Autore: Dott.ssa Maria Grazia Antinori
vedi Blog dell’Autore http://corsi-psicodiagnostica-psicoterapia.arpit.it/it/la-vergogna-un-emozione-antica-molto-moderna-a124/
Articolo pubblicato sulla rivista “Argonauti”, Dicembre 2011 N. 131
La vergogna è un’emozione paradossale che si pone nel punto di snodo tra aspetti contraddittori: è occulta e poco nominata, di difficile definizione, somma di fattori diversi non sempre distinguibili e soprattutto volatili.
È un oggetto che presuppone la consapevolezza dello sguardo dell’altro e allo stesso tempo vanta radici arcaiche nel corpo; è al contempo mobile e statica, interna ed esterna, antica e moderna. L’ambiguità della vergogna può accostarsi al funzionamento del cubo di Rubik: come il famoso gioco rompicapo composto da tessere multicolori che possono essere combinate in modo caotico o in facce di colori uniformi, così la vergogna può risultare un mosaico disordinato di fattori o assumere una funzione prevalente.
Ad esempio hanno ruoli opposti la vergogna-segnale e quella patologia, la prima è assimilabile al pudore ed assolve al compito evolutivo di mantenere e proteggere lo spazio privato del Sé, mentre la seconda la vergogna-sintomo, si trova in quadri psicopatologici quali borderline, narcisistici e psicotici. La vergogna è un affetto che assolve anche ad un’importante funzione evolutiva in quanto focalizza l’attenzione sul modo in cui gli altri ci vedono, contribuendo alla conoscenza e alla consapevolezza personale (Sartre, 1943). È stimolo per lo sviluppo e la crescita (Lynd, 1958) ma allo stesso tempo può trasformarsi in un penoso impedimento, come il disagio che molte persone provano per il semplice sentire o esprimere emozioni, vissute come segno di dipendenza, di debolezza e di vulnerabilità (Pandolfi, 2002).
Pur essendo un affetto riconosciuto sul piano personale, la vergogna è poco nominata nelle relazioni sociali, occupa una posizione marginale anche nella psicologia e nella psicoanalisi tanto da essere definita la “Cenerentola delle. emozioni spiacevoli” (Rycroft, 1970), ciò nonostante è un affetto che mantiene il suo potere e centralità. Una complessità della vergogna è che si colloca tra il narcisismo e le relazioni oggettuali, coinvolge la sfera della massima privatezza ed intimità ed anche l’area delle relazioni e del sociale (Semi, 1990).
Un altro paradosso è che pur essendo unsentimento immediato, forte ed invasivo, è allo stesso tempo un’emozione complessa in quanto emozione sociale o interpersonale (Batacchi, 1992), ossia è un affetto che acquista significato nel confronto tra l’immagine di sé ed il giudizio dell’altro. Si prova vergogna per qualcosa che fa sentire diversi ed esposti allo sguardo altrui, trasformando la persona in portatore di un segno speciale che la sottrae all’anonimato per una motivazione ritenuta disdicevole o sbagliata. Diventa invasivo lo sguardo che si posa sul corpo, che coglie la più segreta intimità, perforando la barriera protettiva della pelle psichica che protegge lo spazio psichico privato, come l’epidermide protegge e delimita i confini della fisicità (Anzieu, 1985). Il corpo esposto diventa metafora della nudità psichica, espressione della violazione della privacy, dello spazio privato del Sé. La vergogna è strettamente intrecciata al corpo soprattutto al senso della vista, si manifesta con perturbazioni fisiche quali il rossore, l’abbassare lo sguardo, l’incurvare le spalle, l’assumere atteggiamenti ritirati che nascondono e mimetizzano (Fenichel, 1946). Borgna (2001) scrive della vergogna come un’esperienza psicosomatica che nasce e si muove nella vita interiore ma che si manifesta nel corpo che diventa espressione del turbamento e dello smarrimento, n’è esempio il volto che avvampa, che arde, testimonianza visibile di un turbamento che si vorrebbe nascondere, ma che il corpo evidenzia allo sguardo dell’altro.
