Autore: Dott.ssa Ada Moscarella

vedi Blog dell’Autore http://www.ampsico.it/index.php/disturbi-trattati/267-gioco-d-azzardo-patologico

 

Una domanda che mi viene posta spesso è: «il gioco d’azzardo è simile alle altre tossicodipendenze?»

A mio parere la vera differenza non sta nel fatto che in un caso a creare la dipendenza sia una sostanza e nell’altro un comportamento.

Ciò che fa del gioco d’azzardo una dipendenza diversa dalle tossicodipendenze è che quando si consuma una sostanza stupefacente si è “drogati” sin dalla prima assunzione, mentre nessuno ha qualcosa da dire se ci vede comprare un gratta e vinci o se trascorriamo una serata al bingo o se organizziamo una partita a poker tra amici.

Per queste ragioni la ludopatia si avvicina più all’alcolismo.

Mai vedremo una pubblicità dove un personaggio famoso va a comprare la cocaina da uno spacciatore e mai sentiremo, nemmeno a velocità supersonica, frasi come «drogati responsabilmente».

Invece vediamo sportivi come Rafa Nadal o Ronaldo sponsorizzare una piattaforma di poker on line o attrici come Charlize Theron che iniziano la loro carriera pubblicizzando una bevanda alcolica.

Ad accomunare alcol e gioco d’azzardo anche le frasi di avvertenza.

“BEVI RESPONSABILMENTE”“GIOCA RESPONSABILMENTE”.

Questo rende tutto estremamente scivoloso e sfuggente:

qual è il limite tra normalità, abuso, dipendenza?

Già per un clinico la diagnosi è complicata, figurarsi per la famiglia e per chi la dipendenza rischia di averla. Anzi, i giocatori tendono a cavalcare fortemente questa ambiguità per minimizzare la propria dipendenza e convincere sé e gli altri che il loro comportamento è sotto controllo.

Eccoci arrivati al punto fondamentale della dipendenza: IL CONTROLLO.

Mano a mano che la dipendenza si insinua, il giocatore sfida (e perde) la sua battaglia per dimostrare a sé e soprattutto a chi lo circonda che ha il controllo sul suo comportamento. La famiglia, sempre più allarmata dalle condizioni del congiunto, ingaggia una guerra solo apparentemente sana, ma in realtà del tutto simile a quella del giocatore: la battaglia per il controllo sul parente, nel tentativo di non farlo giocare più.

Nasce così un profondo paradosso: più la famiglia cercherà di controllare il giocatore, più il giocatore avrà voglia di dimostrare agli altri che il suo giocare non è affatto patologico: LUI E’ UN GIOCATORE NORMALE! E per dimostrarlo ha una sola strada…CONTINUARE A GIOCARE! Se smettesse, infatti, dovrebbe ammettere di aver perso il controllo, che giocare è un problema…e se c’è una cosa che un giocatore non ama è proprio perdere!

Quella del controllo è una faccenda antica per la psiche umana, che ha radici lontane, risalenti alle prime relazioni del bambino con le figure di accudimento. Il neonato infatti, seppure sia in effettive condizioni di grande dipendenza fisica, vive dal punto di vista psichico e relazionale un’esperienza di grande onnipotenza e controllo: dispone dei suoi genitori, soprattutto della madre, praticamente a suo piacimento.

Con la crescita inizia a scontrarsi con l’amara realtà: l’onnipotenza non è che una fantasia e sarà necessario imparare a fare i conti con la frustrazione e la necessità di rinunciare o differire nel tempo la realizzazione di un desiderio.

Questa rinuncia, che all’apparenza può sembrare costosa, porta con sé un grande premio: la possibilità di poter avere relazioni autentiche, affettuose e calorose con l’altro.

Chi sviluppa una dipendenza, però, è un individuo che non si è arreso a questa realtà ed invece di rinunciare all’onnipotenza, la sfida. E preferisce rinunciare alle persone.

Un oggetto inanimato ci permette di vivere l’illusione di qualcosa di somigliante all’onnipotenza infantile, come se potessimo recuperare, da adulti, quella sensazione di potere e controllo assoluto. Ciò che rende il tutto estremamente drammatico è che queste illusioni appaiono davvero reali nei primi mesi della dipendenza. Rossella Aurilio, psicoterapeuta sistemico relazionale, da sempre impegnata nel campo delle dipendenze, in particolare dell’alcolismo, descrive le dipendenze con una metafora davvero suggestiva ed efficace. Esse sono «una storia d’amore cui è stato fatto un maleficio: l’oggetto d’amore diventa da divorato il divorante».

Quali allora le possibilità per chi è entrato nel tunnel del gioco d’azzardo?

L’eventualità preferibile sarebbe di certo non cadere nella dipendenza da gioco, ma ahimè molti attori istituzionali non sembrano pensarla così e vedono nel gioco una fonte di reddito per le casse statali, mostrandosi estremamente miopi non solo sulle ripercussioni sociali di tale atteggiamento, ma persino sulle ripercussioni economiche per quelle stesse casse dello stato che si illudono di rimpinguare.

A differenza di altri tipi di dipendenza, poi, nel caso del gioco d’azzardo può pesare molto gravemente non solo la patologia, ma anche il dissesto finanziario, che trascina inevitabilmente a fondo l’intera famiglia e la espone ad ulteriori pericoli, come quello di rivolgersi a personaggi poco raccomandabili per ottenere soldi facilmente.

Uscire dalle dipendenze, e quindi anche dalla dipendenza da gioco, si può. E’ un cammino lungo e faticoso, mai uguale, mai lineare. Tutti sono coinvolti e tutti devono cooperare per un piano non di salvezza miracolistica, ma di costruzione di benessere quotidiano, psicologico e sociale. Nient’affatto facile, se tutto intorno sembra invogliare a fare una puntatina o una grattatina. Le crisi, le ricadute, la voglia di rinunciare (della famiglia, del giocatore, pure degli operatori che cercano di aiutarli!) sono sempre dietro l’angolo. Occorre grande competenza da parte dei professionisti, grande pazienza da parte di tutti, soprattutto dei familiari, e soprattutto grande creatività da parte di tutti.