Autore: Dott.ssa morena Romano

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IL MITO DI ATHENA

Athena, è la dea della sapienza, della ragione, della chiarezza che si rispecchia negli occhi e nello sguardo; dea della guerra non violenta e protettrice di tutte le arti e dei lavori femminili.

Essa era figlia di Zeus e dalla sua prima moglie Metis, figlia di Oceano e di Teti, dea della prudenza e della saggezza.

Quando Metis restò incinta, Rea predisse a Zeus che uno dei figli di lei l’avrebbe detronizzato, quindi egli cercò un modo per liberarsi della sposa, cercando tuttavia di mantenere proprio il potere della dea, ossia l’astuzia prudente, la capacità di prevedere tutto ciò che accadrà, di non restare né sorpreso né disorientato da alcunché, di non prestare mai il fianco a un attacco inatteso.

Metis possedeva il potere della metamorfosi e come Teti e altre divinità marine, era in grado di assumere qualsiasi forma: da bestia feroce a formica a roccia.

Zeus per raggiungere il suo scopo utilizzò un’astuzia: chiese alla moglie di trasformarsi in molteplici esseri ed alla fine le chiese di diventare una goccia d’acqua. Metis gli dimostrò di poterlo fare e Zeus prontamente la ingoiò,

così egli divenne invincibile. Metis, incinta di Atena, si trovava ora nella pancia di Zeus. Atena non appena i tempi furono maturi, invece di uscire dal grembo della madre venne fuori dalla testa del padre, quasi fosse il ventre di Metis.

Dopo qualche tempo infatti Zeus sentì un lancinante dolore alla testa, Prometeo ed Efesto, chiamati in aiuto, accorsero armati di una ascia bipenne e sferrarono un colpo fortissimo sul cranio di Zeus. Con un grido acuto Atena uscì dalla testa del dio: giovane vergine completamente armata, con elmo, lancia, scudo e corazza in bronzo.

Athena è stata sempre messa in relazione con il pianeta Saturno, poiché con lui condivide l’aspetto rigido, freddo e distaccato, in disaccordo con gli aspetti di irrazionalità e istintività che caratterizzano il mondo femminile.

Athena ha una particolarità, ossia quella di essere privata di una madre e di essere partorita dal padre in maniera piuttosto cruenta, per uscire al mondo già armata come una guerriera. Questo ci dice che la dea manca della tenerezza e del nutrimento emotivo che sono ingredienti indispensabili per far nascere la funzione sentimento, la possibilità quindi di amare in maniera sana.

Inoltre Athena è costretta ad identificarsi con il padre e con il lato maschile della psiche, razionale, competitivo e tagliente, pronto a combattere per ottenere ciò che desidera.

La dea guerriera è depauperata del principio di “eros” e viene ad incarnare il “logos” privilegio del padre e del fratello Apollo.

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L’archetipo Athena si costella, per cui in donne incapaci di accogliere in sé le qualità femminili, poiché non le hanno mai conosciute e ne sono state privata sin dalla più tenera età. L’identificazione con il padre e con il maschile avviene però non scevro da una ferita profonda che crea in loro angoscia e timore verso un femmineo negato.

Nella vita quotidiana tali donne appaiono molto forti esteriormente ma molto arrabbiate con il femminile che non conoscono o ritengono solamente negativo, poiché spesso cresciute all’ombra di un modello materno debole o vittimistico a cui è stato preferibile un maschile forte e carismatico.

Come appunto dimostra il mito, il femminile che doveva proteggere, contenere e nutrire si è dimostrato inutile o, nel caso di Rea, complice; da un punto di vista psicologico questo si estrinseca nella presenza di una madre carente, che presto abdica al suo ruolo, oppure si trincera dietro ad un narcisismo coatto e distruttivo: si costella così, nella maggior parte dei casi, un complesso materno negativo.

 

La corazza, lo scudo e l’elmo di cui Athena appare vestita alla nascita, hanno un significato simbolico molto importante: essi infatti rappresentano le difese che queste donne utilizzano per evitare di soffrire, esse hanno anestetizzato il cuore fino a renderlo insensibile e corazzato.

Le loro capacità sono infatti pratiche e intellettuali, nel senso che usano la razionalità per evitare di “sentire” ciò che anche da adulte non possono tollerare.

Questa privazione drammatica che porta all’identificazione con il paterno, ha come causa la perdita di valore del femminile, tanto che tali donne non amano particolarmente le figure femminili, anzi le vivono piuttosto come rivali o personaggi inferiori.

Al tempo stesso, queste donne non riescono neppure a vivere bene un rapporto di reale intimità con un uomo poiché mancano della capacità di accoglienza e donazione di sé.

Compito delle novelle Athena è quello di recuperare la femminilità, concedersi il pianto, il “sentire”, il proprio mondo interiore.

