Autore: Malcom Partlett

The British Gestalt Journal, 1991, 1, 68-91 – Traduzione di Desantila Tusha

 

L’Epistemologia dominante del nostro Tempo

Ciò che è dato per scontato in molti circoli è una serie di ipotesi che sono familiari a tutti noi, anche attraverso i modi con cui siamo stati istruiti.

Così, l’esperienza soggettiva è “inaffidabile”, la ripetibilità di un fenomeno deve essere stabilita prima che possa essere presa sul serio; le specifiche cause degli eventi devono essere isolate se gli eventi sono stati compresi; problemi complessi devono essere tradotti in variabili, parametri, o componenti, al fine di essere studiati sistematicamente; la conoscenza quantitativa supera la conoscenza qualitativa; essere in grado di misurare qualcosa è un passo da gigante verso la comprensione corretta, il successo nell’argomentazione razionale è l’arbitro supremo delle differenze di vedute; il pensiero olistico è vago e lanoso; l’obiettività è spassionata e politicamente neutrale, e praticamente in tutte le questioni in cui si sforza di essere “scientifica” è altamente lodevole. Una tale caricatura condensata è senza dubbio più semplice.

La “Knocking science” (“la scienza del bussare”) è inoltre diventata di moda troppo facilmente (ho appena scritto queste parole nel mio elaboratore di testi). Tuttavia, così potente e pervasiva è l’epistemologia dominante che modi di pensare che si basano su un insieme di principi e ipotesi fondamentalmente diversi, come la teoria del campo, hanno difficoltà a diventare generalmente accettati, soprattutto negli ambienti che hanno un forte investimento nella conservazione delle ipotesi e nelle prospettive dello status quo epistemologico.

Come è stato ben documentato ora, (ad esempio, da Capra, 1982, e Berman. Op. Cit.), l’epistemologia dominante dei secoli XIX e XX sorse dalla rivoluzione scientifica e filosofica che associamo a Galileo, Newton e Descartes.

Prima di questo tempo, quattro o cinquecento anni fa e prima dell’inizio dell’era scientifica, l’epistemologia esistente era molto diversa, ed era congruente con il sistema sociale ed economico che esisteva in quel momento. Prima del 1500 la visione del mondo dominante in Europa, così come nella maggior parte delle civiltà, era organica. La gente viveva in piccole comunità coese con la natura e con l’esperienza in termini di rapporti organici, caratterizzati dalla interdipendenza dei fenomeni spirituali e materiali e la subordinazione dei bisogni individuali a quelli della comunità … (Capra 1982, p. 53).

Questa prospettiva cambiò radicalmente nei secoli 16 e 17. Nelle parole di Capra: “la nozione di un universo organico, vivente, e spirituale è stato sostituito da quello del mondo come una macchina, e il mondo-macchina è diventata la metafora dominante del modem era”(ps. qui parla del modem in senso del modem che si usa per collegare diversi computer tra di loro sulla stessa rette)   (1982, pag. 54).

E con la metafora della macchina è arrivata la condanna, in primo luogo della filosofia, e poi della psicologia nel momento in cui si materializzò come disciplina accademica, che gli esseri umani potevano anche essere considerati come macchine, la loro effettiva personale esperienza messa da parte e scontata a favore di “misure oggettive” del comportamento in condizioni di laboratorio.

Parte di ciò che è successo in questo grande cambiamento è stato una riduzione del senso di come gli esseri umani erano correlati e interdipendenti uno con l’altro e con la natura.

Berman disse questo molto chiaramente: il punto di vista della natura, che predominava in Occidente fino alla vigilia della rivoluzione scientifica è stato quello di un mondo incantato. Rocce, alberi, fiumi, e nuvole sono stati tutti visti come esseri meravigliosi, vivi, e gli umani si sentivano a casa in questo ambiente. Il cosmo, insomma, era un luogo di appartenenza. Un membro di questo cosmo non era un osservatore alienato di esso, ma un partecipante diretto nella sua drammaticità. Il suo destino personale era legato destino dell’universo, e questa relazione dava senso alla sua vita.

