolo fintanto non si supererà il modello causa- effetto, fin quando le Vittime da sole dovranno sostenere l’etichetta dell’ incapacità di risolvere tutti i problemi e dolori da 50 anni. Lo stesso vale per il Comune: se le autorità locali riuscissero a co – costruire un nuovo sistema di partecipazione al Dolore e alle gestione dell’ansia  che crea tale inefficacia, anche lui non si sentirà da solo a reggere tanti problemi che si trascinano da decenni ed essere etichettati come incapaci e disattenti alle vere necessità sei Sopravvissuti.

5. CONCLUSIONI

Questa tesina è nata dalla mia voglia di comprendere come un sistema chiuso e rigido, come quello della Comunità di Longarone , abbia poco spazio per andare oltre il senso di impotenza e rabbia che la tragedia ha causato. Mi sono fatta molte domande e non riuscivo a darmi risposte che non fossero legate a commenti storici o testi più tecnici. Non erano lì le mie risposte. Guardando oltre ho anche notato che chiedermi solo “ perché” è successa una tragedia così imponente, era limitante. I motivi della frana sono stati definiti dal processo legale , con colpevoli e altre Vittime che ancora una volta non hanno avuto riscatto, nemmeno dalla sentenza finale.

Che cosa potevo allora io fare per comprendere altro?

Ho cercato di partire da chi voleva partecipare con me a queste righe: ho contattato alcune persone che  hanno conosciuto la tragedia e ne sono collegati in modi diversi e fatto loro domande che andassero oltre la modalità lineare, piuttosto circolari. Ciò che più mi ha sorpresa è stata la larga partecipazione e alcuni di loro mi hanno anche scritto in privato, in modo più intimo aiutandomi a capire che cosa per loro significava; ciò che hanno raccontato non era sui libri, ma apparteneva alla loro storia e gliene sono grata. Inoltre proprio loro mi hanno aiutata a correggerne alcune parti e ho sentito in tal senso la circolarità. La mia tesina è partita da un’ esperienza personale ed è terminata con esperienze personali e per questo ancora oggi non è finita: stiamo ancora confrontandoci e continuando a crescere. Questo mi è piaciuto : ha dato un senso di continuità, non di finito.

Ho scelto la tematica della circolarità e della retroazione come esempi di modalità sistemica per vedere i problemi non solo secondo un’ottica causale. Questo nuovo atteggiamento ha aperto molte porte rispetto a ciò che la Psicologia in passato ha permesso di conoscere: il modello lineare è un aiuto per spiegare alcuni fatti, ma non è l’unico per comprendere ciò che ci accade. La Storia del Vajont è sempre stata letta secondo la modalità Vittima – Colpevole e ha portato rabbia e ansia che ancora oggi sono presenti nella quotidianità delle scelte delle persone coinvolte. La Comunità intera vive secondo tale prospettiva e risponde sempre allo stesso modo: ogni cosa sembra scritta, statica e già determinata, sia nelle azioni che nei sentimenti.

Come osservare questi processi in altro modo?

La diagnostica identifica in modo chiaro i sintomi e le caratteristiche del PTSD e della Depressione maggiore nelle persone coinvolte nella ricerca di Zaetta,: etichette importanti, ma poco risolutive. Non aiutano purtroppo le persone colpite ad uscire dallo preconcetto di Vittime e di Colpevoli, non curano. Questo non significa che non siano utili informazioni, ma se inserite in un contesto ampio e flessibile, all’interno del quale l’elasticità permette alle persone di potersi muovere in altro modo,  allora si può parlare di qualche cosa di più costruttivo. Inoltre lo stereotipo di Vittima spesso pre determina come l’altro risponde,  chiudendo il tutto in un circuito chiuso e rigido. Inoltre questo può determinare la facilità di cadere  nella costruzione di più capri espiatori come unico modo per scaricare l’ansia che tale tragedia ha generato.

Come uscire da queste modalità?

Io ho iniziato a osservare il processo lineare e a cercare di inserire elementi per renderlo circolare. I costanti feedback e conseguenti retroazioni hanno permesso di andare oltre le parole e le relative accuse, ma definire altro. Entrambe le parti predefinite Vittime e Carnefici hanno sofferto secondo modi personali e tutt’ora sta accadendo, entrambi hanno difficoltà da risolvere e nessuno li ha mai aiutati ad incontrarsi. Ognuno di loro è sempre stato impegnato a incolpare l’altro e nessuno si è occupato di se stesso. L’intervento di un terapeuta sistemico permetterebbe una lettura più ampia del mero sintomo, ma soprattutto di chi porta il Dolore, in nome magari di altro. La sofferenza non sarebbe intesa fine a se stessa, ma con un significato diverso. Ampliare il contesto ed andare oltre i dualismi, da maggiore spazio ed elasticità alle persone coinvolte. Forse una triangolazione in cui il terzo è lo psicologo aiuterebbe le parti ad ascoltare i dolori di entrambi, senza ricadere in una rigidità tipica delle malattie ansiose. Per usare una metafora della mia collega, si potrebbe provare a far uscire le persone non tanto dal labirinto della mente, ma far andar fuori dalla mente il labirinto!

L’individuo deve lavorare in direzione dello sviluppo di un maggior controllo della propria reattività emotiva e di una maggiore consapevolezza del processo relazionale senza accusare sé stessi né gli altri, ma vedendo la parte che ognuno svolge all’interno di una situazione.

L’ansia ha assunto nel corso degli anni una dimensione trasversale e ha colpito più parti. Se da un lato i medici hanno prescritto ansiolitici per curare il sintomo, dall’altro nessuno si è fatto carico del Dolore dell’intera Comunità. Questo ha determinato il continuare “ scaricarsi” addosso colpe e misfatti, perché il sintomo era solo “ passato” da una persona all’altra, mai affrontato. Anni di inconsapevolezza di tale processo ha reso ancora più rigido il sistema, sia verso l’interno, che verso l’esterno. A nessuno sembrava fosse permesso di superare il dolore senza essere accusato di dimenticarsi della tragedia e allo stesso tempo la posizione del ricordo e commemorazione non permette agli altri di andare oltre. Ogni movimento è così proibito: o in un senso o in un altro.

