Autore: Dott.ssa Simona Saggiomo

 

Indice:

4. UNO SGUARDO AD ORIENTE

 

4.1    GLI ANIMALI

4.2    IL TAO

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

4.  UNO SGUARDO AD ORIENTE

Se pensiamo che Colombo sbarcò nelle Indie americane, non possiamo stupirci che anche l’India ha i propri Indiani, usanze e culture legate alla Natura e ad una visione spirituale della Vita.

Ho pensato di riprendere alcune tematiche amerinde e fare un confronto con quelle  orientali appunto, soprattutto per quanto concerne la concezione degli animali e il significato del cerchio.

 

4.1 GLI ANIMALI E IL LORO SIGNIFICATO

Anche in questo ambito il terreno è ampio e sembra non avere molti confini: religioni diverse esprimono posizioni differenti anche rispetto all’uso degli animali. A riguardo ho trovato un articolo della Psicologa Anna Maria Manzoni, vegana e psicoterapeuta, su un suo viaggio in India, che bene riassume tali posizioni:
La costituzione indiana ha inserito tra i doveri fondamentali dei cittadini quello di “proteggere e migliorare l’ambiente naturale, e avere compassione per le creature viventi” in conformità con il concetto buddista e gandhiano di rispetto per tutti gli esseri, umani e non umani, capaci di sofferenza (Pocar, La Nuova Italia 2005). Che il riferimento alla compassione, alla necessità di soffrire insieme agli altri, uomini o animali che siano, sia materia contenuta in un contesto che stabilisce i fondamenti stessi dello stato e del vivere civile pone l’India ad una distanza abissale dal nostro modo di pensare occidentale, alla lontananza delle chimere. “Le cose umane ci hanno mostrato purtroppo che la compassione è bandita dalla legislazione della nostra società” (R. Wagner, Sulla vivisezione, ETS 2006). Questo riferimento è possibile grazie a convinzioni, che a loro volta derivano dalla cultura e dalle religioni che hanno forgiato l’essenza di questo subcontinente, che, a dispetto della disomogeneità dei suoi comportamenti, continua a mantenere oggi, nell’immaginario collettivo, una connotazione di spiritualità, capace di calamitare ancora molte aspettative.

Tra le religioni, quella più diffusa, che conseguentemente ne definisce più di ogni altra il profilo, è la religione induista, i cui seguaci sono l’85% circa di una popolazione, che ha ormai raggiunto un miliardo e 100mila individui: i loro comportamenti sono di fatto modellati in parte sui precetti religiosi, filosofici, esistenziali, che gravitano intorno ad un concetto di armonia con l’ordine naturale. Secondo l’induismo, infatti, l’uomo non può realizzare il Divino senza comprendere l’armonia che lega ciascuno a tutto ciò che è intorno; le sue azioni non dovrebbero alterare alcun equilibrio naturale e, di conseguenza, nell’utilizzare ciò che vi è nell’ambiente, è tenuto ad agire con parsimonia, perchè non gli appartiene.

L’atto quotidiano del nutrirsi non può prescindere da queste premesse e di conseguenza il vegetarianesimo, nel rispetto assicurato alla vita degli animali non umani, dovrebbe esserne il naturale corollario: esso non è però ingiunzione religiosa, ma piuttosto principio di non-violenza, l’ahimsa, sentito e accettato a livello personale, e riflette il dharma, l’adempimento al proprio dovere; è un modo di vivere attento a provocare solo il minimo e inevitabile danno agli altri esseri. Nei Veda, i testi sacri dell’Induismo, si possono leggere esortazioni a non consumare carne, perché “si diventa degni della salvezza quando non si uccide alcun essere vivente”: siccome il cibo animale implica l’atto di uccidere, è necessario astenersi dall’ingerire qualsiasi genere di carne. “Chi uccide gli animali non può provare piacere nel messaggio della verità assoluta”: l’uomo dovrebbe scorgere lo stesso principio della vita in tutti gli esseri viventi, non solo in quelli che condividono la sua specie.

E’ interessante il fatto che molte delle innumerevoli divinità induiste siano descritte con un’essenza in cui gli elementi umani e quelli animali sono fortemente intrecciati: Vishnu, il dio conservatore, che deve proteggere e tenere in ordine il mondo, viene raffigurato all’ombra di un serpente o seduto sulle sue spire. Il suo veicolo è Garuda, una creatura per metà uomo e per metà aquila. Vishnu , nel suo manifestarsi nove volte sulla terra, avrebbe incarnato, tra l’altro, un pesce, una testuggine, un cinghiale.

Shiva il distruttore è raffigurato avvolto da serpenti e protetto dal suo toro.
Ganesh è il dio dalla testa d’elefante ed è accompagnato dal suo veicolo, un topolino.
Hanuman è il grande dio-scimmia: quali sue rappresentanti, le scimmie trovano accoglienza nei templi a lui dedicati, sparsi per tutta l’India. Sarasvati, moglie di Brama, è raffigurata su un pavone.

