Autore: Malcom Partlett

The British Gestalt Journal, 1991, 1, 68-91 – Traduzione di Desantila Tusha

 

Aiutiamo a creare altre realtà

L’idea, che attraverso la creazione di un campo reciproco nel quale ognuno di noi aiuta a creare altre realtà, è quella di riflettere. Questo ovviamente ha significato per cosa facciamo come pratica psicoterapeuta. Inoltre solleva ampie questioni sul fare della pratica un bene comune.

In una recente edizione del The Gestalt Journal, Raymond Saner (1989) commenta a proposito del bias culturale della Gestalt, in un articolo egli si riferisce a una “Terapia della Gestalt Made-in-USA”. Egli si riferisce al particolare bias dell’esagerato individualismo “una super valutazione dell’aver cura della propria identità individuale e dell’indipendenza emozionale”, e quello che chiama cambiamento “calcolato” con le organizzazioni. Al contrario ci sono state sottovalutazioni dei poli opposti, del prendersi cura della comunità o l’ambiente, di una coscienza di noi, di un riconoscimento di una nostra dipendenza personale sulle organizzazioni e del nostro coinvolgimento morale con esse. Saner, in questo importante scritto, sottolinea il bisogno di una correzione, lontano da ciò che Beaumont ha chiamato “Io sono chi sono e se non ti piace, vaffanculo” ideologia che ha caratterizzato qualche terapia e scritti della Gestalt.

L’assunto di Saner è che molti membri del movimento della terapia della Gestalt americana abbiano sovrasottolineato l’IO poichè essi erano inconsapevoli della loro predisposizione culturale verso l’individualismo assieme al suo corollario, avversione o evitamento dell’intimità duratura del NOI (1989, p. 59). (Naturalmente, confinare questo pregiudizio culturale verso gli Stati Uniti potrebbe essere troppo restrittivo. Inoltre, ci sono altre possibilità: per esempio che il pregiudizio individualista potrebbe essere stato una conseguenza dello stile proprio di Fritz Perls ‘, Yontef 1991)

Saner sostiene che è in parte a causa di questo pregiudizio culturale che il lavoro e la teoria del campo di Lewin non è stato adeguatamente assimilato nella teoria della terapia della Gestalt. L’assunzione della prospettiva della teoria del campo evidenzia interconnessione, mutualità, e co-influenza. Citando Lewin, “(L’interazione umana è)… tanto una funzione della persona come la persona è una funzione della situazione”. Saner va avanti: “la situazione terapeutica è caratterizzata dall’interazione tra terapista e paziente e si co-influenzano simultaneamente l’uno con l’altro, continuamente e consistentemente” (1989, p.61).

Questa frase rinforza il punto fatto all’inizio di questa sezione, ovvero che aiutiamo a creare altre realtà attraverso la creazione di un campo reciproco. Le sue implicazioni sono molte e sono radicali per la pratica psicoterapeutica in generale. Così, ogni suggerimento che il terapeuta può agire più o meno come se fosse un osservatore obiettivo, lo rende “semplicemente” un interprete di ciò che sta accadendo in terapia, senza essere un partecipante a pieno titolo e diventando altamente sospettoso.

Ricordo molti anni fa di essere stato intervistato da un sociologo che si vantava di come “scientifica” e “oggettiva” fosse. Mi fece domande quanto più vicino possibile a un monotono robotico e non  mostrò alcun sfarfallio di espressione quando gli risposi. Lei non ha voluto “introdurre bias” o “influenzare la mia risposta in un senso o nell’altro.” L’effetto è stato che ero completamente prosciugato. Non vi è alcuna intervista o intervistatore a prova, e da una prospettiva della teoria di campo non ci può essere. Il mio intervistatore è stata murato nella vecchia epistemologia e operava ancora con i suoi presupposti imperfetti circa l’obiettività e la scienza senza valori. Allo stesso modo, direi, i tentativi da psicoanalisti di “anello di recinzione” (per usare un termine bancario), l’intera relazione terapeutica, la definizione dei confini in modo inflessibile che, per esempio, non vi è alcuna parola se si urtano l’un l’altro per la strada, e neanche un self-disclosure da parte del terapeuta, tranne in circostanze estreme, sono altrettanto assurdi come il tentativo del sociologo per mantenere se stesso per non influenzare me.