Una maggiore differenzazione e acquisizione di autonomia permetterebbe loro di sentirsi più responsabili tanto di se, quanto degli altri, iniziando a costruire strumenti più consoni a curiosare senza sentirsi in colpa se cercano di andare oltre, perché questo non significa tradire, ma iniziare una strada nuova, partendo da quella vecchia, tanto utile, quanto importante trampolino. Usare altri presupposti, spostarsi da ciò che è rigido affrontando il Dolore che comporta, con un po’ di coraggio e magari curiosità. Imparare a permettersi ciò che spesso è proibito dalla rigidità del sistema  o del labirinto, in cui ci si è persi. La rigidità è dettata dalla poca differenzazione nelle relazioni, e questo determina sintomi clinici; nel momento in cui aumenta l’autonomia nella relazione, le persone hanno maggiore possibilità di individuarsi e conformarsi di meno all’altro (Bowen, La valutazione della famiglia,  Ed. Astrolabio 1988). Il conflitto relazionale prevale quando non si è disposti ad alcun compromesso, quando non  si è disposti a vincolare l’ansia, quando non si ha la capacità di cedere qualche cosa, tanto per se, quanto per l’altro.

A che cosa le Vittime sono disposte a rinunciare per ridurre il conflitto con chi loro considerano i colpevoli dell’accaduto? E come si comporteranno gli altri? Come risponderanno a tale modo di agire? Questo è il feedback, la retroazione, la circolarità di un sistema: osservare ogni parte in una posizione meta, da parte dello psicologo, e aiutare ogni persona a comprendere tanto dove sono e tanto quanto le loro posizioni muteranno gli altri.

6.     ALLEGATO RICERCA

Riporto qui in seguito la ricerca per intero, in modo da dare la possibilità più esaustiva di ciò che è stato fatto per comprendere meglio l’entità delle conseguenze psicologiche della tragedia.

Articolo originale – Original article

Conseguenze psicologiche di disastri naturali e tecnologici: la testimonianza dei sopravvissuti al disastro del Vajont

Psychological consequences of natural and technological disasters: evidence of survivors of the Vajont disaster

Giorn Ital Psicopat 2007; 13: 177-186

C. Zaetta, P. Santonastaso, G. Colombo, G. Rinaldi, A. Favaro,

Dipartimento di Neuroscienze – Università di Padova

Key words: Natural and technological disasters , Post-traumatic stress disorder

Summary

Objectives

Natural, technological and man-made disasters are associated with the development of different types of psychiatric disorders, such as post-traumatic stress disorder, major depression, substance/alcohol abuse and anxiety disorders. It seems that man-madeevents, such as rape, terrorist attacks or war-related violence, have more severe andchronic consequences on the psychological health of survivor victims. The aim of the present study was to describe the chronic psychological and psychiatric consequences of the Vajont disaster in a group of survivors. The disaster occurred in the Vajont valley,in the north east of Italy, during the evening of October 9, 1963. A rockfall of 260 million cubic meters slid into the lake formed by the Vajont dam. The rockfall displaced approximately 80 million cubic meters of water which poured down into the valley. Within a few minutes, the enormous wave had completely destroyed the village of Longarone and many other small villages causing 1,909 deaths.

Methods

The subjects studied were 39 victims who had survived the Vajont disaster (27 men and 12 women). Mean age of the sample at the time of the interview was 58.1 years (SD = 9.7). The subjects were assessed by means of a semi-structured interview to investigate the extent of the traumatic experience and the emotional reaction during, before and in the aftermath of the disaster. All subjects were interviewed face-to-face at home and each gave written informed consent for the use of data in an anonymous form. Clinical interviews, lasting at least two hours, were recorded on tape.

Results

Subjects were exposed to the traumatic event in different ways (Table I). A first group of subjects survived thanks to rescuers who pulled them from the debris or the mud where they were buried. In this group, physical injuries were severe, requiring many weeks of hospitalisation in all cases. A second group of subjects were present at the moment of the disaster, but were not directly exposed to the tidal wave. They were the first to become aware of what was happening and who immediately began to dig to extract survivors. Subjects in the third group were elsewhere on the night of the disaster and had returned home one or two days after the event. Many of the survivors lost parents or siblings in the disaster and had their homes completely destroyed with loss of all their belongings. Results of the present study showed that the Vajont disaster was a traumatic experience that is still affecting the psychological health of survivors. The long-term psychological consequences often consist, in particular, of post-traumatic stress disorder and major depressive disorder (Tables II, III). About half the sample reported the development of trauma-related fears after the disaster. They described them as fear of water, thunderstorms, darkness, or claustrophobia.

Conclusions

Emotional reactions to the Vajont disaster were similar to those reported by the few available articles in the literature concerning survivors of particularly severe and repetitive disasters. Studies which assess the long-term psychological consequences of traumatic events are rare in the literature and usually refer to war-related events. The psychological impact of the Vajont disaster is difficult to measure, since this man-made disaster completely disrupted the life of the survivors by killing their family members, friends and neighbours, by destroying their homes, their villages and even changing the geographical morphology of the area. The financial problems encountered by the sur-

Correspondence: Dr. Angela Favaro,

Clinica Psichiatrica, Dipartimento

di Neuroscienze, via Giustiniani 3,

35128 Padova, Italy

Tel. +39 049 8213831

angela.favaro@unipd.it

Introduzione

In letteratura sono riportati numerosi studi che valutano le conseguenze psichiche in seguito a tre diverse tipologie di disastri: naturali, tecnologici e provocati volontariamente dall’uomo come gli attacchi terroristici.