Il culto di Khamdenu, la vacca sacra, descritta come madre degli dei, è incerto nelle origini: secondo alcuni miti Brama creò questo animale insieme ai bramini per fornire il ghee, il burro usato nelle cerimonie rituali.

Nella religione induista, quindi, tra esseri umani-divini e animali non vengono marcate distanze e separazioni, ma essi si contaminano nelle sembianze (Ganesh con la testa d’elefante), oppure sono i contenitori di una stessa divinità in epoche diverse (le reincarnazioni di Vishnu) o ancora convivono in un sodalizio di aiuto (i veicoli animali delle divinità); il dio scimmia e la vacca sacra poi sono divinità animali tout-court. La credenza nel karma, vale a dire nella legge di causalità per cui le azioni di una vita precedente determinano la vita futura, con la possibilità che un essere umano possa reincarnarsi in una forma animale (tra due reincarnazioni in un corpo umano ci sarebbero 8milioniquattrocentomila nascite non umane!), induce a vedere in ogni animale una potenziale essenza umana, sede di un’anima che sta scontando gli sbagli di una vita precedente; agli animali viene riconosciuta la capacità di raggiungere stati di spiritualità elevata come agli esseri umani.

A rompere l’incanto, tra le divinità induiste compare anche Durga, dea terribile e fiera, la cui più popolare manifestazione è la dea Kalì, che placa la sua rabbia e soddisfa la sua sete di sangue con i sacrifici animali che di fatto hanno luogo in tutti i templi a lei dedicati, presenti soprattutto sul territorio bengalese, nel nord-est del paese.

Nel comportamento quotidiano vengono riverberate le convinzioni di questa cultura che fonda la sua parte spirituale sulla commistione di elementi diversi : in India vi è sì una amplissima diffusione del vegetarianesimo, ma non tutti gli indù lo abbracciano: le abitudini alimentari sono determinate e risentono di svariati fattori, relativi all’appartenenza a determinate famiglie, comunità, correnti religiose, ma anche a cause climatiche e igieniche. Tradizionalmente la dieta vegetariana è riservata alle caste più alte, come marchio di distinzione sociale: quella del macellaio è una professione impura, perciò relegata a quegli indù che non appartengono a nessuna casta, i paria, che possono anche consumare la carne.

Le scelte sono determinate anche dalla preoccupazione per la difesa della salute e per il rispetto verso l’ambiente, nella convinzione che il vegetarianesimo sia uno degli argini a molti problemi biologici, ambientali e sociali. E di questi si fa carico il singolo con una scelta importante per la salute individuale, con i conseguenti benefici mentali e spirituali, e un forte impatto collettivo etico, ambientale, economico.

Il rifiuto della carne, quale espressione del principio della non violenza e del rispetto assoluto della vita, è tassativo invece per il jainismo (praticato solo dall’1% della popolazione), per il quale tutti gli esseri viventi, ma anche le pietre, i laghi, i fiumi e le città possiedono un’anima. Se i monaci spazzano i sentieri prima di camminare per non calpestare ragni e formiche di passaggio, i fedeli jain non possono allevare bestiame, cacciare o lavorare la terra, per non uccidere gli insetti che vivono nelle zolle. Entrare in un tempio jainista è un’esperienza particolare: bisogna depositare fuori dall’ingresso eventuali oggetti che portino con sé l’eco di una morte ingiusta e quindi cinture, portafogli o altro che contengano anche solo profili di pelle e poi lavarsi le mani prima di potervi accedere. Come sempre avviene, la portata di gesti simbolici sopravanza di gran lunga il gesto stesso e smuove contenuti ed emozioni ad esso collegati.

Presso le comunità ed i templi Jainisti, gli animali non devono temere per la propria incolumità; anzi, accanto ai templi si trovano spesso rifugi per animali anziani o feriti e centri veterinari, sovvenzionati dalle comunità dei laici.

A Nuova Delhi, per esempio, esiste un grande ospedale per gli uccelli il Jain Charity Birds Hospital, costruito nel 1929 accanto al Digamber Jain Temple: qui vengono curate migliaia di volatili, malati a causa di un inquinamento sempre crescente o feriti, spesso in conseguenza all’urto in aria con gli aquiloni, che soprattutto in concomitanza con alcune ricorrenze, contendono loro lo spazio di volo, o ancora per essere finiti tra le pale di un ventilatore : vengono curati, nutriti con una dieta vegetariana (persino le aquile: “si abituano”, dice un responsabile) e una volta guariti, anche se portati lì da un “proprietario”, viene data loro la libertà: quella della liberazione è esperienza che gli operatori descrivono di enorme impatto emotivo. All’entrata del secondo piano dell’ospedale, un dipinto tratto da un antico racconto, appartenente alla tradizione sia jainista che buddista, mostra un re, con un braccio e una gamba sanguinanti: lui stesso si è amputato mano e piede e li ha posti su un piatto della bilancia, mentre l’altro piatto è occupato da un uccello: il re pietoso dà la sua stessa carne e la sua stessa vita per salvare quella di un piccione.