Il paziente dell’analista, rispondendo al campo totale, di tutte le circostanze, non può che essere influenzato da loro, “non parlare”, è quindi significativo come un messaggio, come si parla e se in modo più naturale. Questo non vuole implicare che i confini non sono importanti, aiutano a strutturare il campo di mutuo in modo che possano offrire sicurezza e costruire la fiducia. Ma un caso potrebbe essere fatto che l’analista ipotetico in queste circostanze, seguendo una prospettiva teorica che oggettiva il paziente e ignora le condizioni del campo di terapia, agisce fuori con una forma di mancanza di rispetto fondamentale, a distanza di modellazione, artificialità, e inautenticità.

Ignorando l’ovvio

Prima di rivolgere tutte le critiche al di fuori, c’è una tendenza a paragonare alcuni terapisti Gestalt ai formatori. Probabilmente tutti noi a volte, riduciamo certi aspetti della situazione totale in cui siamo coinvolti, sull’ipotesi “come si fa si fa non importa”.

Nel momento in cui facciamo questo, ignoriamo quello che io chiamo il Principio della Rilevanza Possibile e questo mostra che non abbiamo pienamente assimilato la prospettiva della teoria del campo.

Nella nostra storia collettiva, ci sono molti esempi di elusione di fattori significanti nella situazione complessiva. Negli anni ’60 non era risaputo che alcuni trainers avevano relazioni sessuali con diversi membri del gruppo durante il corso dei gruppi di formazione, questo era noto tra i membri del gruppo e tuttavia mai effettivamente indirizzato, riconosciuto, e discusso nel gruppo stesso. Io non ho voluto minimizzare le questioni etniche, né i potenziali effetti avversi del coinvolgimento delle donne, in tali pratiche.

Ma per il momento voglio semplicemente segnalare l’assurdità della credenza che imbattersi in tale incoscienza non influenzi la complessità e la reciproca realtà creata nella vita di un gruppo, in modi molto significativi. Ciò che ho sentito, dai membri di tale gruppo; e non sorprende, è che il gruppo era sentito come insano, come un ambiente angosciante. (Vediamo qui il trionfo dell’individualità sulla comunità, di fronte alla lampante inosservanza per gli effetti più ampi nella comunità di seguire un programma privato. Come ben sappiamo, le azioni individuali raramente non hanno ampie conseguenze e fluttuanti effetti che influenzano altri nella loro famiglia, gruppo o comunità.)

Un altro esempio di trascuranza degli aspetti della situazione complessiva si riferiscono alla continua e diffusa persistenza, entro molta parte della terapia Gestalt, a perseguire uno stile dirigenziale di gruppo in cui il processo di lavoro di gruppo viene deliberatamente escluso. Invece, il trainer o i terapisti lavorano sequenzialmente con i singoli membri del gruppo e non c’è molto tempo dato a indirizzare cosa è successo contemporaneamente nella vita del gruppo come un intero. Ci sono trainer che apertamente riconoscono che le questioni dei processi di gruppo sono importanti e ancora non le affrontano. D’altra parte, in queste situazioni, è come se qualche settore è considerato semplicemente come “dato”, dato per concesso ed assunto essere irrilevante o almeno non abbastanza importante a perder tempo esaminandolo. Questo mi ricorda il medico specialista che sostiene che la forma di trattamento medico stesso è ciò che è importante rispetto ad altri aspetti della realtà del paziente, altre parti del campo complessivo come il contesto ospedaliero, o l’atteggiamento dei medici, o la mensa, sono delle piccole attinenze dei progressi del paziente e non vale la pena prestargli molta attenzione, ad alcuni forse ma non troppo.

Ancora la teoria del campo ci ricorda, primo, che le persone sono influenzate dall’esperienza complessiva, dall’intero contesto dell’attività e dall’attività stessa; e, secondo, che la reazione complessiva delle persone è di tutta la realtà e non è un aspetto frammentario di questo.

Il concetto di campo unificato significa che  tutte le varie influenze interdipendenti si collocano insieme: le persone rispondono ad un campo unificato, non a caratteristiche isolate o a separati fattori; questi sono, sostanzialmente, solo concezioni. Perciò è con i gruppi, la pubblicità, il metodo di selezione, la stanza in cui è trattenuto, le relazioni di guida di un altro, il confine stabilito, i commenti aperti, la storia collettiva percepita del gruppo, tutto questo può  (e fa) talvolta influenzare le vite complessive dei gruppi, non come una singola unica influenza ma come una parte interdipendente dell’intero. Se la prospettiva della teoria del campo è stata completamente compresa e integrata nella pratica, allora tutti gli aspetti della situazione generale sono aperti, come dove, ad esami minuziosi ed esperimenti.