La serie di disturbi provocati da tali eventi comprende: disturbo post-traumatico da stress (PTSD), disturbo depressivo maggiore (MDD), abuso d’alcol, disturbi d’ansia e di somatizzazione, problemi comportamentali, come violenze domestiche, e molti altri sintomi di sofferenza psichica, disturbi della performance e della reattività psicologica 1. Questi effetti sono stati rilevati sia in conseguenza di disastri naturali, quali eruzioni vulcaniche 2, incendi 3, alluvioni 4, uragani 5 6, frane 7 8 e terremoti 9-12, sia in disastri tecnologici, quali guasti a impianti nucleari o petroliferi 13-15, affondamento di navi 16 17, crollo di una diga 18 19 e disastri aerei 20, sia in tragedie provocate volontariamente dall’uomo, come gli attacchi terroristici 21-23. Norris et al. 24 hanno rilevato che gli attacchi terroristici (mass violence) hanno un maggior impatto sulla salute mentale rispetto a disastri tecnologici e naturali; sembra inoltre che non vi sia un maggior distress in soggetti che hanno subito un disastro tecnologico rispetto a coloro che hanno subito un disastro naturale, anche se il trend va in questa direzione. I disastri naturali che si verificano in paesi in via di sviluppo hanno maggiori conseguenze rispetto a disastri naturali o tecnologici che si verificano in paesi sviluppati. Sempre secondo Norris et al. 24 gli studi longitudinali fanno pensare che l’apice dei sintomi posttraumatici si evidenzi nel primo anno successivo al disastro e che il grado di sintomatologia presente nelle prime fasi successive al disastro possa essere predittivo della loro gravità nelle fasi successive. Le conseguenze psicologiche di disastri naturali, come eruzioni vulcaniche, alluvioni, uragani, terremoti, possono persistere per tre anni, anche se molti sintomi si riducono nel giro di 16 mesi 2 10; mentre i disastri tecnologici sembrano determinare effetti psicologici più persistenti 25.

Numerosi studi sugli effetti dell’esposizione a eventi traumatici hanno rilevato elevati livelli di comorbilità del PTSD con il MDD, disturbi d’ansia, abuso di sostanze e sintomi dissociativi 24 26-28. Dalla maggior parte degli studi emerge che il disturbo più frequentemente associato al PTSD è il MDD 19 29 30. Alcuni studi hanno rilevato che in conseguenza di disastri naturali e tecnologici il PTSD non presenta mai un esordio tardivo 31.

Nel valutare le conseguenze psicologiche di eventi traumatici è importante considerare il tipo, la gravità e la durata del trauma: alcuni tipi di esperienze sono più traumatiche di altre e possono indurre livelli diversi di PTSD 32; inoltre molti studi hanno documentato una relazione tra gravità del trauma e sviluppo di un PTSD cronico 33.

Le caratteristiche dell’evento traumatico sono strettamente correlate allo sviluppo di reazioni post-traumatiche: in particolare sembra esserci una “risposta dose-dipendente”, ovvero all’aumentare della gravità dell’esposizione al trauma, aumenta la probabilità di sviluppare sintomi post-traumatici 10 34. Dalle ricerche è emerso che alcuni eventi concomitanti o successivi al trauma possono influire sulla reazione post-traumatica dei soggetti. In particolare l’attenzione si è focalizzata su esperienze, quali lutti, perdita dei propri beni e situazioni pericolose per la vita del soggetto 35-37, rilevando che la morte di una persona amata costituisce un elemento di vulnerabilità maggiore rispetto alla perdita dei propri beni. Secondo Norris et al. 24 è difficile poter trarre delle conclusioni sul ruolo di tali fattori nella patogenesi di reazioni post traumatiche; infatti alcuni fattori sono strettamente correlati tra loro, non tutti i fattori considerati sono sempre presenti nelle varie tipologie di disastro e infine non vi è ancora chiarezza in letteratura su quali siano i fattori più patogeni. Sembra comunque che i fattori più frequentemente associati a una maggior gravità e durata delle conseguenze sulla salute mentale dei sopravvissuti siano il danno fisico subito e la minaccia alla loro vita.

Le caratteristiche del trauma non sono tuttavia una determinante sufficiente per sviluppare il PTSD 32 38; infatti sono stati individuati alcuni fattori di rischio che potrebbero aumentare la vulnerabilità del soggetto nello sviluppo di tale disturbo e influenzarne il decorso 30. Numerosi studi hanno valutato l’influenza di diversi fattori di rischio, quali esperienze traumatiche precedenti, caratteristiche demografiche, storia personale, personalità, determinanti biologiche, familiarità, fattori genetici e risorse intra ed extra-personali 39.

Breslau et al. 40 hanno rilevato che l’aver vissuto esperienze traumatiche precedenti costituisce un fattore di rischio per l’insorgenza del PTSD; in particolare i soggetti che hanno subito violenze nell’infanzia sono maggiormente a rischio di sviluppare un PTSD in seguito a un trauma vissuto in età adulta.

Caratteristiche personali, quali sesso ed età, possono costituire dei fattori di vulnerabilità. Molti studi suggevivors, the loss of continuity in their own personal, family and community history, and the need, in many cases, of relocation fostered the development of a “disaster victim” identity which probably makes it difficult to overcome the trauma. The nature of the disaster and the extent of its consequences as far as concerns loss of loved ones, social background and property make this event equal to a multiple trauma. La testimonianza dei sopravvissuti al disastro del vajont 179 riscono che le donne presentano un maggior rischio di sviluppare il PTSD o altri disturbi, in seguito all’esposizione a eventi traumatici 13 41 42. Norris et al. 24 hanno esaminato 49 articoli che riportano nelle conseguenze di eventi traumatici una differenza di genere statisticamente significativa: in 46 di questi articoli viene confermato un maggior rischio per il sesso femminile.

Queste differenze sono state riscontrate tra bambini e adolescenti così come tra adulti. Anche la durata del PTSD sembra essere diversa nei due sessi: Breslau et al. 43 riporta una durata media del PTSD quattro volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini.

I risultati degli studi sull’età come potenziale fattore di rischio sono complessi: sembra che i bambini in età scolare siano più vulnerabili, rispetto a quelli più piccoli 44. In particolare, il comportamento dei genitori, il loro livello di sofferenza e l’atmosfera familiare influenzano le reazioni post-traumatiche dei bambini 45-47.

Una storia precedente di disturbi psichici e comportamentali rappresenta un fattore predittivo per l’insorgenza del PTSD 21 42 48.