Ritornare in possesso del proprio cuore significa, rompere il ghiaccio della razionalità, per tornare ad essere in grado di amare realmente.

Athena, in termini positivi è la dea che possiede lo spirito d’azione, la sua capacità di riflessione trasforma l’impulso aggressivo in spirito d’iniziativa, in energia costruttiva indirizzata ad una meta.

Infine Athena è altresì la Dea dei tessitori, degli orafi, dei vasai e dei sarti, era nota per le sue capacità di tessitrice, un’attività in cui mente e mani lavorano insieme e questo ci richiama l’idea dell’ordito e della capacità di produrre secondo una logica ferrea e tendente all’ossessivo, caratteristica tipica soprattutto dei soggetti anoressici.

 

Un altro aspetto legato al mitologema di Athena è il suo rapporto con Medusa.

 

Medusa figlia di Forco e di Ceto ed era una delle Gorgoni, l’unica ad essere mortale.

Poseidone innamorato di Medusa, una notte la sedusse nel tempio di Atena. In risposta a questa offesa, la dea tramutò i capelli di Medusa in serpenti e fece sì che chiunque la guardasse negli occhi venisse tramutato in pietra.

Medusa fu uccisa da Perseo, che le mozzò la testa guardando la sua immagine riflessa sullo scudo regalatogli da Athena, lucido come uno specchio. Quando tagliò il capo, dal collo della Gorgone uscirono i figli che aveva generato dopo la notte con Poseidone: Pegaso e Crisaore.

Infine, la testa di Medusa fu donata da Perseo ad Atena, in cambio dello specchio riflettente con il quale la dea gli aveva suggerito di affrontare Medusa, in modo che il mostro si uccidesse con il suo proprio sguardo. Atena, la pose al centro della propria Egida.

 

Medusa rappresenta l’aspetto erotico non accettato del femminile, soprattutto le ragazze anoressiche, possiedono la peculiare caratteristica di rimuovere la sessualità e spesso applicarne il rifiuto come emblema e vessillo del loro ascetismo e del loro controllo onnipotente.

La trasformazione mostruosa di Medusa con serpenti al posto dei capelli e il potere di pietrificare è la raffigurazione di un processo di chiusura verso il femmineo, verso l’aspetto più profondo dell’eros.

Un ulteriore elemento simbolico è rappresentato dai serpenti, Jung in “La libido, simboli e trasformazioni” ne parla come di un’immagine fallica della libido ed è proprio in questa accezione che, se ne rileva la sua importanza nel nostro contesto: Medusa come la giovane punita per la sua esuberanza seduttiva e incestuosa viene mutilata della sua componente erotico-sessuale da un Super-Io rigido e oppressivo.

Al suo posto prende piede un Animus guerriero, un’amazzone solo logos e armatura, che con il suo scudo si protegge dalla funzione sentimento e dalla sessualità.

La scelta di utilizzare questo mitologema nasce dalla necessità di spiegare più facilmente la relazione padre-figlia/o nell’istaurarsi della patologia del comportamento alimentare.

Athena che nasce dalla testa di Zeus incarna il rapporto privilegiato con un archetipo paterno assolutizzante; non si deve dimenticare infatti che Zeus rappresenta una figura paterna assente ma onnipotente allo stesso tempo, in ogni mitologema che lo riguardi.

Il mito per cui ci racconta di un rapporto filiale controverso e ambivalente, dove la dea incarna un maschile privo di sentimento, in cui gli opposti sono scissi e il femminile negato, poiché il materno è inglobato dal principio paterno (Zeus che ingoia Metis).

 

La lotta di potere fra il principio femminile e quello maschile, finisce con l’avere un unico sconfitto: il figlio o la figlia che rimangono perciò ingabbiati nell’uno o nell’altro senza possibilità di connessioni.

Molti autori di orientamento junghiano fra cui T. Ficeto, individuano in Athena, l’immagine riflessa dell’anoressica che, emana senso di potere e autorità nascosta dietro ad uno scudo di difese invincibili, pronta all’attacco ed eternamente in allerta.

Le giovani anoressiche in cui è attivo questo mitologema appaiono possedute da un Animus, principio maschile e paterno, a cui fin dall’adolescenza si aggrappano al fine di emanciparsi dalla madre reale e archetipica.

Questo tentativo si rivela tuttavia, nella maggior parte dei casi fallimentare poiché non permette un consolidamento del proprio progetto esistenziale e della propria individualità, ma piuttosto data la poca consistenza del principio paterno, carica il soggetto di confusione e ambiguità.

 

Prima di continuare a descrivere le caratteristiche peculiari del rapporto padre-figlia/o ritengo utile spendere alcune parole su un argomento appena sopra citato molto importante e che ci farà oltretutto, da principio guida nella nostra successiva trattazione, ossia l’archetipo paterno.

 

4.1 L’ARCHETIPO PATERNO

L’archetipo rappresenta una struttura di base, in forma simbolica, che contiene l’origine dei significati universali propri della specie umana.