Il campo terapeutico

Come individui, che sono anche inevitabilmente in relazioni e comunità di un tipo o di un altro, facciamo esperienza di un processo a doppio senso: abbiamo effetti sulle nostre relazioni e la comunità e siamo anche influenzati da questi. Aiutiamo a creare o organizzare la reciproca realtà o un campo condiviso e a turno sono creati e organizzati da questo. La reciproca influenza di questo tipo, come abbiamo visto, ha implicazioni importanti per la pratica professionale. Un’idea particolarmente provocatoria per i terapisti segue dalla nozione di reciproca influenza, ossia che il cambiamento nel cliente può essere ottenuto dal terapista cambiando se stesso o se stessa.

Poiché è un campo co-creato, è in funzione a cosa il terapista e cosa il cliente porta, un cambiamento nel modo in cui il terapeuta agisce o si sente verso il suo cliente e inter-relaziona con lui influenzerà il campo reciproco e le conseguenze del cliente. L’entità di cosa è possibile stimare tramite questo percorso è ovviamente difficile. Ma è fortemente sostenuta l’idea che nell’impeccabile pratica della terapia Gestalt ci deve essere un posto centrale per una continua supervisione, come un’attenzione giornaliera alla propria idoneità ad esercitare.

Più generalmente, l’implicazione è che nell’ordine di diventare un buon terapeuta, abbiamo bisogno di essere più evoluti, non semplicemente per essere più consapevoli, e nemmeno per essere più consapevoli del nostro modello di divenire consapevole nel tempo, ma consentendo quello che Yontef (1988, p. 31) chiama un fondamentale “attitudine fenomenologica che permea la vita comune”,  efficacemente come un modo di essere-nel-mondo.

In questo senso, vorrei spiegare, la terapia Gestalt non è qualcosa che usiamo semplicemente, come un vestito che temporaneamente metto e dopo tolgo. Non è solo un insieme di tecniche, né è qualche tipo di equipaggiamento terapeutico che ruota su un particolare scopo clinico e che sostituisce un altro tipo di equipaggiamento poco dopo per un altro scopo. Se scegliamo di lavorare con la disciplina Gestalt, troviamo il modo di valutare e rendersi conto che caratterizza il filtro attraverso la nostra vita e relazioni. Se dobbiamo agire congruentemente e autenticamente come terapeuti, dobbiamo riconoscere che il nostro modo di essere ed il modo in cui viviamo non può essere interamente separato dal nostro lavoro come professionisti. Tutto nel nostro campo fenomenologico diventa parte della matrice con la quale ricostruiamo parti con gli altri. Quando c’è chiarezza del nostro campo presente, un minimo di distrazione dal lavoro incompiuto, e un buon auto supporto, maggiore è la probabilità che la nostra danza creativa e la nostra centralità siano disponibili nelle nostre interazioni con gli atri.

La danza terapeutica

Riflettendo un’altra implicazione importante della Teoria del campo, già sfiorata, si riferisce a come la funzione gestalitica stessa può diventare stereotipata: il campo di un individuo o di un gruppo può essere configurato in una maniera fissa, familiare, eppure può essere auto distruttiva. Un esempio potrebbe essere quando un cliente individuale può essere tentato a costruire il campo condiviso o la situazione complessiva in un modo o nell’altro, il terapista, si adatta alle sue aspettative stereotipate, si adatta al programma, si adatta al taglio che i cliente vuole creare.

Se io sono il terapeuta, ho bisogno, di conseguenza, di essere informato (consapevole) di cosa accade, e riconoscere a quale “danza” sono invitato a partecipare. Ammesso che possa accorgermi di quello che succede, posso scegliere come rispondo – se piegarsi o star fermo, commentare o no, declinare elegantemente o accettare per il momento il ruolo che mi viene chiesto di giocare.

Naturalmente, la realtà del cliente cambia costantemente: non c’è una configurazione del campo proposto, per così dire, il campo viene costantemente ri-configurato. Ci possono essere molte danze differenti.