Molti studi hanno individuato una relazione tra nevroticismo e la morbilità psicologica; in particolare il nevroticismo è un importante fattore predittivo delle esperienze post-traumatiche 42.

Lo stile di coping costituisce un ulteriore elemento predittivo: alcuni studi su esperienze post-traumatiche in reduci di guerra e sopravvissuti a disastri hanno rilevato che l’uso dell’evitamento come modalità di coping predice l’insorgenza di conseguenze negative 49, così come l’attribuzione di colpa 50 51. Alcuni studi hanno valutato anche il modo in cui il credere o meno nelle proprie capacità di coping può influire sulle reazioni post traumatiche. Il percepirsi in grado di far fronte alle conseguenze di un trauma costituisce un fattore protettivo per il soggetto 52; una maggiore autoefficacia, autostima, ottimismo e un orientamento al futuro sono tutti fattori associati a un minore distress in seguito a un evento traumatico 24.

Diversi studi hanno rilevato che il sostegno sociale ricevuto può moderare gli effetti di un evento traumatico 53 54. Tuttavia gli effetti del supporto ricevuto sono talvolta limitati a certi tipi di conseguenze, o a certi tipi di supporto o sono del tutto assenti 24. Secondo Norris & Kaniasty 55 gli effetti del supporto ricevuto potrebbero essere mediati dal supporto percepito, ovvero dal senso di appartenenza e dal credere nella disponibilità di un eventuale aiuto, più che dall’effettivo supporto ricevuto.

Il disastro del Vajont

Il disastro del Vajont accadde la notte del 9 ottobre del 1963 alle ore 22.39, quando dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccò una frana di 266 milioni di metri cubi di roccia, che precipitò nel bacino idroelettrico 56. La massa franosa provocò un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, che investì prima i paesi posti sulle sponde del lago e poi superò la diga, proiettandosi verso la valle del Piave. Qui devastò Longarone, Pirago, Villanova, Faè, Rivalta, parte di Codissago e Castellavazzo. Nel disastro persero la vita 2000 persone: le vittime accertate furono 1910, delle quali 1458 risiedevano a Longarone, 111 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso, 54 stavano nei cantieri di lavoro della Sade e 129 di altri luoghi. La drammaticità di questo disastro è legata alla numerosità delle vittime e alla devastazione di molti paesi, ma soprattutto è acuita dalla sua prevedibilità. La costruzione della diga a doppio arco più alta del mondo fu accompagnata da perplessità, timori e ammonimenti contrari alla sua realizzazione. I dubbi sulla stabilità delle sponde del bacino ripetutamente sollevati da autorità locali, abitanti e geologi furono ignorati dalla ditta costruttrice dell’impianto, che prestò attenzione agli evidenti segnali di pericolo solo quando la catastrofe era ormai imminente. Frane, scosse sismiche, boati e fenditure del terreno caratterizzarono il frenetico susseguirsi d’eventi che animarono gli ultimi giorni che precedettero la catastrofe. L’incontrollabile ondata d’acqua, preceduta da un forte vento, travolse case, strade, piazze e ponti e investì la popolazione inerme, sorpresa nel sonno e nelle proprie case, disseminando nel suo percorso centinaia di cadaveri. La vasta portata di quest’evento traumatico è legata alla perdita della continuità familiare, territoriale e culturale subita dai superstiti. Alla drammaticità del disastro si aggiunsero poi la disperazione per l’impossibilità di ritrovare e riconoscere molte vittime, l’amarezza per le vicende processuali e per le vertenze civili e le difficoltà che caratterizzarono la lunga opera di ricostruzione.

Scopo e metodi

Negli ultimi anni molte ricerche hanno valutato gli effetti psicologici dell’esposizione a gravi eventi traumatici. In Italia tuttavia questo tipo di studi è solo all’inizio. La nostra ricerca si propone di valutare gli effetti psicologici a lungo termine dell’esposizione al disastro del Vajont, con particolare attenzione alla frequenza del disturbo post-traumatico da stress e del disturbo depressivo maggiore, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti 57.

In assenza di una lista ufficiale, completa e aggiornata dei superstiti e sopravvissuti al disastro del Vajont, i soggetti sono stati rintracciati grazie alla collaborazione dell’ufficio anagrafe del Comune di Longarone, dei sindaci dei comuni coinvolti, del presidente di un Comitato dei superstiti e grazie all’aiuto di alcuni sopravvissuti. Sono state inviate 67 lettere di partecipazione, seguite da un contatto telefonico. Delle 58 persone contattate, 19 non hanno accettato: 16 perché non se la sentivano di parlare dell’accaduto e 3 per problemi di lavoro. Il campione è così costituito da 39 soggetti (67,24%), 12 donne (30,76%) e 27 uomini (69,23%). L’età media dei soggetti è di 58,1 anni (deviazione standard [DS] = 9,7), in particolare 53,7 anni per le donne (DS = 7,4) e 60 anni per gli uomini (DS = 10,1).

La ricerca si è svolta nell’arco di 7 mesi: dalla fine di maggio a dicembre 1999. Dopo aver informato le autorità locali sulla ricerca in atto nel loro territorio, è stata inviata ai soggetti una lettera in cui venivano illustrati gli obiettivi della ricerca e veniva richiesta la loro collaborazione a partecipare a un’intervista.

Successivamente i soggetti sono stati contattati telefonicamente per verificare la loro disponibilità e fissare un incontro. Le interviste sono state condotte vis a vis, trentuno in casa dei partecipanti, sette sul posto di lavoro e due in un locale pubblico. Sono state tutte audio-registrate, dopo aver ottenuto il consenso scritto da parte dei soggetti. Le interviste hanno avuto una durata variabile, mediamente compresa tra un’ora e un’ora e mezza.