Possiamo, per semplicità, immaginarlo come un grande quadro ricco di forme, colori e immagini, dal quale attingiamo, inconsapevolmente, per costruire i significati che realizzano i nostri ruoli, comportamenti, paure, desideri.

Il padre è un grande archetipo, come quello della madre, che contiene tante possibilità di significato, utilizzate in base alla storia personale e al particolare contesto culturale e storico del vissuto.

Nel nostro mondo simbolico la relazione tra padre e figlio è sempre carica di un forte conflitto e viene rappresentata chiaramente nella mitologia classica greca, sulla quale noi occidentali fondiamo la nostra cultura, e che a sua volta raccoglie i miti degli antichi popoli mesopotamici come gli Hurriti e gli Ittiti.

Il mito di Crono, figlio di Gea, la madre terra e Urano, il dio del cielo procreato dalla stessa Gea da sola, racconta di un padre negativo, Urano, che sprofonda i figli nella terra per non essere da questi spodestato. Crono, uno dei dodici Titani nati da Gea e Urano, viene coinvolto dalla madre per aggredire il padre. Crono evira il padre con un falcetto e questo, persi i genitali scompare e lascia libero il regno dell’universo che verrà poi conquistato dallo stesso Crono. Successivamente Crono, avvertito da una profezia, vive le angosce del padre, divora i figli per timore di essere da loro cacciato, e Zeus, uno dei figli destinati a cadere nelle viscere del padre, viene salvato dall’intervento della madre Rea, che invece del figlio gli consegna una pietra avvolta in un telo. Sarà poi Zeus a regnare nell’universo grazie alla sua vittoria contro il padre. Questa struttura mitologica è presente in molte altre forme dell’immaginario umano, come nella leggenda di Edipo Re che abbiamo gia raccontato nel precedente capitolo, arricchendosi di importanti significati relativi alla relazione genitoriale.

Il dramma di Edipo rappresenta l’essenza delle forze conflittuali dell’esistenza e della relazione familiare. Il mito stesso serve ad esorcizzare la forza distruttiva delle pulsioni originali.

Qui vediamo il culto della violenza paterna, della paura del figlio, dell’evirazione, altro potente simbolo che vive nell’immaginario umano e nel maschio diventa segno evolutivo ed angoscioso a partire dal processo edipico, della pulsione al ritorno verso l’utero, al tabù dell’incesto. La preoccupazione per le proprie origini, spesso nei bambini negate e proiettate in racconti fantastici, dove si diventa estranei ai propri genitori in un estremo tentativo salvifico di allontanarsi dalle inaccettabili pulsioni aggressive ed incestuose.

Insomma il mito ci dice che l’archetipo del padre è ricco di significanti non sempre positivi, anzi spesso pregni di oppositività evolutiva, e lo stesso Freud, raccogliendo la teoria dell’orda primordiale di Darwin, parla di rivolta dei figli verso il padre che si appropria egoisticamente delle donne e non concede ai figli la possibilità della procreazione. Freud, nella sua mitologia della nascita della società, mette i figli contro il padre per ucciderlo ed impossessarsi finalmente della libertà e delle donne; ovvero in “Totem e tabù” ci narra del pasto totemico, come l’atto primitivo dell’introiezione e identificazione.

Nella relazione con l’Altro, l’uomo inizia subito a creare un’immagine simbolica di sè da mettere in relazione con la realtà esterna. Questo gioco dei simboli permette di affrontare l’energia pulsionale conflittuale e distruttiva e di creare un adattamento funzionale con il mondo.

Le immagini simboliche tuttavia, trovano riscontro nella figura reale del padre e così si istaura il complesso paterno, che sia di natura positiva o negativa è pure esso da elaborare al fine di venire a patti con l’effettivo status del soggetto all’interno della relazione.

Il rapporto con le figure genitoriali è di fondamentale importanza nella vita di ogni individuo, poiché da esso si svilupperanno, come da un impronta primigenia le future relazioni oggettuali, ed è per questo motivo che si pone fortemente l’accento sulla loro evoluzione, in un ottica dinamica.

L’archetipo paterno si sviluppa in modo complesso negli individui di sesso femminile, per cui ne dedicheremo ampio spazio nel paragrafo che segue.

 

4.2 LE –GAMI CON IL PADRE

Claudio Risè nel suo libro “Il selvatico Il padre Il dono” definisce il padre come appartenente alla figura del creatore originario che mette in moto grazie alla propria iniziativa e accoglienza l’inizio della vita, ossia il distaccamento dalla condizione di simbiosi con la madre e l’uscita dall’uroboro materno.

Anche Hillman nel suo saggio sul tradimento fornisce una spiegazione analoga definendo il tradimento come principio maschile, un elemento fondamentale per l’emergere del Sè alla sua totalità a partire dalla situazione inconscia che l’autore paragona all’Eden. E la crescita, così come l’affrancamento dalla simbiosi materna può essere vissuta come una sorta di tradimento nei confronti della madre.