Nel corso di un’ora di incontro la persona può essere un giovane, un bambino lamentoso, un manager oppresso che ri-costruisce la situazione di lavoro, un adolescente forte che ricorda quando ha lasciato casa, o qualcuno che negozia con  il terapista riguardo date e prezzi della vacanza. Queste diverse rappresentazioni del campo rappresentano diversi modi di essere: coinvolgendo forse spostamenti nella posizione corporea della persona, nella voce, modelli di pensiero, ed il modo di relazionarsi a me, come terapeuta; tutto questo può cambiare con ciascuna delle diverse “sequenze di ballo”.

Ho bisogno di riconoscere questi spostamenti ed anche il fatto che sto assistendo a cambiamenti del sé.

Questi diversi stati di essere corrispondono in molti modi a stati dell’Io in analisi transazionale o a sub-personalità in Psicosintesi (Rowan, 1990). Il punto è che con ogni tipo di danza, con ogni modo di configurare il campo, la realtà che è offerta dall’individuo e che include me come terapeuta, è chiamata per la mia adozione di una parte diversa di me stesso (Beaumont, 1990). Quindi, posso essere, per così dire, creato come un “persecutore” da qualcuno che ha un modo paranoico di ricoprire il proprio campo come un “potenziale assistente” , oppure come un “esperto che mi dica come fare”. Certamente, se sono consapevole di quello che succede. Avrò più probabilità di evitare l’influenza nel ricoprire il mio campo nel modo da me previsto. Petruska Clarkson (1989) lo disse ad una precedente conferenza Gestalt sulle differenti relazioni che possono verificarsi in terapia. Le descrive in termini di archetipi familiari. Per esempio, come terapeuta, posso essere un nonno, o posso rapportarmi al mio cliente come fosse un fratello, o in un modo paterno o materno. Questi sono alcuni dei modi in cui posso essere. L’implicazione che sto disegnando è che ognuna di queste rappresenta diverse rappresentazioni del campo in cui, dentro o fuori dalla consapevolezza io co-costruisco con il mio cliente.

Quindi se faccio parte del cast, ho un ruolo, dove gioco la parte di ascoltatore del paziente, o di confrontatore, di limitatore, o di presenza solidale, sono indissolubilmente parte della danza, parte del campo co-creato, la casa interpersonale comune.

Osservazioni conclusive

Oggi abbiamo esaminato alcune delle mappe che si riferiscono alla teoria del campo, tentando di mostrarvi che la terapia della Gestalt è radicata nelle prospettive particolari che caratterizzano la teoria del campo. Quanto più è fatta questa connessione, più la terapia della Gestalt sarà vista come una vera terapia contestuale. In particolare mi sono concentrato su come prendersi cura di “entrambi” nelle relazioni,  la co-influenza, la natura interattiva della danza tra le persone, che può farci vedere il lavoro terapeutico in una nuova luce.

In questa sessione finale, voglio focalizzarmi su alcuni temi che vanno anche oltre la questione di come possiamo influenzare gli altri ed essere influenzati da loro. Così facendo sto affrontando problemi che raramente sono  affrontati dalla terapia Gestalt ma a mio avviso necessitano di esserlo. Molti possono essere equamente e facilmente incorporati dalla teoria del campo pensati come descritto in precedenza. Altri, invece, pur trattando il “tra”, vanno oltre i regni di pensiero convenzionale, e abbracciano “il margine” delle preoccupazioni di una specie che viene regolarmente e casualmente respinta da istituti medici e scientifici. Io credo che i Gestaltici hanno bisogno di essere aperti all’area di inchiesta in cui approfondire in fenomeni che sono stati spesso notati e riportati in aneddoti ma che capita di cadere al di fuori del settore di scienza “rispettabile” o almeno non sembrano avere una semplice spiegazione.

Vi faccio alcuni esempi.

Primo, sono spesso colpito dall’affermarsi di realtà e processi paralleli.

Per esempio, in supervisione molto spesso succede, che quello che accade nella situazione terapeutica in discussione viene revocato e giocato nella sessione di supervisione. Quindi il terapeuta/supervisione può essere ingiustificatamente passivo vis-a-vis con il proprio paziente  e improvvisamente il supervisore diventa consapevole della propria risposta passiva al supervisionato.