Per realizzare la nostra ricerca è stata utilizzata un’intervista semi-strutturata sul trauma, che indagava la presenza di esperienze traumatiche prima, durante e dopo il disastro. Alle vittime veniva chiesto di descrivere la loro esperienza traumatica, specificando i danni materiali e fisici subiti, la perdita di persone care ed eventuali esperienze di deprivazione. Veniva inoltre chiesto di descrivere ciò che avevano visto e sentito la notte del disastro (o nel momento in cui erano giunti nel luogo della tragedia), le reazioni immediate dal punto di vista emotivo, il ricordo di scene di morte o ferimenti particolarmente impressionanti, i cambiamenti nella propria vita nel periodo successivo al disastro e le reazioni attuali a distanza di 36 anni dall’accaduto. È stata inoltre utilizzata un’intervista clinica strutturata per valutare la diagnosi di PTSD e MDD e due questionari autosomministrati per valutare la sintomatologia dissociativa e alcune caratteristiche di personalità. In un articolo già pubblicato sono riportate le percentuali di disturbo post-traumatico da stress e depressione maggiore riscontrate nel corso dello studio (Tabb. I-III). 57

Risultati

L’età media delle vittime al momento del disastro era di 21,9 anni (DS = 9,8), in particolare 17,7 anni (DS = 7,5) per le donne e 23,8 anni (DS = 10,2) per gli uomini.

Nelle Tabelle I-III sono riassunti i risultati dello studio precedente sulla gravità del trauma e sull’insorgenza di sintomi depressivi e post-traumatici nei soggetti sopravvissuti 57. Ventinove soggetti (74,4%) erano presenti nel momento della tragedia: i ricordi di quella notte sono ancora lucidi, precisi e intensi, come se tutti questi anni non fossero mai passati. Le immagini del disastro sono ancor nitide nella mente dei sopravvissuti, che ricordano d’aver avvertito un forte rumore simile a un tuono e poi un sussulto del terreno: “… ho sentito un sussulto del terreno che si è amplificato all’inverosimile: dai piedi ti è entrato nel corpo fino alla testa che ti scoppiava … poi il rumore è cessato e si è tramutato in uno scroscio d’acqua. Lo spostamento d’aria e i primi spruzzi mi hanno sollevato e riportato da dove venivo; mi sono ritrovato nudo e con le chiavi di casa in mano …”. Alcuni ricordano d’aver visto una nube nera e poi la massa d’acqua: “un arco schiumoso e bianco d’acqua che si dirigeva verso Longarone, ho visto tutta l’illuminazione pubblica che saltava da sud a nord man mano che l’acqua toccava i fili; ho visto cadere il campanile della chiesa …”; “Era una bella serata, c’era la luna e faceva freddo … ho sentito un rumore e mi sono meravigliata che fosse un temporale; sono uscita e ho visto tutto nero, una nube nera, ho sentito un forte odore di fango marcio e poi il rumore dell’acqua che batteva, il fango che entrava sotto la porta …”. Nel momento del disastro Tab. I. Gravità del trauma nei soggetti sopravvissuti al disastro. Severity of trauma among the survivors of the disaster.

Non presenti

(n = 10)

n (%)

Presenti

(n = 17)

n (%)

Colpiti

(n = 12)

n (%)

÷2

(gl = 2)

p <

Grave danno fisico 0 (0) 0 (0) 11 (92) 34,47 0,001

Grave danno economico

7 (70) 6 (35) 12 (100) 13,0 0,005

Casa distrutta 6 (60) 4 (24) 11 (92) 13,35 0,001

Lutti di primo grado 5 (50) 6 (35) 11 (92) 9,32 0,01

Morte dei genitori 4 (40) 5 (29) 11 (92) 11,6 0,005

I soggetti sono stati divisi in tre gruppi a seconda del tipo di trauma subito: i soggetti del primo gruppo non erano presenti al momento del disastro e sono tornati i giorni immediatamente successivi; i soggetti del secondo gruppo erano presenti, ma sono sfuggiti alla violenza dell’acqua; il terzo gruppo è costituito da soggetti colpiti fisicamente dall’ondata d’acqua.

Molti superstiti si trovavano nelle loro case e alcuni stavano dormendo: sono stati travolti prima dallo spostamento d’aria provocato dalla pressione dell’acqua che scendeva nella gola del Vajont e poi dall’ondata incontrollabile precipitata nella valle. L’ondata è stata preceduta da un forte vento: “… ricordo il forte vento e il rumore delle tapparelle che sbattevano …”.

Dodici soggetti (30,8%) sono stati ritrovati sotto le macerie: si sono risvegliati completamente sepolti dal fango, faticando a respirare, senza rendersi conto dell’accaduto: “Mi sono svegliata completamente sepolta e con le mani ho cercato di liberarmi la testa perché non respiravo, poi mi sono liberata anche le braccia fino al petto … sentivo un gran rumore d’acqua e un odore di nafta, mi toccavo il viso e lo sentivo gonfio … pensavo fosse tutto un sogno e cercavo l’interruttore della luce, ma prendevo in mano solo sassi … mi sono detta che era un sogno e che dovevo dormire, così ho appoggiato la testa sulla ghiaia, perché così dormendo mi sarei ritrovata nel mio letto …”. Altri superstiti raccontano: “Mi sono sentita piegata come una fisarmonica, gli occhi fatti di stelle … mi sembrava di avere due stelle; sentivo il bisogno di respirare ed ero arrabbiata perché volevo muovermi, ma mi sentivo legata: uscivano dalla terra solo un piede e una mano …”; “… mi sono sentita sprofondare e portare via dall’acqua; non ho mai perso i sensi e credo d’aver nuotato anche se non ne sono capace. Poi ho sentito l’acqua allontanarsi e quello è stato il momento più brutto, perché c’era un silenzio di morte …”; “Ho sollevato il braccio per coprirmi perché mi stava crollando la casa in testa; poi ho sentito il rumore del vento ed ero imprigionata e non potevo muovermi”.

Undici soggetti (28,2%) hanno subito un danno fisico grave con escoriazioni, ematomi, fratture, contusioni, ferite superficiali e profonde: “… avevo ferite su tutto il corpo, ho perso tutti i denti, mi mancava la carne sotto il mento ed ero piena di sabbia: l’ultima estrazione dal braccio me l’anno fatta sedici anni fa…”; alcuni di essi avevano perfino ricevuto l’estrema unzione: “ mi hanno gettato in una vasca e mi hanno dato l’estrema unzione …”.