Luoghi come questi sono passati indenni dalla mattanza che in gran parte del mondo ha fatto seguito alla paura dell’influenza aviaria: se un uomo soffrisse di HIV, voi lo uccidereste? chiede il creatore del più famoso website sul jainismo. Non di rado, i Jaina acquistano animali dai macelli per dare loro salvezza e ricovero.

Il vegetarianesimo è sostenuto come pratica imprescindibile anche dagli Hare Krishna: movimento nato in India e poi andato diffondendosi a partire dagli anni ’60 anche in occidente, che promuove un’ alimentazione che esclude qualsiasi tipo di carne, di pesce e di uova.

Per i devoti Hare Krishna, la nostra “violenza alimentare”, unita a tutte le altre forme di violenza, finisce per creare una grande ondata di karma negativi, che a sua volta produce un aumento dell’aggressività umana e quindi dei delitti compiuti in tutto il mondo. “Anche togliendo la vita ad una pianta”, spiega un portavoce degli Hare Krishna, “possono esserci reazioni karmiche negative, ma si provoca molto meno dolore che uccidendo animali, perché il sistema nervoso delle piante è assai meno sviluppato”.

Le loro teorie sono vicine a quelle di varie discipline esoteriche, secondo cui il vegetarianesimo è l’alimentazione ideale anche per raggiungere livelli elevati di sviluppo spirituale. Il teosofo americano C.W. Leadbeater, vissuto per molti anni nello Sri Lanka, impegnato a rinvigorire la diffusione del buddismo, nel saggio Vegetarianism and occultism (The Theosophical Publishing House 2001), sostiene che l’alimentazione vegetariana è l’unica che consenta un’indispensabile purificazione del corpo a chi si sforza di raggiungere la perfezione, e che l’alimentazione carnea, ottundendo la sensibilità, è anche di ostacolo allo sviluppo di percezioni extrasensoriali. I veri chiaroveggenti, afferma Leadbeater, devono essere tutti vegetariani. Il suo saggio, scritto alla fine del 1800, contiene argomentazioni assolutamente attuali e provocatorie (“Alle delicate signore che divorano bistecche che grondano sangue piacerebbe vedere i loro figli lavorare come macellai?”) , che inducono ad una sola amara riflessione sull’ essere ancora qui , più di un secolo dopo, impegnati nella stessa battaglia contro un esercito che nel frattempo si è ingrossato a dismisura.

In generale, le teorie esoteriche sostengono che cibarsi di carne risulta dannoso anche per chi intende praticare la meditazione, perché le energie negative che si assorbono quando si assimila la carne di animali brutalmente uccisi impediscono una perfetta armonizzazione delle proprie energie con quelle dell’universo. Non a caso tutti i grandi yogi indiani sono vegetariani.

I musulmani (oggi il 12 % della popolazione indiana) non si astengono dalla carne, se non, per motivi originariamente igienici, da quella del maiale: tradizionalmente si deve invocare il nome di Allah mentre si sgozzano gli animali. Per quanto riguarda gli animali cosiddetti d’affezione, in virtù della tradizione che vuole il gatto essere stato caro a Maometto, a questi felini viene dedicata attenzione e rispetto, ben diversamente da quanto succede per esempio ai cani, ritenuti sporchi e contrari all’Islam, che conducono vita grama sulle strade, allontanati a suon di sassi e destinati ad una faticosa sopravvivenza.

Il buddismo, oggi praticato in India da un’esigua minoranza di persone, in quanto religione della moderazione in qualunque campo della vita, alimentazione compresa, predica come regola l’astinenza dagli animali; al Buddha, all’Illuminato riformatore, ripugnavano tutte le uccisioni di animali come quelle di uomini, espressione le une e le altre di una civiltà fondata sul sangue. Egli sosteneva il concreto esercizio della compassione (karunā) per tutto ciò che vive e soffre, perché tutte le vite, quelle degli dèi, quelle degli uomini, quelle degli animali sono penose. “Non dobbiamo uccidere e neppure ordinare di uccidere”. Ogni vita, anche la più piccola, ha pari dignità.

Il monaco buddhista che, assetato, ha bevuto acqua in cui sapeva esserci piccoli esseri viventi, dovrà fare lunghe penitenze.Ciò detto, al fedele buddhista è comunque permessa la carne, in determinate circostanze, con la clausola che non bisogna aver partecipato all’uccisione dell’animale. Chi aspira alla liberazione deve “non procurare mai dolore alle altre creature”, “eccetto che in taluni luoghi sacri”, cioè in occasione dei sacrifici di animali.