Questo tipo di coscienza, “la coscienza partecipante”, coinvolge … l’identificazione con il proprio ambiente e rivela una totalità psichica che è da tempo passata dalla scena. (1981, p. 16).

Così possiamo cominciare a vedere come l’epistemologia, che la teoria del campo rappresenta, ha un lungo pedigree, almeno, in qualche modo che corrisponde alla visione più “primitiva” e naturale del lontano passato in cui il dualismo era, se non assente del tutto, di certo non come una spaccatura profonda, come è diventato negli ultimi 300-400 anni.

La “consapevolezza partecipante” è un bel modo alternativo di descrivere il campo unificato, in cui non c’è divisione dura e rapida tra osservatore e ciò che si osserva, soggetto e oggetto. Berman descrive il “disincanto” che ha partecipato alla nascita di una visione più dualistica.

La storia dell’epoca modem, almeno a livello mentale, è una delle progressive disillusioni … consapevolezza scientifica è consapevolezza alienata, non c’è fusione statica con la natura, ma piuttosto separazione totale da essa. Soggetto e oggetto sono sempre visti in opposizione tra di loro.

Io non sono le mie esperienze, e quindi non sono veramente una parte del mondo che mi circonda. (1981, p. 16).

La prospettiva della teoria del campo reintroduce il senso di un tutto unificato, in cui soggetto e oggetto cessano di essere in opposizione: il mio campo esperienziale comprende i significati che trovo nel mio ambiente, per parlare del setting o ambiente avendo una realtà indipendente e obiettiva, separata dalle mie o altrui esperienze di esso, è quello di creare un’entità concettuale necessaria forse per il tipo di scienza che è nata, e il “mondo delle macchine”, che ha dato origine, ma non descrive con precisione la natura fenomenica della reale esperienza umana.

Inoltre, il cambiamento di dualismo non era del tutto sano. Come osserva Berman: il punto finale logico di questa visione del mondo è una sensazione di reitificazione totale. tutto è un oggetto. estraneo, e non-io,  io sono in ultima analisi, un oggetto, un “cosa” estranea in un mondo di altre cose, anche una cosa irragionevole. Questo mondo non è di mia creazione, il cosmo non si cura di me, e io non mi sento di appartenere ad esso. (1981, p. 16)

RD Laing ha trattato lo stesso argomento, che, a seguito di diverse centinaia di anni di crescente influenza scientifica sui nostri modi di base di apprezzare la realtà, molto di ciò che è intrinseco alla vita umana (con la V maiuscola) è stato perso: Fuori vanno la vista, i suoni, il gusto, il tatto e l’olfatto e con loro da allora sono andati estetica e sensibilità etica, valori, qualità, forma, tutti i sentimenti, le motivazioni, le intenzioni, l’anima, la coscienza, lo spirito. L’esperienza come tale è lanciata fuori dal regno del discorso scientifico (In Capra. 1982, p. 55).

Per riassumere: con la crescita della prospettiva scientifica, della meccanizzazione, e l’importanza data agli approcci quantitativi, obiettività e razionalità, è venuto una separazione fondamentale tra il mondo come io naturalmente lo sperimento e “il mondo come realmente è” (presumibilmente), cioè, come viene descritto dalla scienza. Ed è proprio questa separazione, o alienazione come Berman la chiama, che sancisce l’epistemologia dominante di oggi e con cui la teoria di campo, venendo da una prospettiva completamente diversa, è in contrasto.

Nuove Direzioni

Bene, vale la pena riconoscere che la dominante epistemologia è attualmente sotto attacco da più parti, non solo dai teorici della Teoria del Campo. Tutti riconoscono quello che Donal Schon (1988) chiama “razionalità tecnica” che è davvero riuscita stupendamente a promuovere la macchina del mondo.