Dalla ferita originaria, quella che deriva dalla separazione dalla madre sviluppa la futura capacità dell’individuo di amare, di istaurare relazioni e soprattutto amarsi, aspetto quest’ultimo assolutamente deviato nei soggetti con disturbi alimentari.

Tali soggetti presentano perciò una struttura psicologica e di personalità costruita non sull’amore e sull’unicità, ma sul rifiuto del loro vero Sé, venendosi a trovare da un lato a confronto con una madre che non li accetta per come sono e dall’altra parte con un padre che strumentalizza il loro essere e il loro ruolo.

In prossimità di simili figure genitoriali, l’archetipo che si costella nell’esistenza di questi individui è ambiguo e negativo, fonte di conflittualità e ostilità letteralmente “mal digerita”.

Attraverso l’aiuto del padre già nella primissima infanzia, il figlio dovrebbe liberarsi dell’identità inconscia con la madre per avviare il proprio processo di individuazione in un rapporto positivo con entrambi i genitori. Questi ultimi rappresentano, inoltre, i portatori delle prime immagini archetipiche di Anima e Animus, ossia la prima possibilità di fare esperienza del rapporto con il femminile e il maschile.

I soggetti con disturbi alimentari si trovano tuttavia a doversi rapportare con un materno e un paterno perturbanti, per cui le difficoltà presenti con i genitori reali e quelle derivate dai simboli archetipici costellati rendono impossibile l’integrazione delle proprie componenti animiche di spirito e terra, ordine e sentimento, logica e capacità relazionali.

Appare così che la madre identificata con l’Animus non sia in grado di esprimere adeguatamente la figura della Grande Madre buona e accudente che raggruppa in sé anche gli aspetti della femminilità, della sessualità e della corporeità.

Tale madre diviene portatrice dell’immagine della Madre Terribile fredda e controllante da cui il figlio deve fuggire.

E ad attenderlo, al termine di questa fuga, si ritrova un padre inadempiente, debole che incarna l’immagine del Puer Aeternus, un’adolescente allo stesso modo inconsciamente attaccato alla madre che non risulta perciò un valido supporto per uscire dallo strapotere materno.

Avviene perciò che la madre non sostiene, con lo spunto della relazione creativa con il maschile, l’individualità della figlia ed in aggiunta il padre proietta sulla stessa la propria Anima, investendola delle conseguenti problematiche irrisolte.

 

Nel caso dell’anoressia, il corpo scheletrico e assessuato rappresenta proprio questo blocco evolutivo, la giovane diviene portatrice dell’immagine animica del padre, capace di garantirgli appoggio e conforto, altresì impregnata dal Logos e dal Nomos dell’Animus maschile portato dalla madre. In tal modo si fa sempre più remota, per questi soggetti, la possibilità che la giovane Puella si riconcili con l’Eros materno, ora più che mai assente.

 

Sembra ovvio come il padre svolga, quindi, un ruolo periferico all’interno della famiglia, condizione che diventa complementare alla centralità della figura materna dominante e controllante.

Il padre che, come dicevamo più sopra, ha il compito di far uscire dal mondo materno il figlio e farlo accedere a quello reale, in quanto principio intrusivo e attivo è in grado di rompere l’identificazione primaria favorendo l’evoluzione della coscienza.

Jung ne “L’importanza del padre nel destino dell’individuo” (in “Freud e la psicoanalisi” ed. Newton) sostiene che la funzione paterna stia appunto nel corrompere l’istintualità inconscia dominante nella simbiosi.

 

Nello sviluppo normale il padre è la prima figura per le figlie portatrice dell’ Animus, archetipo essenziale che media il rapporto con il maschile e che fornirà l’imprinting per i successivi rapporti con gli uomini.

Attraverso la mediazione fra padre personale e padre archetipico, la figlia può interiorizzare il padre interno, ossia il modello che concerne gli aspetti di ordine, responsabilità, disciplina, presa di decisioni e oggettività, in altri termini quello che Freud chiama il Super-Io.

 

Dopo la prima separazione dalla simbiosi con la Grande Madre, nello sviluppo normale, segue una successiva riconciliazione consapevole che permette l’integrazione fra il Nous e il Logos paterni e l’Eros materno portatore della femminilità. Senza una figura paterna adeguata, anche questa riconciliazione viene negata.

 

Per uscire dalla simbiosi materna, la figlia ha bisogno di incontrarsi/scontrarsi con il lato negativo della Grande Madre e di venire a contatto con quello positivo paterno, il Padre del Cielo, personificati entrambi nei genitori reali.