L’esperienza della vergogna si colloca così ancora una volta in un’area ambigua e paradossale, in quest’eccezione nello spazio intermedio tra corpo e parola. È legata allo svelamento, allo smascheramento, quindi a qualcosa che si vede e si coglie più con lo sguardo ed il linguaggio del corpo, piuttosto che con il pensiero e con la parola. Tradurre in parole l’esperienza della vergogna toglie a quest’affetto molto del suo mordente, rendendolo più tollerabile e pensabile (Monti, 2003). Un’altra caratteristica ambigua della vergogna è che si associa e si trasforma facilmente in altri affetti quali la rabbia-furore (Lewis, 1992), l’invidia, la colpa o determina condotte evitanti o di contrapposizione o di competizione aperta è infatti instabile, volatile e quindi più difficile da cogliere rispetto, ad esempio, alla tristezza o all’euforia. È un’emozione episodica poco persistente che funziona per eccessi in base alla legge del tutto o nulla (Monti, 2003).
Pur nella sua complessità e il non sempre agevole riconoscimento, è un’esperienza comune soprattutto in alcuni momenti della vita, come durante l’acquisizione del controllo sfinterico e dell’adolescenza. L’ambiente, scrive Erikson, nella fase anale-muscolare compresa tra i due ed i tre anni, dovrebbe appoggiare il desiderio del bambino di autonomia e di sperimentazione, pur proteggendolo da un’esposizione inutile alla sfiducia verso le sue capacità. “La vergogna è un’emozione infantile non sufficientemente studiata, perché nella nostra civiltà molto presto e molto facilmente, viene confusa con il senso di colpa. Vergogna vuol dire essere completamente esposti e consci di essere osservati, in una parola autocoscienti” (Erikson, 1974,). Questo tipo di esperienza infantile può trasformare il piccolo vergognoso, in un adolescente difficile.
Come scrive Borgna (2001) il passaggio tra preadolescenza ed adolescenza è particolarmente sensibile alla vergogna, in quanto alla spontaneità dell’infanzia centrata sul tempo presente e sul passato, si sostituiscono le incertezze e le insicurezze dell’età che apre alla scoperta della dimensione del futuro e quindi delle attese ed ai timori per un avvenire ancora sconosciuto. L’adolescente è così esposto alle contraddizioni che nascono dal conflitto tra l’essere legati e ancorati al passato, e l’essere al contempo sollecitati e spinti al distacco e all’autonomia ed all’espressione di una propria personalità differenziata da quella dei genitori. In questo spazio si colloca il vissuto della vergogna intesa come difficoltà a sviluppare e definire una propria identità.
Freud si è occupato in modo marginale anche se significativo, della vergogna. Questo scarso interesse deriverebbe oltre che da ragioni personali, da motivazioni teoriche, in particolare per la centralità psicoanalitica attribuita al conflitto e alla colpa edipica legata al Super-Io, posizione teorica che in qualche modo, ha oscurato l’interesse per la vergogna. (Goldberg, 1988, Pandolfi, 2002). Freud, nei suoi scritti iniziali con Breuer all’epoca del metodo catartico, tratta quest’affetto come un evento traumatico: “può agire come trauma qualsiasi esperienza provochi gli affetti penosi del terrore, dell’angoscia e della vergogna, del dolore psichico e dipende ovviamente dalla sensibilità della persona colpita se l’esperienza stessa agisce come trauma “(Breuer & Freud, 1893). In seguito, nello studio dello sviluppo psicosessuale, Freud fa assumere a quest’affetto una piena funzione di difesa dagli impulsi sessuali parziali e voyeuristici (Freud, 1905). Questa interpretazione resterà prevalente, anche se sarà riconosciuta alla vergogna, una funzione più ampia e complessa nel saggio “Il poeta e la fantasia” (1907), dove è collegata all’ambizione e alla paura di derisione: “l’adulto si vergogna delle sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole entro di sé come cose assolutamente private e intime: in genere preferiscono confessare le proprie colpe piuttosto che comunicare le proprie fantasie”. L’adulto si vergogna delle fantasie ad occhi aperti perché le considera un’attività infantile da nascondere per la sua natura e per il contenuto che svelerebbe desideri illeciti.
Solo dagli anni cinquanta si è acceso un interesse specifico per la vergogna, in concomitanza al ruolo sempre più ampio del narcisismo, allo sviluppo della psicologia del Sé e all’esperienza clinica con sempre più numerosi pazienti borderline e con patologie narcisistiche. Piers & Singer (1958) sono gli autori che hanno contribuito a definire le qualità psicodinamiche della vergogna rispetto alla colpa. Essi hanno interpretato la vergogna come la reazione affettiva scatenata dallo scarto, dalla distanza eccessiva tra l’Io ed il suo ideale. Un gruppo d’analisti ha sviluppato questa teoria legando l’affetto non tanto ad un conflitto oggettuale esterno, ma piuttosto ad un conflitto di natura narcisistica tra l’Io e l’Ideale dell’Io che più è megalomane e primitivo, più è esposto alla frustrazione e al disconoscimento (Grundberger, Chasseguet & Smirgel, Guillomin, citati in Pandolfi, 2002).