Molti fenomeni son ben conosciuti e molto spesso sono attribuiti a “processi inconsci” da coloro che parlano di inconscio. Ma come la terapia della Gestalt tratta questo parallelismo? Sembra possibile pensare al campo co-prodotto sempre configurato in un certo schema, e questo viene trasferito in un’altra posizione/periodo, forse (in supervisione) essendo caratteristiche comuni delle due situazioni. Questo è, certamente, non solo una spiegazione che si riferisce all’inconscio, ma può fornire un punto di partenza descrittivo più fruttuoso. Possiamo vedere questo, in miniatura, lo stesso processo, che coinvolge il trasferimento completo di configurazioni-campo, come si può verificare quando le competenze, le attitudini, e mode diffuse velocemente in tutto il mondo, o quando un’ “atmosfera” in un’organizzazione si comunica molto rapidamente ovunque (vedi nota 1).

In secondo luogo, vi è il fenomeno per cui nel corso di un determinato periodo di tempo, ad esempio nel corso di una settimana, i pazienti sembrano tutti sollevare problemi simili che capita di essere gli stessi con cui il terapeuta è anche attualmente interessato nella sua vita.

Nel momento in cui un mio familiare stava morendo di cancro, c’erano molti riferimenti al cancro nei miei pazienti che ho perso ogni senso di sorpresa, quasi mi aspettavo che i pazienti parlassero di cancro, o riportassero di conoscere qualcuno, e lo hanno fatto, molto più di quanto mi sarei potuto aspettare dal caso, e senza alcun sollecito da parte mia. Ma posso aver “suggerito” loro di parlare di cancro? C’era qualche sottile configurazione reciproca del campo reciproco in cui ero io stesso implicato, che ha portato ad una maggiore probabilità di evocare certe questioni? Influenziamo gli altri intorno a noi circa quello che stiamo pensando? Difficile tuttavia questi problemi sono alla ricerca, che meritano di essere attentamente esaminati, da altri metodi usuali di ricerca (per esempio inchieste co-operative, Reason, 1989).

Terzo, ci sono spesso riferimenti informali, come fanno i bambini piccoli, specialmente nella fase pre-verbale, che possono “prendere” il tono emotivo e sentimenti impliciti dei loro genitori e della vita a casa. Sicuramente ciò che è accaduto qui è un pò come “reazione sensoriale / sensazione generale”, come la qualità olistica del campo totale. (vedi nota 2).

Eppure quanta poca indagine è stata fatta, su molti fenomeni. Altrettanto, gettando la rete più lontana, ci sono numerosi riferimenti aneddotici di animali che prevedono il pericolo prima che questi arrivi. Molti fenomeni possono non essere capiti, essi non sono, almeno in qualsiasi modo tradizionale, ma riconoscendo la piena portata di interazioni organismo/ambiente, e gli straordinari numeri di modi in cui siamo influenzati dal nostro ambiente, forse dovremmo come praticanti della teoria del campo, almeno essere curiosi, e più aperti ad esaminare questi fenomeni.

Gli scritti di Jung, per esempio in sincronismo (per esempio, Jung, 1952), parla dei vari modi di esperienza, e, senza smettere radicamento globale della tradizione Gestalt, i terapeuti Gestalt dovrebbero diventare più aperti a parlare e documentarsi su molti di questi fenomeni.

Quarto, più direttamente evocativo della teoria del campo, con la sua metafora scientifica di “campo di forze” fisiche, ha suggerito che esistono attualmente campi elettromagnetici e di energia tra esseri umani; ci sono quelli che affermano di poterne vedere l’aurea; e agopunturisti,  specialisti shiatsu, e medici complementari di diversi tipi prendono molto sul serio la nozione di flusso di energia e il potere di guarigione di un’altra persona. Non ci allontaneremo dalla controversia tra medicina complementare e ortodossa (Fulder, 1988; Staeker and Gilmour, 1989) ma semplicemente diremo che la questione degli effetti di un essere umano su un altro, forma una parte del dibattito.

In seguito a questo, ho il sospetto che molti possono aver avuto l’esperienza di essere fortemente influenzati semplicemente essendo in presenza di una persona con una conoscenza altamente sviluppata, forse un maestro spirituale o qualcuno che medita semplicemente un grande affare.