In assenza di un maschile adeguato la figlia può concedersi solo il contatto con un maschile di cui è portatore la madre, ossia il suo Animus; un Animus problematico con cui essa, la madre reale, è costretta ad identificarsi perché è l’unico disponibile.

 

Il rapporto che il padre e la madre reali hanno con le loro istanze animiche pregiudica il modo in cui essi si pongono verso i figli. Infatti, come ben sappiamo, la controparte sessuale inconscia investe un ruolo ben preciso per quanto riguarda il comportamento umano: l’Animus collega l’Io della donna con il maschile interno inteso come parte attiva, logica e discriminante, mentre l’Anima collega l’Io dell’uomo con il suo lato femminile come parte capace di relazione, sentimento, accudimento e creatività.

Quando una donna si identifica con l’Animus può divenire una donna fallica, attiva, spesso rigida e che lascia poco spazio al sentimento, per contro un uomo identificato con l’Anima può divenire eccessivamente sentimentale, poco responsabile e incapace di prendere decisioni in modo fermo.

Avviene una sorta di scambio dei ruoli ma in termini distorti poiché il gap fra l’immagine reale e archetipica è portatore di equivoci, fraintendimenti e incomprensioni, ma soprattutto dal punto di vista dei figli, di mancata accoglienza e contenimento.

Per cui la figlia o il figlio che si rivolgono ad un tale padre come elemento perturbatore dell’equilibrio egodistonico della simbiosi con la madre, non troveranno altro che un debole surrogato del materno.

 

Nelle famiglie di soggetti con disturbi alimentari è spesso presente una configurazione famigliare di questo tipo, con un padre eterno fanciullo e una madre Animus che dirige la vita famigliare, detta le regole e i valori da seguire.

Un padre debole e una madre rigida comportano per i figli il problema di non fornire una paternità e una maternità genuini: la madre non garantisce sicurezza e fiducia, posseduta dal principio maschile, defeziona il suo ruolo di accudimento e cura impedendo una adeguata identificazione femminile della figlia anche a causa di proprie problematiche irrisolte con la femminilità e il corpo.

Il padre impedisce per gli stessi motivi una positiva identificazione del figlio nel maschile, e per quanto riguarda la figlia femmina ostacola il regolare fluire dello sviluppo della relazionalità con l’altro sesso.

 

Marion Woodman, nella sua emblematica opera “Malate di perfezione. Anoressia, bulimia, alcolismo: una perfetta infelicità.” sostiene che le problematiche con il materno sono il frutto di un eredità psicologica negativa lasciata dalle madri del passato rispetto soprattutto alla rimozione della sessualità e della femminilità.

Oggi infatti assistiamo, e il fenomeno femminista degli anni ’60 ne è la prova più tangibile, al triste spettacolo di donne che non riescano, seppur facciano ogni sforzo possibile, ad integrare il loro Sé come essere pensante e dotato di sentimento; come creature sessuate e appassionate ma allo stesso tempo spirituali e logiche.

 

I soggetti con disturbi alimentari, affrontano le medesime contraddizioni ma con l’additivo del fallimento materno e paterno.

Il corpo magro ed emaciato dell’anoressica, ad esempio, diviene espressione dell’Ombra, ossia delle problematiche legate alla sessualità e alla femminilità che sono state rimosse e non possono essere espresse in altro modo.

 

Il padre viene presto idealizzato dalla figlia grazie alla spinta del desiderio di averlo, per cui, come sottolinea anche Montecchi nel suo “Le origini psicologiche e psicodinamiche dei disturbi alimentari”, la figlia tenta di soddisfare le aspettative paterne, aspettative che solitamente coincidono con capacità intellettive e di successo professionale.

Se il padre si mostrerà altresì particolarmente attento a questi aspetti, confermando una visione di Sé della figlia come amata solo se è “brava” e raggiunge certi traguardi, allora si svilupperà una ferita che deriva dalla accentuazione del carattere spirituale, rispetto a quello dell’Eros e della femminilità.

Da un punto di vista analitico questo avviene perché il padre, un uomo castrato dalla madre e poi dalla moglie, viene ad assumere il ruolo di figlio e proietta la sua Anima sulla propria figlia affidandogli il ruolo di portatrice dei sentimenti non realizzati e così la lega a sé attraverso i suoi problemi inconsci non risolti e con atteggiamenti più o meno consci di seduttività, gelosia e possesso.

In tal modo la figlia può divenire la cosiddetta “fidanzatina di papà” ossia ciò che la madre non è riuscita ad essere incarnando l’immagine di madre spirituale, amante e ispiratrice.

Così legati padre e figlia, si alleano contro la tirannia materna, la madre patriarcale Animus e vivono in una sorta di isola felice lontana dallo strapotere materno.

Nell’accettare di assumere la proiezione d’Anima del padre la figlia, conseguentemente accetta anche di condividere gli ideali intellettivi e di ricerca di successo che il padre le propone, attuando uno sforzo enorme per ottenere sempre e comunque ottimi risultati nelle relazioni interpersonali, nella scuola e nel lavoro.