Tab. II. Frequenza delle diagnosi psichiatriche secondo la gravità del trauma. Frequency of psychiatric diagnoses according to severity of trauma.

Diagnosi Non presenti

(n = 10)

n (%)

Presenti

(n = 17)

n (%)

Colpiti

(n = 12)

n (%)

÷2

(gl = 2)

p <

PTSD attuale 0 (0) 2 (12) 5 (42) 7,21 0,03

PTSD life-time 0 (0) 4 (23,5) 6 (50) 7,22 0,03

MDD attuale 1 (10) 2 (12) 3 (25) 1,25 n.s.

MDD life-time 1 (10) 6 (35) 4 (33) 2,21 n.s.

PTSD parziale 1 (10) 7 (41) 5 (42) 3,3 n.s.

PTSD e MDD 0 (0) 2 (12) 4 (33) 4,96 n.s.

Vedi Tabella I per quanto riguarda la distinzione in tre gruppi.

Tab. III. Numero dei sintomi depressivi e post-traumatici a seconda della gravità del trauma. Number of depressive and posttraumatic

symptoms according to severity of trauma.

N. sintomi Non presenti

(n = 10)

Media (DS)

Presenti

(n = 17)

Media (DS)

Macerie

(n = 12)

Media (DS)

F (2,36)

Cluster B attuale 1,0 (0,9) 1,6 (1,3) 2,2 (1,5) 2,48

Cluster B life-time 1,3 (0,9) 2,4 (1,7) 2,6 (1,3) 2,51

Cluster C attuale 0,7 (0,5) 1,5 (1,2) 2,0 (1,7) 2,89

Cluster C life-time 1,0 (0,9) 1,9 (1,4) 2,5 (1,8) 2,94

Cluster D attuale 0,01 (0,3) 1,7 (1,4) 2,6 (0,9) 14,91*

Cluster D life-time 0,9 (0,9) 2,8 (1,5) 3,1 (0,7) 11,61*

MDD attuale 1,1 (1,6) 2,3 (1,7) 3,0 (2,6) 2,52

MDD life-time 2,1 (1,8) 4,2 (2,7) 3,8 (2,2) 2,73

Vedi Tabella I per quanto riguarda la distinzione in tre gruppi.

* p < 0,001; post-hoc test: A < B, C.

Le sensazioni provate nel momento della tragedia erano di incredulità, stordimento, confusione, angoscia, paura, shock e terrore: “… ho provato un’angoscia totale, perché vedevo intorno a me anche gli adulti spaventati e terrorizzati …”; “… confusione, perché non mi rendevo conto di cosa effettivamente era successo…”; “In quel momento mi sono sentita terrificata, avevo paura ed ero agitata”.

Solo al mattino è stato possibile rendersi conto di ciò che effettivamente era accaduto: non era scoppiata la diga, come molti avevano pensato nella notte, ma l’acqua era tracimata, riversandosi nella valle del Piave. Dalle parole dei superstiti emergono incredulità, sgomento e stupore, provati alla vista della valle devastata: “Al mattino ho rivolto lo sguardo verso Longarone e ho visto questa riga diritta, questa piana bianca … sono rimasto così, non mi rendevo conto…”; “Dalla piazza di Castellavazzo ho visto tutto il colle completamente bianco, mi ha fatto un’impressione!

Longarone era completamente bianca e il sole faceva risaltare dov’era passata l’onda. Tutta la montagna era rossa e l’onda aveva scavato ai suoi piedi un lago di 50 metri”.

La distruzione era tale da disorientare i sopravvissuti, impedendo loro di ritrovare dei punti di riferimento: “Cosa avrei dovuto vedere? So quello che ho visto e non ricordo cosa c’era al suo posto il giorno prima… c’è voluto del tempo per ricostruire l’immagine normale che avevo da quel posto … vedere Longarone il 9 ottobre e il 10 ottobre … non riuscivo a fare gli accostamenti … è stato uno shock incredibile”; “… non c’erano più contorni, non si distingueva più niente; una cosa strana come fosse vuoto sotto … non essendoci più alberi, né punti di riferimento uno non riusciva più a capire”. Non tutti i soggetti da noi intervistati (n = 10; 25,7%) erano presenti nel luogo del disastro (Tab. I) nel momento in cui si è verificato e hanno appreso la notizia della tragedia da radio, televisione, giornali o da altre fonti, giungendo nel luogo del disastro nei giorni seguenti (n. 9; 23%). Al loro arrivo hanno visto un paesaggio completamente mutato: i paesi erano devastati e privi di punti di riferimento: “Longarone era un ghiaione, ho guardato il paese e non c’erano più ponti, né niente … ho contato le case e ho visto che la mia non c’era più … al che ho cominciato a sudare freddo”.

Le attività di soccorso sono cominciate fin dalle prime ore successive al disastro: ventuno soggetti (54%) hanno partecipato ai soccorsi subito dopo il disastro o nei giorni successivi. Nelle ore seguenti il disastro i sopravvissuti hanno vagato tra le macerie alla ricerca di altre persone ancora vive, scavando con le mani nel fango per estrarre i corpi dei feriti e delle vittime; 22 soggetti (56,4%) hanno assistito a scene di morte o ferimenti particolarmente traumatiche: “Ricordo una donna incinta completamente sventrata e una signora anziana nuda che si strappava i capelli bianchi …”; “… è stato un succedersi di avvenimenti drammatici in quelle ore: credo d’essermi fermata a quel punto lì, io dietro non ricordo altro … forse quello è stato il momento più tragico perché dicevano che erano tutti morti e io non mi rendevo conto perché dovevano essere morti… ricordo una donna ferita che portava in spalla il marito e un mio coetaneo ferito, completamente blu che urlava”; “… mentre correvo ho incontrato mia cugina insanguinata con una ferita profonda sul collo, che mi ha chiesto di cercare mia zia. Appena l’ho vista non ho avuto il coraggio di avvicinarmi perché era gonfia, blu e con la testa aperta”.