E questo solleva la questione della nostra presenza, come terapeuti. Talvolta penso che la più importante funzione che abbiamo come terapisti è quella di essere completamente presenti, essere chiari, essere “tutti lì”, di partecipare pienamente con una coscienza sgombra. Anche se il cliente non è in contatto con me o con il proprio processo, posso quantomeno rimanere in contatto con lui  e con il mio bisogno, le mie sensazioni e i miei pensieri.

Presumibilmente, semplicemente essendo pienamente presenti, stiamo già aiutando a costellare il campo reciproco in un modo di vita migliore. Ed essere “completamente presenti e senz’altro un altro modo per parlare della”, presenza.

Joseph Zinker (1987) ha scritto sulla presenza e sono impressionato da quello che dice. Io dunque concluderò citandolo molto spesso.

La presenza (lui scrive) allude che speciali modi di essere completamente qui con tutto sé stesso, il proprio corpo e anima, é un modo di essere con senza fare per. La presenza implica essere qui pienamente, aperto a tutte le possibilità…

La presenza del terapeuta è terreno contro cui la figura di un atro sé può fiorire, illuminare spiccando pienamente e chiaramente. Per il cliente, per un altro, “l’essere-qui-intrinseco del terapeuta stimola emozioni nelle parti più profonde del proprio io”.

Prosegue: quando faccio esperienza di un’altra presenza, mi sento libero di esprimere me stesso. Essere me stesso rivela ogni parte delicata, vulnerabile, fiducioso che saranno ricevute senza giudizi o valutazioni. La mia presenza terapeutica mi permette di combattere con i miei conflitti interni, contraddizioni, questioni problematiche, paradossi; senza sentirsi distratto da dichiarazioni iniziali o discussioni eccessivamente determinate.

La mia presenza terapeutica mi permette di confrontarmi con me stesso, sapendo che ho un saggio testimone.

Zinker continua a dire ciò che la presenza non è. La presenza non è un atteggiamento o un modo di scatto auto-cosciente impettito prima di un altro. La presenza non è uno stile. La presenza non è carisma. Il carisma richiede attenzioni, ammirazione. Il carisma chiama a sé, mentre la presenza “chiama agli altri”. Il carisma è una figura in competizione con le altre, mentre la presenza è suolo che “chiede di essere scritto”. La presenza non è umiltà religiosa (ma è in realtà una forma segreta di un orgoglio pieno). La presenza non è polemica, non si schiera, vede tutto. La presenza non compete. La presenza non è appariscente o teatrale. E concludendo, Zinker discusse lo sviluppo della presenza. Talvolta, scrive, i terapeuti sono apparsi semplicemente come se abbiano sempre avuto la presenza. Sembra che siano nati in questo modo. (Tuttavia) molte persone acquisiscono la presenza attraverso il continuo martellamento nel tempo, tempo che ricorda loro ancora e ancora quanto c’è ancora da imparare e quanto poco sanno.  La presenza è uno stato acquisito di stupore di fronte ad un meraviglioso universo infinitamente complesso.

Note

1. Per i lettori che hanno difficoltà con le idee biologiche rivoluzionarie di Rupert Sheldrake (1987), che coinvolge “la risonanza morfica”, ci sono molte sovrapposizioni affascinanti con il pensiero della teoria del campo, inclusi i fenomeni qui menzionati, di transfer di pattern complessi di comportamento e di esperienza.

2. Molte evidenze che i bambini piccoli rispondano a qualità olistiche del campo complessivo sono emerse entro un progetto di ricerca a piccola-scala, diretto dall’autore, che sta indagando gli effetti a lungo termine di aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale come bambino. Sembra che, mentre in alcuni memorie “consce” possono essere disponibili per l’adulto che guarda indietro, possono esserci ricordi “preconsci” di esperienze originali della situazione in tempo di guerra, nella forma di stati emotivi diffusi e non specifici. Può anche darsi che sia la madre che il bambino abbiano avuto simili reazioni a livello emotivo condividendo la condizione del campo nel tempo, incluse l’atmosfera ed il clima pubblico in quel momento della storia, ma che mentre la madre può avere ogni sorta di modo per affrontarle e auto-gestirle, il bambino non le ha e semplicemente risponde al clima predominante, costume, o atmosfera di guerra in cui è immerso. I primi risultati suggeriscono che la reazione provata da quelli nati in circostanze estreme analoghe (per esempio essere nati a Londra tra il 1940-1944) potrebbero essere sorprendentemente simili, insieme con gli effetti a lungo termine.

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