Ma ora è stata trovata mancante da molti, inclusi ecologisti, fisici moderni (all’indomani della meccanica e della meccanica quantistica), medici olistici, architetti della comunità, economisti alternativi e molti altri, inclusi i terapeuti della Gestalt.

Anzi, viviamo in un momento di attività e di innovazione senza precedenti, nella quale il nuovo pensiero è applicato a molti settori della scienza e della fatica umana. Ci sono passi verso molti approcci olistici, prospettive più relativistiche, e c’è più riflessività riguardo il ruolo dell’osservatore; sono ampiamente riconosciute le relazioni interdipendenti e i limiti all’applicazione del pensiero di tipo medico e alle aree al di là dell’ingegneria. (vedi Capra. 1982, per una discussione iniziale di ciò che egli chiama “la cultura nascente”).

Nello specifico, come il quadro della vecchia epistemologia comincia a sciogliersi, e l’intero clima intellettuale e culturale continua a spostarsi, possiamo aspettarci cambiamenti nella pratica psichiatrica convenzionale così come nella larga parte della terapia derivante dalla psico-analisi.

Immagino che la tendenza di alcuni a reinventare la terapia della Gestalt continuerà. Altri si uniranno al treno su cui hanno viaggiato i terapeuti della Gestalt per molti anni.

Quello che sto dicendo è che molte delle assunzioni e delle credenze di lavoro intrinseche alla Terapia della Gestalt, come olismo, autoregolazione organismica e centralità sul presente, tutti tessuti insieme nella prospettiva della Teoria del Campo, sono stati scoperti in modo indipendente quindi il pensiero di persone come Lewin può essere riconosciuto per essere stato in anticipo sui tempi. Il movimento della Gestalt gioca un importante ruolo nell’emergere di una nuova era.

La Teoria del Campo in Pratica

In questa visione della Teoria del Campo, ho cercato di trasmettere che si tratta di una prospettiva di ampio respiro e utile. Fin qui le mie osservazioni sono state generali. Ora è il momento di essere più specifico.

Dopo aver discusso la teoria di campo come una prospettiva per la terapia della Gestalt, dobbiamo in primo luogo considerare quanto la visione del “sé” sia compatibile con questa prospettiva. Da lì dovrò discutere l’idea della co-creazione di un campo composta da due partiti o due sé, e questo porterà naturalmente a una discussione della relazione terapeutica tra due persone.

Secondo Pearls, Hefferline e Goodman (1973), il sè è “il sistema di contatti in ogni momento … il sè è il confine di contatto a lavoro. La sua attività è la formazione di figure e motivi” (pag. 281).

Joel Latner (1986) fa riferimento al sè come “la nostra essenza, (il sè) è il processo di valutazione delle possibilità in campo, le integra e le porta a compimento seguendo i bisogni dell’organismo … il sè è funzione del suo completamento … il sè siamo noi nel processo” (p. 38-39). E l’affermazione di Goodman di nuovo il “sè è l’integratore … l’artista della vita” (Perls, et. al. 282).

Forse la migliore descrizione fenomenologica del sè che ho sentito è da attribuire a Sonia Nevis: “Il sè è la massa fremente del nostro potenziale”.

Hunter Beaumont (1990) ha suggerito che sarebbe di enorme aiuto se assumessimo la pratica tedesca e usassimo la parola “gestalt” non solo come nome e aggettivo ma anche come verbo. Quindi,(to Gestalt)rappresentare qualcosa, creare, cospargere in un insieme modellato per mettere qualcosa all’interno della configurazione. Intendo seguire questa pratica e usare la gestalt come un verbo e non come un nome. Usando il linguaggio della teoria del campo, sono nuovamente in debito con Hunter Beaumont per questo, possiamo pensare al sè come quella parte che costella il campo. Questa è una diversa definizione del sè, ma compatibile con altre date. Come inquadro la realtà in un dato momento? Come organizzo la mia vita nello spazio? Come organizzo la mia esperienza?