La figlia diviene la responsabile del benessere paterno, la madre-amante e il rapporto scivola nell’incesto inconscio.

Secondo l’autore junghiano A. Samuels l’incesto è una tappa fondamentale del processo di individuazione e si esplica in una relazione stretta e con tratti erotici fra padre e figlia.

Tuttavia può divenire patologica qualora il padre mostri, anche senza accorgersene un coinvolgimento insufficiente o eccessivo.

Nei soggetti con disturbi alimentari, questo coinvolgimento appare oltremodo esagerato tanto che per la figlia, il padre diventa il capo spirituale, il genio incompreso, il dio in terra al cui altare sacrificare i propri impulsi sessuali e la propria femminilità, abbracciando unicamente la fede del paterno e del maschile come obbiettivo e scopo della vita.

Il femminile così strutturato, che si identifica con l’Animus paterno non riesce a sviluppare i suoi tratti istintuali e femminei rimanendo vittima delle forze maschili che di lei si sono impossessate.

Il padre in tal senso incarna la figura del mago che incanta negativamente la figlia e la tiene prigioniera nella propria gabbia dorata.

Se l’incesto inconscio si compie e non viene bloccato dal divieto normativo, non avviene l’integrazione degli aspetti animici e la giovane può rimuovere la sessualità con il tentativo di rimanere legata al padre in un rapporto di incoscia fedeltà.

Della sua vita psichica rimane così unicamente un surrogato maschile che domina con unilateralità la parte cosciente, senza che, nell’inconscio si sia giunti ad un integrazione delle componenti maschili e femminili. Anzi queste ultime sono represse, rimosse, mortificate dall’ordine, dalla disciplina, dal Logos imposto dall’identificazione con l’Animus paterno.

In quest’ottica il disturbo alimentare non diviene altro che il teatro in cui si svolge questo sotterraneo dramma psichico, lo strumento, il mezzo attraverso cui il femminile prostrato chiede parola e forse, con struggimento, anche aiuto.

Parrebbe superfluo aggiungere che le relazione sentimentali con l’altro sesso divengono disturbanti e distruttive, quando non sono palesemente evitate, rifiutate e strumentalizzate.

Nei maschi questo genere di rapporto si instaura con il materno, con risultati equiparabili che sfociano spessissimo nell’evitamento di relazioni stabili e nel dongiovannesimo.

 

Vorrei ora fornire al lettore un ulteriore prospettiva dinamica della relazione padre-figlia nei disturbi alimentari attraverso la teoria del Sé.

 

Secondo tale teoria i soggetti con disturbi alimentari avrebbero un Sé fragile e frammentario, immaturo e non coeso, non consolidato da un adeguato rapporto con i genitori, che non hanno soddisfatto in maniera positiva i bisogni Oggetto-Sé di idealizzazione, rispecchiamento e grandiosità.

La soddisfazione ottimale di tali bisogni, unita ad un grado accettabile di frustrazione permette di trasformare gli Oggetti-Sé in parti funzionali della psiche.

Cìò avviene attraverso processi naturali di riconoscimento da parte del genitore; se questi vengono elusi producono modalità di relazione con gli oggetti esterni inadeguate e improntate su eccessivo narcisismo e bisogno di conferma.

Avviene infatti che, durante la primissima infanzia, il bambino si trova in uno stato inconscio e non strutturato dal quale inizia ad emergere quando si rende conto della presenza di un “altro da Sé”; ciò produce una ferita originaria narcisistica, poiché il bambino deve cedere una quota del suo narcisismo alla madre e al padre. Si viene così a formare l’Ideale del Sé che rappresenta la natura migliore, per l’appunto ideale, di come gli altri dovrebbero essere. La quota di narcisismo che rimane a disposizione del soggetto forma il Sé Ideale ossia il rappresentante di come il soggetto vorrebbe essere.

Il Sé reale, il nucleo della personalità dell’individuo si forma a partire dal gap fra questi due forme di soggettività.

 

Una mancata risposta del Sé ideale, ossia un mancato rispecchiamento genitoriale o la deficitaria risposta empatica ai bisogni del bambino, possono produrre una caduta del Sé reale.

Allo stesso modo un eccessivo investimento sui bisogni narcisistici dell’infante, utilizzati come “carburante” per l’autostima parentale, può produrre nel primo un Sé grandioso ma effettivamente fragile.

Se il bambino non ha interiorizzato nella maniera ottimale i succitati processi acquisendo le funzioni di Oggetto-Sé inizialmente svolte dalle figure parentali, non risulta in grado di separarsi da essi, e sviluppare così un proprio Sé reale.

Secondo Winnicot, (i due autori, a mio parere, sono facilmente conciliabili) a tal punto al bambino rimane perciò, come unica alternativa, quella di far ricorso ad un Falso Sé, compiacente e fittizio.