Nei giorni successivi alla tragedia i superstiti hanno partecipato insieme ai soccorritori alle ricerche dei propri familiari e al riconoscimento delle salme: “I cadaveri erano sfigurati non solo dall’acqua ma anche dal terrore; i bambini sorpresi nel sonno erano normali…”; “Al mattino mi sono recato sul Piave per coprire le salme: corpi denudati e smembrati, bambine che pendevano dagli alberi … le chiese erano piene di cadaveri … è stato un momento tremendo: ho toccato con mano il dolore e la sofferenza più inaudita”.

Nei giorni e nei mesi seguenti il disastro la vita dei sopravvissuti è stata cambiata radicalmente: l’onda aveva travolto le case, le piazze, le strade, l’intero nucleo abitativo, disseminando nel suo percorso centinaia di cadaveri. Le prime necessità riguardavano il recupero e il riconoscimento delle salme, l’assistenza ai senza-tetto e la distribuzione degli aiuti alla popolazione: “Mi restava poco tempo per pensare e piangere, dovevo affrontare la vita del momento e la vita del momento era star vicini a quelli che erano vivi… non ci si rendeva conto allora, eravamo in mezzo ai morti, tanti morti, tutti avevano i loro morti … eravamo nel paese dei morti, ma anche dei vivi …”; “… nel periodo successivo ho provato impotenza, avvilimento, stupore per cose avvenute al di fuori di ogni possibile pensamento, esasperazione per tutto ciò che era necessario fare e che ritardava”.

Molti superstiti sono stati ospitati da parenti o amici, altri sono stati trasferiti in altri paesi: “Il momento in cui sono salita in elicottero è stato traumatico: non sapevo dove mi avrebbero portata e soprattutto ero sola…”; “Tutti i bambini sono stati trasferiti in un collegio per evitare il pericolo di eventuali infezioni, ma io ero riuscita a scappare …”.

Dolore e disperazione hanno caratterizzato la ricerca e il riconoscimento delle salme: purtroppo non è stato possibile riconoscere molti cadaveri e i familiari ancor oggi non hanno una tomba su cui piangere: “Era un succedersi di disperazione perché cercavano i morti… non sopportavo le scene di disperazione quando tornavano dai cimiteri e si organizzavano per le ricerche, sembravano matti e non si davano pace …”.

Il disastro del Vajont ha provocato “uno sradicamento totale”, lo sfaldamento dell’intero tessuto socio-culturale. Il Vajont ha stravolto completamente la vita della popolazione superstite, spezzandone la continuità e definendone tragicamente un nuovo inizio: “Sto facendo una vita che comunque non era la mia … sto combattendo con la vita di una persona che comunque con me ha ben poco con cui spartire …”; “… la vita si riprendeva pian piano, ma io per i primi tre anni non ho guardato neanche il cielo se era nuvolo … per tre anni!”; “… c’è sempre un angolo del mio cervello che batte sempre là … passano gli anni, ma quello che io provavo trent’anni fa lo provo anche adesso; è un dolore che ti porti avanti, continuo … il Vajont è come un marchio indelebile, perché ti ha sradicato di tutto … ha lasciato il segno a tutti … non dimentichi mai, ho sempre in un angolo del cervello come un chiodo che batte”.

Nel disastro i sopravvissuti hanno perso non solo i loro cari, il loro paese, la loro vita, ma anche la propria identità: “… anche restare nudi con quattro mura della casa, avere un’identità… la perdita d’identità è stata grandissima”; “Quando ripenso a quegli eventi provo un’angoscia tremenda … io vedo immagini dentro di me che non posso più toccare, non posso più realizzare visivamente, né materialmente … perché i ricordi se sono astratti, senza nessun riferimento fisico, sono ricordi che ti fanno soffrire molto di più nel desiderio, nella voglia di andare a vedere, che non quello che sai che c’è … i tuoi ricordi possono essere frutto della tua fantasia e se s’insinua questo sospetto la tua persona perde l’identità”.

I sopravvissuti sembrano aver sviluppato un nuovo senso d’identità, centrato sull’esperienza traumatica: “… nessuno può capire se non ha provato … è un fatto grande fin che vuoi, ma finisce là… il giorno dopo passa nel dimenticatoio …”; “… uno nella vita non riuscirà mai a ritornare come prima … sei una persona normale, ma non sei come gli altri …”.

Ripensando all’accaduto, a distanza di 36 anni, è ancor forte la rabbia per una tragedia che poteva essere evitata, lo sdegno, lo sgomento, l’amarezza per le vicende processuali e per le umiliazioni subite, la paura che una tragedia simile possa ripetersi e il timore che la vera storia del Vajont venga distorta e che il dolore e la sofferenza vengano calpestati senza rispetto: “…rabbia, una gran rabbia, se potessi mettere le mani addosso a qualcuno lo farei a fette, non so chi, il mondo, la cattiveria, l’ignoranza …”; “… rabbia, perché correva voce che c’era qualcosa che non andava, ma non hanno fatto niente per evitare il disastro; forse il disastro era inevitabile, ma non hanno fatto niente per salvare la gente; questo era l’importante!”; “… paura che si stravolgano i fatti, perché sulla pelle dei morti hanno sguazzato tutti …”.

Nonostante siano trascorsi 36 anni, la tragedia del Vajont continua ad alimentare il dolore e la sofferenza dei superstiti: “… il Vajont è come un tarlo che ci mangia il cervello piano piano …”; “… noi siamo prigionieri di una catastrofe e dobbiamo accettare d’esserlo …”.

Discussione

Il nostro studio ha evidenziato che il disastro del Vajont è stato un’esperienza traumatica che ha lasciato in molti casi ferite profonde. Dal punto di vista psicologico, si sono rilevate conseguenze a lungo termine culminate, in molti casi, in diagnosi di disturbo post-traumatico da stress e disturbo depressivo maggiore 57. In base alla gravità dell’esperienza traumatica vissuta, i soggetti sono stati suddivisi in tre gruppi: i superstiti ritrovati sotto le macerie, i soggetti presenti nel momento in cui è avvenuto il disastro e i soggetti che non erano presenti nel momento della tragedia e che sono ritornati nei propri paesi colpiti dal disastro nei giorni seguenti. Le differenze qualitative e quantitative nella gravità del trauma subito hanno determinato conseguenze a lungo termine diverse: la frequenza di disturbi conclamati è maggiore nei superstiti ritrovati sotto le macerie e nei sopravvissuti presenti nel momento del disastro.

