Autore: Dott.ssa Francesca Broccoli

vedi Blog dell’Autore http://professioneinfanzia.wordpress.com/2012/10/19/se-i-problemi-del-bambino-portano-i-genitori-in-terapia-3-spunti-di-riflessione-per-capire-perche-e-utile-lavorare-con-e-attraverso-i-genitori-per-aiutare-i-figli/

 

“Nessuno di noi si è alzato con la sola forza del proprio polso. Ce l’abbiamo fatta perché qualcuno si è chinato ad aiutarci”

Tradizione orale africana

Nella pratica clinica accade frequentemente di ricevere richieste di aiuto da parte di genitori che si trovano in difficoltà nel comprendere e gestire alcuni comportamenti dei propri figli.

Col passare del tempo tali comportamenti possono aumentare di frequenza o d’intensità, ma anche ridursi. Resta il fatto che rimane difficile comprenderne il significato per i genitori e per gli altri adulti di riferimento del piccolo.

Naturalmente l’orizzonte e l’entità dei possibili comportamenti sintomatici dei bambini è vastissimo e non mi propongo, in questo breve articolo, di affrontarli o esaminarli in modo specifico. Tra quelli maggiormente oggetto di allarme nei genitori (e quindi alla base della richiesta di consulenza) vi sono i disturbi del sonno, i comportamenti aggressivi/oppositivi, i problemi legati al cibo e all’alimentazione, le manifestazione corporee del disagio, ma anche molti altri.

Ciò che vorrei qui sottolineare riguarda invece l’importanza di approfondire il significato di tali comportamenti all’interno del nucleo famigliare, aprendo le porte della stanza di terapia ai genitori del bambino definito “problematico” (e, a volte, anche agli altri membri della famiglia e ad altri adulti di riferimento).

Perché coinvolgere tutta la famiglia? Perché non trattare solo il bambino e il suo problema? Perché chiamare anche i genitori in seduta?
Per diversi motivi che implicano alcuni cambiamenti di prospettiva.

1) Il problema non si può mai considerare di proprietà di un bambino. Il bambino esprime un problema attraverso un comportamento o un sintomo e, in questo modo, parla di come sta percependo il suo mondo in quel momento.
La stanza della terapia non è un’officina in cui di aggiusta un bambino rotto per poi restituirlo come nuovo alla famiglia.

Il bambino spesso è il portavoce di un disagio che non si esaurisce in lui, è ampio e complesso e riguarda la situazione famigliare nel suo insieme.
Questo non vuole significare che il bambino sta benissimo e funge solo la megafono di un problema altrui, né vuole significare che i suoi genitori abbiano causato il suo stato di malessere.

I comportamenti problematici dei bambini possono avere diversi livelli di significato, cioè essere soggetti a letture interpretative differenti. Di certo nei comportamenti dei bambini vi è una componente relazionale che non può essere tralasciata. Attraverso i sintomi e i comportamenti strani o problematici, i bambini inviano dei messaggi.
La prima azione terapeutica è dunque rappresentata dall’accoglienza per quei messaggi così importanti. Accoglienza che deve accompagnarsi alla decodifica. Il terapeuta può accompagnare i genitori nel delicato e difficile viaggio verso la decodifica dei messaggi che il bambino sta inviando loro.

In molti casi si può ipotizzare che il comportamento problematico mostrato dal bambino sia un suo personale e sofferto tentativo di rispondere o di trovare una soluzione ad una impasse costruita nel tempo. Non è detto che la situazione sia quella vista dal bambino, più spesso si tratta di una situazione che lui interpreta -equivocandola- come necessitante un “aggiustamento” e di cui si fa carico. Del resto i bambini sono spesso attenti spettatori delle dinamiche domestiche, ma non hanno tutte le informazioni e gli strumenti degli adulti, per cui ricostruiscono le vicende attraverso gli strumenti emotivi, cognitivi e informativi (che sono comunque molti) a loro disposizione.  L’aiuto in primo luogo consiste esattamente nel cercare, insieme ai genitori, di capire come il bambino sta vedendo la situazione.

Ecco che il comportamento problematico del bambino diventa allora un comportamento ricco di significato: il tentativo di risposta che sa e può dare alla vicenda che sta vivendo nella sua famiglia. Per quanto spiacevole o doloroso, rappresenta un comportamento congruente ed esprime una forte competenza relazionale.

2) I genitori chiedono aiuto al terapeuta che, a sua volta, chiede aiuto a loro. Perché? Può apparire un controsenso.
Chiedere ai genitori di aiutare il proprio bambino a stare meglio attraverso la loro presenza in seduta e la loro diretta collaborazione può comportare una reazione di diffidenza e perplessità.
Può capitare che pensino -come molti colleghi purtroppo- che la terapia sia solo individuale e quindi rimangano stupiti dalla possibilità di dover partecipare insieme ad una stessa seduta.
Più frequentemente temono di sentirsi sotto accusa e si chiedono cosa c’entrino loro col problema del figlio.
Proprio a tal proposito è necessario trasmettere ai genitori di bambini in difficoltà un messaggio molto chiaro: coinvolgerli non significa colpevolizzarli o ritenerli responsabili della sofferenza del loro bambino.

Al contrario permettere ai genitori di intraprendere un percorso terapeutico che renda loro visibile la connessione tra i problemi manifestati dal bambino e i modi di funzionare e comunicare della famiglia, non può che valorizzarli e renderli i primi e più efficaci aiutanti del loro bambino.

I genitori sono effettivamente coloro che possono fare di più per il bambino. Per questo è importante supportarli e restituire loro che sono competenti nel comprendere loro figlio e nell’attivare un cambiamento utile a tutti.

E’ chiaro che collaborare direttamente con i genitori rende molto più efficace e solido nel tempo l’intervento terapeutico.

3) La richiesta di aiuto dei genitori ha un valore essenziale. Non è una sconfitta. Rappresenta un modo per dire al bambino: “ti vedo”. Un bambino, infatti, sta meglio nel momento in cui l’ambiente in cui vive è in grado di vederlo, di riconoscerne le esigenze e di chiedersi come partecipare alla sua crescita, anche nei momenti di crisi.

Chiedere aiuto per il proprio bambino significa aver riconosciuto le sue difficoltà, ma anche le proprie. Tale testimonianza di consapevolezza della propria limitatezza costituisce, già di per sè, un insegnamento di grande valore: mamma e papà non sono onnipotenti, ma hanno le risorse e le capacità di aiutare il proprio bambino.

Inoltre i bambini non possono chiedere aiuto direttamente, non possono andare da uno specialista, Parlano con il corpo il più delle volte, usano se stessi e le loro azioni per comunicare con i loro adulti di riferimento: la mamma, il papà, i nonni, le maestre, gli zii,ecc. E’ dentro e attraverso la famiglia che comunicano e si esprimono. E’ lì che si esaurisce il loro mondo affettivo.
Non è possibile comprendere un bambino al di fuori della sua famiglia. Il contesto dà ragione dei significati e il contesto di vita di un bambino è quello delle sue relazioni primarie significative.

In conclusione quando un bambino presenta delle difficoltà, dei sintomi o dei comportamenti problematici, il coinvolgimento dei suoi genitori nel percorso terapeutico è fondamentale ed aumenta le possibilità di comprensione del problema, così come quelle di soluzione.
I comportamenti dei bambini hanno sempre un senso.
Per coglierlo è necessario poter inserire quei comportamenti, inizialmente incomprensibili, all’interno di una cornice che quel senso lo riveli poiché ha contribuito a costruirlo. Ecco perché è così preziosa la presenza dei genitori: per il bambino e per il terapeuta.