 

La situazione che si viene a creare è una relazione invertita dove sono la figlia o il figlio a dover rispondere ai bisogni narcisistici dei genitori rimanendo intrappolati nel ruolo di Oggetto-Sé.

Così, non potendo a loro volta contare su Oggetti-Sé validi che soddisfino i propri bisogni, sono costretti ad investire di questo ruolo Oggetti-Sé inanimati, quali ad esempio il cibo, lo shopping, la sessualità.

 

Nel caso dei disturbi alimentari è proprio il cibo che da consolazione, come nella bulimia, oppure offre un trionfo onnipotente, nel caso dell’anoressia dove viene fortemente rifiutato in maniera ascetica.

 

Non potendo affrontare il graduale disinvestimento narcisistico dalle proprie strutture psichiche, queste non sono rese capaci di regolare la tensione interiore, lasciando il soggetto ingabbiato nell’ambiente narcisistico della simbiosi materna.

In molti casi possono essere le stesse problematiche narcisistiche dei genitori ad ostacolare una sana evoluzione e l’uscita dalla condizione simbiotica.

Un arresto in questa difficile fase potrebbe comportare una delusione traumatica rispetto alle capacità empatiche dei genitori di rispondere ai bisogni del soggetto, che a sua volta corrisponderebbe ad una mancata o deficitaria separazione dalle figure parentali.

La mancata differenziazione e individuazione rischia di compromettere la coesione e la costanza di Sé e degli oggetti e quindi ostacolare l’istaurarsi di condizioni fondamentali per il benessere interiore e la buona riuscita delle relazioni oggettuali.

Una tale situazione, già di per sé difficile, viene esasperata nella pubertà, quando uno dei compiti evolutivi sta proprio nell’imparare a fare a meno dell’oggetto simbiotico, ossia di affrancarsi gradualmente dagli Oggetti-Sé arcaici e interiorizzarne le funzioni, al fine di avviare in autonomia relazioni mature e trasformative.

Tuttavia, in condizioni problematiche, come quelle sopra descritte, essendo questi Oggetti-Sé inadeguati, non forniscono la base sicura dalla quale partire “alla scoperta del mondo”, per cui lasciano il soggetto solo, spaventato, in preda al panico.

E’ soprattutto la mancanza di controllo e di contenimento da parte degli Oggetti-Sé che rendono il paziente che, “sceglie” la patologia alimentare come espressione del proprio malessere interiore, così vulnerabile alle influenze esterne, delle persone e del cibo.

Nel tentativo di colmare e rassicurare il senso di Sé povero e oppresso, tali soggetti compiono ogni genere di sforzo per ricercare l’attenzione di genitori che li hanno sempre ignorati, piuttosto che orientarsi verso la ricerca più funzionale dell’autonomia, del loro vero essere.

La loro intima essenza è a tal punto subordinata alla necessità di ottenere amore e riconoscimento, da far si che, come abbiamo sopra accennato, nella famiglia si istauri una relazione invertita dove non sono i genitori ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni oggettuali ed emotivi dei figli, ma sono questi ultimi a soggiacere inermi ad un Falso Sé compiacente che li imprigiona in una relazione invischiata e morbosa con figure parentali del tutto inconsapevoli e annebbiati dal loro stesso narcisismo.

 

Per cui, come abbiamo già avuto modo di ribadire il disturbo alimentare, sembra nascere dal fallimento dei tentativi del soggetto che ne è portatore, di ottener conferme, riconoscimento e attenzione da parte dei genitori.

Il cibo utilizzato nelle sue forme patologiche soddisfa il bisogno di un Oggetto-Sé rispecchiante: il senso di efficacia o di stima di Sé non si sviluppa così nelle conferme degli Oggetti-Sé reali ma piuttosto nella capacità di rifiutare il cibo o gestirlo a modo proprio.

Il cibo, come spesso accade nella bulimia o nel binge eating, serve altresì per sedare l’angoscia che deriva dalla deludente esperienza parentale, una sorta di narcotico dell’anima che evita la frammentazione di Sé, e questo è il motivo per cui i rituali alimentari sono così machiavellicamente costruiti e difesi.

Il principio organizzatore di tale struttura di personalità è proprio la negazione di Sé che permette di essere come gli altri vogliono, ma per la sua unilateralità necessita di una compensazione che risiede proprio nella malattia. Il soggetto con disturbi alimentari può essere in definitiva se stesso solo nella disfunzionalità patologica che implica inoltre gratificazione narcisistica ed esibizionistica conferma di Sé.

Poco importa se questo atteggiamento induce risposte negative, esse sono sempre, comunque più convenienti dell’essere ignorata.