Faccio queste considerazioni o organizzazioni (o configurazioni) sul campo in accordo ai particolari significati, un processo personale nel quale certe parti della mia totale esperienza diventano figurali e altre parti sono organizzate intorno a loro, come uno sfondo.

E questo processo può essere costruito come il sè sul lavoro, nella frase di Lather, “noi nel processo”. Il sè è perciò (come nella teoria della Gestalt del sè) definitivamente un processo e non un entità mentale astratta e statica; fornisce una modalità di descrizione in corso, evolvendo e trasformando il processo nel quale siamo continuamente impegnati, configurando l’esperienza del campo o scegliendo la nostra realtà.

Due Persone, Due Sè

Che cosa succede quando ci sono due persone, che sono in relazione tra loro ed entrambi cospargono i loro campi contemporaneamente? Invece di pensare solo ai due campi fenomenici separati, riconosciamo che quando due persone conversano oppure instaurano rapporti con gli altri, in qualche modo, qualcosa inizia a esistere, che non è un prodotto esclusivo di nessuno di essi. Ciò che accade tra loro è una funzione di entrambi insieme. Si tratta di una realtà co-creata (Beaumont 1990) che include potenzialmente tutto ciò che è nei campi esperienziali o negli spazi vitali di ciascuno dei due partecipanti, anche se non è semplicemente una serie di esperienze cumulabili. Piuttosto c’è un campo condiviso, un posto comunicativo comune che è costruito reciprocamente. Come è posta in essere questa realtà condivisa?

Bene, se due persone si siedono in silenzio a guardarsi l’un l’altro, come avviene in molte sale d’attesa dei dentisti, lo spazio tra di loro rimarrà indifferenziato e informe e ci sarà molto poco di realtà condivisa. Nella migliore delle ipotesi lo spazio sarà riempito con proiezioni varie e supposizioni, ipotesi non verificate e stereotipi non riconosciuti. Se c’è qualche contatto visivo, se ci sono scambi di parole o espressioni facciali fatte tra loro, se ci sono gli inizi di comunicazione e di collegamento, lo spazio tra di loro inizia a prendere vita.

In uno dei colloqui di Fritz Perls (1969) egli dice: “Cominciamo a capire che le persone … possono comunicare con l’altro … con la creazione di quello che lui chiama il Mitwelt, il mondo comune che si ha con l’altra persona. Continua: si nota che se le persone si incontrano, iniziano la mossa di incontro, uno dice, ‘Come stai? E’ bel tempo’.” E l’altro interlocutore risponde qualcos’altro. Così vanno in ricerca degli interessi comuni, o il mondo comune, dove hanno … la comunicazione e lo stare insieme, dove si ottiene all’improvviso dall’Io il Tu il Noi. Quindi c’è un nuovo fenomeno che sta avvenendo, il Noi che è diverso dall’Io e Te. Il ‘Noi’ … è un confine in continua evoluzione in cui due persone si incontrano. E quando ci incontriamo lì, poi io cambio e tu cambi, attraverso il processo di incontro con l’altro (ibid. pp 6-7). Oppure, per citare Carl Hodges (1990), “Il contatto organizza il campo”, e la realtà condivisa, il rapporto, comincia a prendere forma.

Possiamo usare l’analogia della danza: due ballerini si incontrano: entrambi hanno a disposizione (potenzialmente) tutta la loro precedente esperienza di ballo acquisita nel corso della loro vita, probabilmente, compresa l’esposizione a differenti prospettive e insegnamenti, e ogni ballerino ha un repertorio di sequenze preferite, movimenti, ritmi, o passi di danza. A uno potrebbe piacere di saltare molto in aria, all’altro di muoversi molto lentamente, a uno potrebbe piacer lavorare a terra, l’altro di continuare a muoversi a tutti i costi. Essi creano una danza insieme, che è un prodotto di due creatività, e delle qualità gestalt della loro danza, e come osservatori di essa, la nostra soddisfazione estetica, dipenderà dalla qualità della loro interazione e dal loro collegamento. Quando cominciano, il loro campo condiviso o la realtà comune è informe e indifferenziato. Con il contatto, con l’impegno o l’interazione, il campo inizia a strutturarsi. Bastano questi piccoli passi per stabilire il record.