I cristiani, ben lo sappiamo, non si astengono dal nutrirsi di qualsiasi tipo di carne e solo gli animali che assurgono al ruolo di pet, si salvano.

Certamente i ristoranti indiani tradizionali, di qualsiasi livello, sono un paradiso per i vegetariani occidentali, abituati in patria alla ricerca di rari ristoranti ad hoc o ad una metodica spunta di piatti in cui pare coattiva la spinta a rifinire e contaminare anche le pietanze più vegetali con qualche tocco carneo. In India, locali, locande, ristori e ristoranti sono in grande parte vegetariani ed offrono pane, riso, verdure, frutta; molto più raramente vegani in quanto diffuso è il latte cagliato (dhai) a volte impreziosito con menta e cetriolo (raita). Quanto più si alza il livello del locale, tanto più frequentemente esiste un’opzione non-veg: e ciò è particolarmente comune nel nord del paese. In questi casi ha inizio il ben conosciuto delirio che pare non risparmiare nessuna specie, ad eccezione della vacca, la cui macellazione è vietata per legge: quindi a disposizione dei gusti diversificati si trovano pesci, volatili, montoni, agnelli; questi ultimi, facilmente reperibili nei ristoranti di Calcutta, sono andati diffondendosi in molte altre città. Non bisogna poi dimenticare che la cucina internazionale va sempre più dilagando e che non mancano i McDonald’s, che non abbisognano di chiarimenti.

Di certo c’è un costume nuovo e ben percepibile: molte città, Bangalore in testa, si vanno occidentalizzando; l’andirivieni di stranieri, non alla ricerca di spiritualità, ma di affari, è strabordante; i giovani che vanno a studiare all’estero e tornano inevitabilmente contagiati da un ben diverso stile di vita sono sempre di più. Bene vengono descritte le nuove consuetudini ne “Il tappeto rosso. Storie di Bangalore” (Sankaran, Marcos Y Marcos 2006): le ragazze, girato l’angolo di casa, lasciano il sari per i jeans, e i ragazzi cedono alle insistenze dei genitori ad assoggettarsi a cerimonie rituali solo in cambio di un nuovo lettore CD; le une e gli altri si sottraggono al cibo speziato mangiato su foglie di banana in favore del sacchetto con patatine e hamburger. “Non dovresti mangiare quella roba: il vegetarianesimo non fa solo parte del tuo retaggio braminico, ma è anche di moda, no?”, esorta un padre. Davvero significativa commistione di sacro e profano; e il sacro è vincente solo se si trova, fortunosamente,a coincidere con il profano.

Vacche e buoi

Tra tutto ciò che uno sguardo superficiale può cogliere girovagando per le strade, certamente lo spettacolo delle mucche che camminano indisturbate non può non colpire l’attenzione, nelle campagne, ma anche in molte grosse città: ciò che oggi succede è che la vacche che non producono più latte perché vecchie o malate, stante il divieto di macellarle, vengono abbandonate dai loro proprietari e quindi se la sbrigano per così dire da sole in ambienti a volte davvero poco ospitali rispetto alle loro caratteristiche: girovagano in mezzo al traffico perché altro non possono fare, si nutrono andando a frugare nella spazzatura disponibile, contendendo gli avanzi ad un’umanità derelitta, mentre auto e moto, ormai dilaganti, le evitano grazie all’ abitudine alle loro sagome, ai loro ritmi, alla loro lentezza. Sono in qualche modo integrate nel paesaggio urbano e sollevano solo la curiosità iniziale dei turisti.

Per altro nelle città più moderne, come Nuova Delhi, la realtà è diversa e le vacche non ci sono: pare che un sistema di microchips, analogo a quello usato in occidente per il riconoscimento dei cani, venga utilizzato per individuare il proprietario che abbandona l’animale in modo tale da porre fine al fenomeno che, in una città presidenziale, è evidentemente troppo poco ammesso.

Analogo rispetto non è però assicurato ai bovini maschi, a cui non è riconosciuta sacralità: non sono pochi quelli che si incontrano, con lunghe corna dipinte a tinte coloratissime.

L’allegria dei colori non consola certo le povere bestie: sono legate strette, l’una all’altra o ad un qualsiasi punto fermo, con una corda cortissima che attraversa le narici, di fatto immobilizzandole. E’ evidente che questa forma di costrizione non risponde a nessuna necessità: anche uno spazio di movimento ben maggiore non impedirebbe di mantenere il controllo su di loro; ma pare che nessuno ritenga questa coercizione degna di interesse: non i contadini che, pur cercando di assecondarmi quando chiedo loro perché non allentare le corde, pensano solo che io voglia trovare un’immagine migliore da fotografare; non chi nei villaggi ricopre un ruolo primario quale referente “politico” o religioso che, alle mie educatissime rimostranze, risponde con un sorriso divertito, che rivela che il mio è considerato al più come un eccentrico atteggiamento occidentale.