Tutti i soggetti che hanno sofferto, dal momento del disastro in poi, di PTSD, soffrono tuttora di una forma attenuata di PTSD (o PTSD parziale), mentre nessun soggetto sembra aver presentato una remissione completa dei sintomi. Questo potrebbe essere dovuto alla particolare gravità dell’evento traumatico: sembra infatti che l’entità del trauma sia responsabile della cronicità e della complessità della sintomatologia.

Il disastro del Vajont può essere paragonato a un evento traumatico ripetuto: la tragedia non si è conclusa nei pochi minuti in cui l’incontrollabile ondata d’acqua è precipitata nella valle devastandola e investendone la popolazione inerme, ma si è protratta nei giorni e mesi seguenti, in cui alla drammaticità del disastro si aggiunsero la cruenza dei ritrovamenti dei cadaveri, la disperazione per l’impossibilità di ritrovare e riconoscere molte vittime e il disorientamento provato alla vista di un paesaggio completamente mutato. Ad acuire l’entità di quest’evento traumatico contribuirono inoltre la sua prevedibilità, le lunghe vicende processuali e le vertenze civili e le difficoltà che caratterizzarono la lunga opera di ricostruzione.

Il disastro del Vajont ha stravolto completamente la vita della popolazione superstite, causandone uno sradicamento totale e lo sfaldamento dell’intero tessuto socio-culturale, spezzandone la continuità familiare, territoriale e culturale e definendone tragicamente un nuovo inizio. Nella popolazione superstite sembra essersi sviluppato un nuovo senso d’identità centrato sull’esperienza traumatica. Questo dato è simile a quello riportato da Green et al. 18 in uno studio sulle conseguenze psicologiche del crollo della diga di Buffalo Creek nella West Virginia nel 1972, che ha provocato la morte di 125 persone e la devastazione dell’intera comunità. Anche in questo caso la perdita della continuità familiare, territoriale e culturale provocata dal disastro ha favorito lo sviluppo di un nuovo senso d’identità. Tale identità, basandosi completamente sulla condivisione dell’esperienza traumatica e delle sue conseguenze, ostacola la risoluzione dei sintomi post-traumatici, o a volte il fatto stesso di considerarli “sintomi”, poiché la rinuncia ai sintomi implica anche la perdita di questa nuova identità 18.

Un ulteriore aspetto che sembra facilitare il mantenimento di questo senso d’identità nei superstiti da noi intervistati è la vividezza dei loro ricordi a distanza di 36 anni dalla tragedia. I racconti della notte del disastro, dei giorni e dei mesi seguenti sono ricchi di particolari e i ricordi sono lucidi, precisi e intensi: le immagini sembrano scorrere nitide nella mente dei superstiti, che sembrano riviverle, come se fossero nuovamente reali, con molta partecipazione emotiva.

Dall’analisi dei sintomi e della loro numerosità in relazione alla gravità del trauma subito è emerso che non vi sono differenze significative per quanto riguarda i ricordi intrusivi: questi sono presenti in percentuali elevate in tutti e tre i gruppi di soggetti.

Sembra infatti che questi sintomi abbiano una soglia d’insorgenza più bassa in relazione alla gravità del trauma, differenziandosi dai sintomi di attivazione del PTSD per cui la soglia sembra più alta. Questo dato è simile a quello riscontrato in altri studi 31 58.

Le sensazioni provate la notte del disastro riemergono nelle narrazioni dei superstiti, che sembrano rivivere nel racconto l’incredulità, lo stordimento, la confusione, l’angoscia, la paura, lo shock e il terrore di quella tragica notte. Le emozioni provate da chi ha potuto raggiungere il proprio paese solo il mattino seguente il disastro sono state soprattutto di incredulità, sgomento, stupore e disorientamento: la devastazione era tale da impedire loro di ritrovare punti di riferimento e di riconoscere luoghi familiari. Ad accomunare coloro che hanno vissuto la tragedia nel suo dispiegarsi di morte e distruzione e coloro che ne hanno potuto vedere le tragiche conseguenze solo al mattino sono i sentimenti di rabbia per una tragedia che poteva essere evitata, lo sdegno, lo sgomento, l’amarezza per le vicende processuali e per le umiliazioni subite, la paura e il timore che eventi simili possano ripetersi e che la loro storia possa essere distorta, senza rispetto per il dolore e la sofferenza che continuano a dominarne l’esistenza.

Abbiamo ritenuto importante riportare le testimonianze dei superstiti di questo disastro per documentarne e descriverne la peculiarità. Il disastro del Vajont costituisce un evento traumatico particolare non solo per la sua drammaticità, ma anche per la sua prevedibilità, non sufficientemente considerata dai costruttori della diga, ma avvertita dalla popolazione che tuttavia è stata più volte tacciata. Un altro aspetto che caratterizza questo evento traumatico è la sua continuità per la quale può essere considerato, come precedentemente è stato sottolineato, un trauma ripetuto. Le testimonianze raccolte ne confermano queste caratteristiche, che sembrano essere responsabili della cronicità della sintomatologia riferita dai superstiti. L’incomunicabilità di un evento così tragico ha alimentato i racconti dei superstiti al punto da far sì che all’ascoltatore giungessero prima delle parole la vividezza delle percezioni visive, sonore, olfattive e tattili, che ne dominano ancora i ricordi cristallizzati nella memoria. Il tentativo di comunicare quest’esperienza traumatica, che per alcuni non era mai stata espressa attraverso le parole fino al momento in cui hanno accettato di essere intervistati, nasceva per molti dal desiderio di non far dimenticare un evento che ne ha completamente stravolto l’esistenza, che ne ha segnato un nuovo inizio e che continua a imprigionarne la vita.

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