E’ un po’ come il pittore espressionista astratto che mette una macchia di vernice in mezzo alla tela vuota. Questa comincia a strutturare il campo, comincia ad organizzare quella particolare realtà. La seconda applicazione di vernice deve essere in relazione alla prima. E come il pittore aggiunge nuove chiazze, le opportunità di fare qualcosa di totalmente diverso diventano più difficili. Ci sono meno gradi di libertà. Il campo è diventato forma, è stato raffigurato.

Come un campo diventa progressivamente più differenziato, più organizzato, più strutturato, l’inevitabile svolta si verifica quando il campo stesso, per così dire, comincia a determinare cosa succede dopo, le possibilità creative per il pittore, il ballerino, le parti di una relazione, sono ora dipendenti in parte di ciò che è accaduto prima. Il principio si applica ampiamente: modelliamo la nostra vita, i nostri atteggiamenti, le nostre case, le nostre carriere, i nostri personaggi, le nostre organizzazioni, e, a sua volta essi arrivano a modellare noi. Più è fissata la configurazione del campo in qualsiasi momento, più difficile diventa sciogliere il modello esistente o di fare qualcosa di completamente nuovo o fuori di esso. Sappiamo tutti che il potere del precedente, dell’abitudine, e di ripetizione, e le difficoltà e anche il terrore, possono partecipare al processo di disfare la configurazione fissa, il gestalt fisso. Così il sé è la funzione gestalt, la creazione del nostro spazio vitale individuale nel momento, la costruzione della nostra realtà personale. Due individui, relativamente liberi da nevrosi, possono avvicinarsi alla creazione di una realtà condivisa con un sacco di creatività disponibili. La danza, la gestalt co-creata, può essere divertente, si può giocare.

Supponiamo, tuttavia, che una o entrambe le parti di questa attività abbiano modi particolarmente stereotipati in cui configurano il proprio campo, a tal punto che il processo di formazione gestalt o la costellazione stessa è diventato fisso, che cosa succede allora? Supponiamo che un uomo si avvicini a una donna piuttosto come se avesse una benda agli occhi, forse questo particolare spettacolo distorce quello che determinano il modo di riguardare le sue donne per quanto riguarda le assomiglianze con sua madre o di un ex insegnante di scuola, (eventi molto rari, come sappiamo!). In tali casi si sta introducendo nel mutuo campo co-creato un elemento significativo di inflessibilità. (Un altro modo, più familiare di mappare il processo sarebbe parlare che vi sia un disturbo al confine di contatto, quello per la proiezione). Per rimanere nell’analogia della danza, quando il processo di contatto è disturbato da una delle parti, in questo modo la danza dei due ballerini è inevitabilmente compromessa. Quindi supponiamo che ogni volta che lei balla in un modo particolare oppure ha una determinata espressione, lui lo percepisce, perché tramite la sua proiezione, lui fissa il modo della configurazione, diventa cruciale, oppure bisognoso, oppure flirta, o qualsiasi sia il senso generale, lui lo sta facendo, lui può ballare con lei, come se lei fosse cruciale, oppure bisognosa, oppure flirta indipendentemente da cioè che la sua esperienza è in realtà, oppure come si sta configurando la sua realtà nell’essere con lui. Ballando con lei, in questo particolar modo, egli si muoverà, percepirà e reagirà in modi che diventano con la sua particolare configurazione del campo, modi diversi rispetto a quell’altro modo che percepisce lei, come più creativo, più forte e aggressivo. Essendo che la realtà della danza di lui è disciplinata in parte da come sta ballando con lei, la sua danza sarà naturalmente influenzata. La danza, l’evento comune, sarà polarizzato in una direzione dove sarà fisso e stereotipato, solo se una parte di essa si configurerà nel campo di lui o di lei in modo auto-illimitanto.

[segue la IV Parte]

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