Lo spettacolo, non frequente, ma comunque presente, di bovini portati al macello si differenzia dai nostri solo per le dimensioni: qui si tratta di “carretti” su cui il numero di animali è ridotto; ma sono legati e stipati l’uno addosso all’altro, senza la possibilità di potere nemmeno girare la testa. Sono solo animali da uccidere fra poco: perché mai usare riguardi?

Volatili
Pressoché impensabile invece in un contesto occidentale quanto conosciuto alle porte di Bangalore, al Morning Star, che, nonostante il nome da resort a molte stelle, è in realtà una comunità ideata e gestita da un uomo dal nome improbabile, John Kennedy: ospita 55 bambini e ragazzi, raccolti e salvati dalla strada; molti sono portatori di handicap gravi, altri, decisamente dotati, sono stati accompagnati e seguiti fino a raggiungere un livello di istruzione universitario. In questo luogo fuori dal mondo l’abitudine è quella di nutrirsi dei prodotti della terra; John Kennedy, quarantenne dall’aspetto sicuro e prestante, è fruttariano se si esclude lo sporadico accesso al chapati, il pane indiano. Ma ciò che non può non colpire è la presenza di galline e tacchini, non destinati all’alimentazione, ma al ruolo di pet, vale a dire di animali con cui i bambini possono giocare e a cui affezionarsi, non diversamente da ciò che fanno con i due gattini, di cui sono responsabili.
Si ha una sensazione di pace davanti a tutto questo e si sperimenta sulla pelle il significato del termine armonia, in questa convivenza dove esseri umani e non umani, diversamente collocati sui gradini evolutivi, stanno insieme, nella diversità dei loro ruoli, senza esercitare forme di sopraffazione.
L’incanto è presto rotto: al vicino mercato un uomo è seduto per terra accanto alle sue galline: sono costrette all’immobilità dalle zampe legate e il loro destino è chiaro. Come sempre succede, nessuno se ne cura e la sofferenza connessa a questa situazione innaturale, che gli animali prigionieri possono manifestare solo con il nervoso movimento del collo e gli scatti della testa, non calamita l’attenzione di nessuno. Esattamente come succede per i pulcini, ammassati all’interno di un cesto di metallo, che inutilmente pigolano al mondo il loro smarrimento. (www.orsidellaluna.org).

4.2   IL TAO

In Oriente troviamo un altro simbolo importante che è a forma di cerchio: il Tao, che nasce dalla filosofia Toista.

Il Taoismo sorse sullo stesso terreno culturale in cui nacque il Confucianesimo e si servì degli stessi elementi utilizzati da questo, che formavano il patrimonio intellettuale della Cina della seconda metà del 1° millennio a.C. Ma mentre il Confucianesimo ne dedusse dei modelli da imitare per ritornare alle virtù morali degli antichi re “santi”, il Taoismo li sottopose ad aspra critica, additando nei portatori di quelle virtù i corruttori della primigenia virtù del Tao, fatta di naturalezza e spontaneità. D’altro canto, essendo Lao Tzu e Confucio contemporanei, la medesima situazione storica di decadenza della dinastia Chou (che regnava ormai da sei secoli ed aveva perduto lo slancio riformatore dei primi sovrani), spingeva i due capiscuola ad evocare i tempi aurei in cui vigeva la semplicità del Tao, per Lao Tzu, o la carità e la giustizia dei santi imperatori, per Confucio. Bisogna ammettere però che i concetti che troviamo alla base del Taoismo e del Confucianesimo preesistevano ai fondatori delle due scuole, i quali non fecero che elaborarli e fissarli in un corpo di dottrine: Lao Tzu con lo scritto, Confucio con l’insegnamento.

La tradizione ci dice che Lao tzu(o Lao tze) – che è in realtà un soprannome che vuol dire “vecchio maestro” -, si chiamava Chung-erh o Po-yang o anche Lao tan. Visse nel 6° secolo a.C. ed era di qualche anno più vecchio di Confucio. Nacque nel villaggio di Ch’u-jen, nel territorio dell’odierno Honan (Cina orientale, a sud di Pechino). Fu storiografo negli archivi imperiali. Si dice che Confucio si sarebbe incontrato con lui e sarebbe stato colpito dalla sua saggezza. Lao tzu abbandonò il suo incarico quando la corta cominciò a dare segni di decadenza e se ne andò verso l’ovest. Arrivato al passo di Han-ku, il guardiano Yin Hsi gli chiese di scrivere un libro per lui e Lao tzu espose allora le sue dottrine nel Tao Te ching. Poi partì e non se ne seppe più nulla.