 

I sintomi del disturbo alimentare rappresentano un primo tentativo di emancipazione e conferma di Sé come non è mai avvenuto nella vita dell’individuo che li sperimenta; attraverso la gestione autonoma e bizzarra del cibo ci si riappropria delle proprie esigenze interne, precedentemente frammischiate e confuse a quelle genitoriali, proprio lì dove erano state violate la prima volta, ossia nel bisogno di nutrimento affettivo e fisico.

 

Un altro mitologema che riguarda la relazione fra padre e figlia nell’anoressia e nei disturbi alimentari è quello di Atlanta.

 

Atlanta, cresciuta sul monte Partenione, dove il padre l’aveva abbandonata alla nascita perché non voleva che figli maschi, fu aiutata dalla dea Artemide che le mandò un’ orsa, perché la allattasse e in seguito fu raccolta e allevata da alcuni cacciatori.

Si dedicò alla caccia nei boschi e riportò premi nella corsa e persino nella lotta. Atlanta era bella e corteggiata, tuttavia essa non voleva sposare nessuno dei suoi pretendenti, sia per fedeltà ad Artemide, sia perché un oracolo le aveva rivelato che se si fosse sposata sarebbe stata trasformata in un animale. Così annunciò che avrebbe sposato solo l’uomo capace di vincerla nella corsa; se fosse stata lei a vincere, avrebbe ucciso il suo avversario..

Molti giovani avevano trovato così la morte, perché Atlanta, dato all’inizio un lieve vantaggio al suo concorrente, lo raggiungeva facilmente prima della meta, armata di una lancia con cui lo trafiggeva.

Finché si presentò un nuovo pretendente, Ippomene, che riuscì a vincerla con l’aiuto di Afrodite. La dea gli regalò tre mele d’oro raccolte dal Giardino delle Esperidi che egli, seguendone il consiglio, lasciò cadere davanti ad Atlanta, nel momento in cui stava per essere raggiunto. Ogni volta la fanciulla si fermò a raccoglierle, e perciò il giovane vinse la gara e ottenne il premio pattuito.

La gioia fu tale che il giovane dimenticò di ringraziare la dea che lo aveva aiutato e causandone lo sdegno. Così Afrodite per vendetta, abbandonò al proprio destino la coppia, quando dopo aver profanato il tempio della dea Cibele furono da ella mutati uno in leone e l’altra in leonessa .

Atalanta ebbe un figlio, Partenopeo, il quale partecipò alla prima spedizione contro Tebe.

 

Questo mito esordisce raccontando come il padre, deluso di non aver avuto un figlio maschio, abbandona la figlia che poi diventa palesemente mascolina, una sorta di donna-uomo.

Tale processo esprime da parte del padre reale la frequente ricerca nella figlia di una proiezione del proprio Io maschile, offuscato da un sentimento d’Anima troppo invasivo; egli cerca, in altre parole, la propria parte maschile con tutto quello che ne concerne, quindi l’attività, la forza, la determinazione. Questi elementi nella famiglia del soggetto anoressico, come del bulimico, sono a retaggio unicamente del femminile, investito di un Animus indefessamente protetto dagli arrangiamenti della funzione conscia superiore.

Inoltre l’abbandono di Atlanta da parte del padre, rivela da un lato il carattere peculiare dell’Eroe, che solitamente ha un infanzia infausta o attraversata da pericoli, mentre dall’altro sta ad indicare ciò che avviene nella realtà alle ragazze con disturbi alimentari: il padre ben precocemente abdica al suo ruolo genitoriale e abbandona la figlia al suo destino di portatrice delle sue proiezioni, contenitrice delle proprie ansie e paure.

Come abbiamo più sopra sottolineato è la figlia a doversi prendere carico del padre e non come dovrebbe essere, viceversa.

La mela che Afrodite regala a Ippomene, il maschile sano e salvatore, è il simbolo per eccellenza dell’amore e dell’Eros che ha il compito di riportare l’equilibrio fra le funzioni femminili erotiche e quelle maschili legate al Logos.

La conclusiva trasformazione in leone e leonessa per punizione da parte di Cibale/Afrodite, riguarda l’eventualità di commutare il principio equilibratore maschile, in un aspetto eccessivo. Il leone è simbolo della forza e della potenza solare, maschile; come ogni simbolo ha un duplice aspetto luminoso e oscuro, tanto che Sant’Ippolito notava come il leone rappresentasse il Cristo e l’Anticristo. Fra i suoi aspetti negativi si rileva altresì l’istintualità e l’avidità. Questo ultimo aspetto si richiama al fatto che se la funzione sentimento non viene incanalata nel modo più adeguato si trasmuta in istintualità incontrollata, onnipotenza e avidità.

Questo è quello che avviene nel caso dei soggetti con disturbi alimentari, la loro funzione sentimento, il loro Eros non sono adeguatamente convogliati e finiscono per portare il paziente ad uno stato inconscio di maniacale controllo che riguarda il cibo e il peso, l’amore e la sessualità, l’affetto e l’emozione.