L’opera di Lao Tzu è divisa in due parti, la prima sul Tao e la seconda sul Te. In seguito fu suddivisa nel numero mistico di 81 capitoletti, e il nome di Tao Te ching fu dato, sembra, da uno dei suoi commentatori, Ho-shang Kung. L’opera ci è anche giunta in un’altra redazione, non molto diversa dalla prima, curata da Wang Pi.

Il libro si apre con una descrizione del Tao. La parola significa propriamente via e quindi anche modo di condursi, sistema. Il Tao è una astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, lo spontaneo modo di essere e di comportarsi dell’universo. In questo senso è indicibile, ineffabile, indeterminato. Essendo il principio primo e assoluto, è privo di caratteristiche, giacché è la stessa fonte di tutte le caratteristiche; non è però il nulla, dato che è l’origine di ogni cosa. Esso è prima di tutte le cose, dà loro l’esistenza. “Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome” (In cinese suona più o meno così: Tao ke Tao fei chang Tao; ming ke ming, fei chang ming: cfr. Tao Te Ching, 1). In altri termini, il Tao è oltre ogni denominazione, visto che la fonte da cui tutto deriva non può essere nominata, costituendo l’origine dei nomi e di ogni descrizione possibile. Tao è quindi un non-nome; indica, piuttosto, ciò che consente alle cose di essere quello che sono; è ciò che dà loro l’esistenza (come se si dicesse: il questo da cui derivano l’essere e il non essere). Sebbene non si possa dire ciò che il Tao è, ma si possa soltanto accennarlo, lo si può in un certo modo comprendere considerando il suo “funzionamento”, le sue manifestazioni. Il Tao si manifesta nell’universo, nella natura, dato che ciò che le cose individuale possiedono del Tao è il Te. La parola Te, tradotta il genere con virtù, non ha un significato strettamente morale bensì quello di vigore, potenza, facoltà, efficacia. È in pratica la manifestazione del Tao, come già accennato. Il Tao, in quanto origine, fonte, sorgente, dà l’esistenza alle cose, mentre il Te dà loro diversità.

Tutte le cose esistono nel Tao e il Tao è presente in tutte le cose. Finché le cose avvengono naturalmente, tutto è armonico e nulla turba l’equilibrio cosmico. L’uomo, se vuole vivere felice, deve seguire il Tao senza ostacolarlo. In questo senso, egli non deve agire, nel senso che non deve modificare l’armonia dell’universo. Se lo fa, allora non è più in accordo col Tao. Il principio della inazione (wu wei) non indica quindi il rimanere ozioso, senza far nulla, ma è piuttosto basato sul riconoscimento che l’uomo non è la misura e la sorgente di tutte le cose, ma lo è soltanto il Tao. La vita è vissuta bene solo quando l’uomo è in completa armonia con tutto l’universo e la sua azione è l’azione dell’universo che fluisce attraverso di lui. Il bene non viene compiuto dall’azione spinta dai desideri, ma dalla inazione (wu wei) che è ispirata alla semplicità del Tao. “Il Tao in eterno non agisce eppure non c’è nulla che non sia fatto. Se chi governa si attenesse ai suoi principi, gli esseri si svilupperebbero da soli. Se durante questo sviluppo crescesse il desiderio, basterà risvegliare in essi l’originaria semplicità di quello che non ha nome. La semplicità del senza-nome genera l’assenza del desiderio; l’assenza del desiderio genera la serenità, così l’impero si consolida da solo” (TTC, 37).

Il problema riguarda dunque il modo in cui si dovrebbe agire. La risposta è che si dovrebbe agire adottando la semplice via del Tao, non imponendo i proprio desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. L’uomo deve conoscere le leggi che regolano i mutamenti delle cose per confermarsi ad esse; conoscendo tali leggi, l’uomo si renderà conto che è vano perseguire un fine diverso, poiché ogni cosa segue il proprio sviluppo, la propria intima legge. L’uomo deve liberarsi da ogni pensiero, passione, interesse, desiderio particolare per ritornare alla semplicità di quando era bambino; egli deve fare solo ciò che è necessario e naturale. Vivere semplicemente vuol dire vivere una vita in cui è ignorato il profitto, lasciata da parte la scaltrezza, minimizzato l’egoismo, ridotti i desideri. Non bisogna cioè agire con artifici e deformazioni ma lasciare che le cose si compiano in modo spontaneo e naturale.

Anche in ambito sociale, le istituzioni sono giuste quando si permette loro di essere ciò che sono naturalmente; anche la società deve essere in armonia con l’universo. Se il legislatore si attenesse alle norme del Tao, il governo procederebbe in modo spontaneo e naturale. E non ci sarebbe bisogno di leggi severe e di guerre. Quando si governa un paese, si dovrebbe badare a non opprimere troppo la gente, portandola a ribellarsi. Quando invece le persone sono soddisfatte non ci sono guerre e ribellioni. Perciò la semplice norma del governare consiste nel dare al popolo ciò che vuole, e nel rendere il governo conforme alla volontà del popolo, piuttosto che tentare di rendere il popolo conforme alla volontà di chi governa. Il lavoro di chi governa è quello di lasciare che il Tao operi liberamente, invece di tentare di opporsi alla sua funzione e di cambiarla. Così, chi vuole governare con l’aiuto del Tao, è avvisato di non fare uso di forza o violenza, poiché ciò finisce per determinare un rovesciamento. “Colui che assiste il principe col Tao non fortifica l’impero con le armi…tutto ciò che è contrario al Tao non può durare”. Quando chi governa conosce il Tao e il suo Te, da in che modo deve starsene al di fuori della vita del popolo e servirlo senza intromettersi. Così Lao Tzu dice che le persone “sono difficile da governare poiché chi governa agisce troppo”. “Più leggi e divieti ci sono nel mondo, più povero sarà il popolo… più si emanano leggi e decreti, più ci saranno ladri e predoni” (TTC, 57). Eliminando i desideri e lasciando che il Tao entri e ci pervada, la vita supererà le distinzioni tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao, e l’uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità. È una soluzione che dipende soprattutto dal raggiungimento dell’unità col grande principio immanente della realtà, ed è perciò, in questo senso, una soluzione mistica.

Nei secoli a cavallo dell’era volgare, i seguaci del Taoismo si dedicarono soprattutto alla speculazione metafisica e in particolare sul problema della morte e della immortalità. Nacque così una forma di religione taoista, che assunse ben presto aspetti istituzionali e che ebbe, sotto la dinastia dei Tang (620-906 d.C.), una enorme diffusione, pari al buddhismo. Il pensiero cinese delle origini non aveva elaborato una dottrina (come era successo in Grecia e nel Cristianesimo) che rispondesse al problema del destino dell’uomo dopo la morte. L’uomo cinese si vedeva solamente mortale. Da qui sorse la convinzione che l’immortalità fosse una sorta di conquista, da ottenere attraverso modalità per lo meno singolari. Il problema era appunto quello di far diventare il corpo umano immortale. Già da tempo erano stati codificati dei metodi per prolungare la vita e permettere una sorta di immortalità. Questi metodi si dividono in due gruppi: le pratiche per nutrire lo spirito e le pratiche per nutrire la vita o il corpo.

Le pratiche per nutrire lo spirito si riferiscono naturalmente all’esercizio delle virtù morali, cioè la purezza di vita, il riconoscimento e il pentimento delle proprie colpe e il compimento delle buone azioni meritorie.

Le pratiche per nutrire la vita o il corpo sono invece di ordine dietetico, respiratorio, sessuale e alchimistico. La pratica dietetica consiste nell’astensione dai cosiddetti cinque cereali, perché di essi si nutrono i tre demoni (san shih) che risiedono nel corpo umano e sono avversi all’uomo. L’astensione da quegli alimenti mira a liberare l’uomo dalla loro presenza, facendoli morire di inedia.

Un’altra pratica molto importante è quella della respirazione controllata. Secondo le antiche tradizioni, il ch’i è il soffio vitale che permea l’universo. La pratica respiratoria tende ad immettere nel corpo il ch’i più sottile affinché lo nutra e piano piano elimini la parte densa e impura, portandolo alla stessa sottigliezza e purezza del cielo immortale.

La pratica sessuale consiste essenzialmente nella ritenzione del seme maschile: l’orgasmo dovrebbe essere ripetuto più volte e con diverse compagne, senza però lasciar sfuggire il ching maschile, in modo che torni indietro e si diffonda nell’organismo dove, unendosi al ch’i, darebbe nascita al corpo immortale. La pratica invece più difficile, dispendiosa e misteriosa, consisteva nell’ingerire, dopo una lunga preparazione alchimistica, il cinabro (solfuro di mercurio), che provocherebbe di per sé l’immortalità.

Come si vede, siamo ormai lontani dall’autentico Taoismo, che comunque fu importante perché fu la risposta a molteplici interrogativi spirituali. Inoltre non si dimentichi che, in campo politico, con la credenza messianica in una società migliore, molte furono le rivolte contadine che ebbero i loro capi in persone che si ispiravano al Taoismo. In campo artistico, il Taoismo, concedendo assoluta libertà all’individuo, permise la creazione di opere d’arte concepite per il godimento del letterato e del pittore e non, come volevano i confuciani, in esclusiva funzione di un certo tipo di società. In ultimo, la donna, che nella Cina confuciana e feudale era relegata a vivere all’interno della sua abitazione, acquisterà col Taoismo una certa parità con l’uomo, al punto di poter accedere anche a certi gradi della gerarchia religiosa taoista.

Oggi il Taoismo è diffuso nelle comunità cinesi sparse per il mondo, ed in particolare a Taiwan, Vietnam e Singapore. (http://www.filosofico.net/iltaoismo.htm).

5. CONCLUSIONI: COME USARE QUESTI ELEMENTI IN TARAPIA?

Questa tesina mi ha offerto alcuni Doni : la possibilità di interrogarmi su diversi aspetti delle tecniche dello psicoterapia  sistemica, ho potuto scoprire l’esistenza di una cultura così vicina al mondo naturale.

Nel primo caso mi sono pensata come terapeuta che incontra un paziente e questi è uno sconosciuto, uno straniero che mi racconta la sua storia, che parla di terre lontane, con un proprio linguaggio e significato. Anche lui ha una famiglia di appartenenza a cui è legato e che ricorda con grande rispetto. Mi racconta di Spiriti e animali, di riti e scudi medicina. Io poco conosco di questa cultura amerinda e prima della seduta successiva mi cerco qualche informazione inerente , ma mi rendo conto che si tratta di un’impresa titanica. Ho incontrato un mondo nuovo che mi ha affascinata. Ero incuriosita dai nomi di questi indiani, che cambiano nel corso della vita, segno del loro divenire e crescita di consapevolezza di sè. I nostri pazienti si presentano con un nome, carico di aspettative e mandati familiari, che possono emergere durante il genogramma. Questa presentazione è carica di significati e relazioni, che connettono il paziente con la sua famiglia passata e futura, nel momento in cui riuscirà a raccontarsi un’altra storia.

Gli Indiani ci parlano di come sono uniti alla Natura e agli Animali, in quanto rappresentanze degli Spiriti che portano risposte ed equilibrio nella vita di chi chiede aiuto. Anche il nostro lavoro cerca di aiutare i pazienti a ritrovare un po’ di pace, ma i modi sono così lontani? Leggendo alcune storie con l’uso di animali per spiegare concetti importanti della Vita mi sono sentita parte di un tutto, dove il mondo non ha confini di genere o religione, dove il colore della pelle è rossa perché colorata dalla Terra Madre. Ma non è facile cambiare presupposti e spostarsi per accogliere ciò che ci fa paura. Eppure questo è necessario per far luce su ciò che ci spaventa e blocca. Il terapeuta può aiutare il paziente a far parlare ciò che lo fa star male attraverso la storia dei due lupi, per esempio, oppure facendogli costruire uno scudo medicina per capire con lui quali sono gli aspetti di se da conoscere meglio o le forze che ognuno di noi possiede. Strumenti nuovi che parlano  di tempi lontani che avevano parole chiave come Dono, Rispetto e Fratellanza. Non esiste in questa cultura la superiorità di alcuno e tale  posizione così lontana dalla nostra Cultura Occidentale, e questo presupposto ci permette di accogliere l’altro nella differenza,  e di riconoscerlo come uguale a me. Ho scoperto quanto fosse importante il tramandare conoscenze e storie intorno ad un fuoco, in cerchio, segno di legame e circolarità: solo in questa posizione tutti possono vedere tutti e rispondere nel medesimo modo. Sono in cerchio si può crescere e trasmettere altro. E gli animali in questa cultura hanno un posto importante, di insegnamento non solo come cibo. L’osservazione del loro stile di vita ha insegnato agli Amerindi le 4 Vie di Conoscenza racchiuse nella Ruota Medicina e ha permesso a tutti loro di crescere e prendere consapevolezza di sé.

Con i bambini le storie con l’uso di animali sono molto utili: ne ho scelta una “La Storia del Ponte Arcobaleno” per raccontare della Morte, che tanto ci spaventa, qui, in Occidente, ma che tra gli Indiani e in Oriente è invece un percorso, in cui tutto finisce e ricomincia.

 

Concludo scrivendo che ho cominciato una Via di Conoscenza nuova, grazie anche ai miei pazienti che mi insegnano molte cose!

 

 6.  BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

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www.psicolab.net/2008/la-metafora/

www.ilcerchiodellavita.com/Sciamanesimo/Ruota_Medicina.htm

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“I diritti animali”  di Tom Regan ,ed. Garzanti, 1990

“Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estes, ed Frassinelli, 1993

“Orso in Piedi, Lakota” Tratto da: “Il Grande Spirito parla al nostro cuore”, Luther Standing Bear, Ed. Red

“ Il tempo delle due lune”, Priscilla Cogan ed. Sperling & Kupfer, 2005

“La bussola del cuore” Priscilla Cogan ed. Sperling & Kupfer 2004

“ la melodia dell’alba” Priscilla Cogan ed. Sperling & Kupfer 2003.

ARTICOLO

Margherita Isnardi Parente, “ Le radici greche di una filosofia non antropocentrica”