Pur essendo due emozioni separate con un’origine psicodinamica specifica, la colpa e la vergogna conservano tratti comuni importanti. Come scrivono Lopez & Zorzi (2003) sono emozioni relazionali “entrambe figlie della paura”. Il bambino dipende dal comportamento dei genitori, se questi ritirano il loro amore, il piccolo prova angoscia di perdita che a sua volta genera un sentimento d’inadeguatezza, incapacità e vergogna o colpa per non riuscire a soddisfare le richieste dei genitori. La vergogna e la colpa diventano una sola cosa, quando l’Io Ideale è rigido e mal integrato e sovrapposto ad un Super-Io sadico; al contrario i due affetti sono pienamente riconoscibili, quando Io-Ideale maturo che spinge la persona alle più elevate realizzazioni, è separato dal Super-Io, costrittivo e limitativo. Altri aspetti importanti sono stati approfonditi da Lynd (1958) che ha attribuito alla vergogna e al senso di colpa, la funzione di regolare la distanza intersoggettiva: la vergogna dal versante del soggetto, la colpa invece dalla parte dell’oggetto.
Secondo Lynd, la vergogna è in stretta connessione con l’identità, è provocata da esperienze che mettono in discussione l’immagine di sé, costringe a vedersi con gli occhi degli altri e a riconoscere le differenze tra queste due visioni. Le esperienze vergognose quando sono accettate ed elaborate, accrescono la conoscenza di sé e la possibilità di cambiamento positivo, quando invece sono negate, provocano lo sviluppo di una corazza difensiva che allontana la persona dalla sua realizzazione e che ha come conseguenza anche quella di limitare la capacità empatica nella relazione con l’altro. Gli autori psicoanalitici, pur nelle loro differenze, hanno concordato nel riconoscere alla vergogna una funzione attinente alla tutela dei confini dell’identità, quindi un ruolo di regolazione narcisistica, distinguendola dalla colpa che è invece rapportata all’oggetto e alla preservazione dei suoi confini (Pandolfi, 2002).
Tra gli psicoanalisti contemporanei, l’americano Bromberg che si riconosce nell’approccio relazionale, ha valorizzato e riconosciuto la centralità della vergogna, come una delle difficoltà principali nell’approccio clinico agli stati dissociati del Sé. La vergogna dissociata, può attivare una serie d’acting-out che possono essere fermati solo quando l’analista riconosce e dà parola al forte vissuto di vergogna del paziente. Il terapeuta è l’unica persona che può dare aiuto e sollievo al paziente ma paradossalmente, è anche la causa del suo dolore, il rapporto terapeutico rischia di essere vissuto come traumatico e pericoloso. Bromberg, come il primo Freud, collega la vergogna al trauma e alla paura. Il trauma il più delle volte, non è di natura drammatica o sessuale ma piuttosto comulativo, ripetuto, come quello descritto da M. Khan (1983). Il paziente ripercorre nel processo analitico le situazioni traumatiche del passato, prova vergogna nel qui-e-ora, ma non può comunicare il suo dolore in quanto è lo stesso terapeuta fonte della sua sofferenza e del pericolo per l’integrità del Sè, il risultato è la dissociazione e l’acting-out.
La tendenza dell’adulto alla dissociazione patologica, secondo Bromberg, dipende dalla storia evolutiva precoce, in particolare dal mancato riconoscimento genitoriale. “I genitori non sono stati in grado di riconoscere aspetti del Sé autentico del bambino,essi fanno vivere al piccolo una situazione traumatica e nella maggior parte dei casi è la vergogna dissociata dei genitori, generata dal loro stessa esperienza di sé compromessa, a rendere impossibile il riconoscimento delle qualità del bambino” (Bromberg, 2006, p. 147).
Un modo interessante ed articolato di considerare la vergogna, sia da un punto di vista individuale che interpersonale, è proposto da Racamier, un analista che si riconosce pienamente nel pensiero freudiano. Nel suo libro postumo “Incesto ed incestuale” (1995), egli accenna alla vergogna come conseguenza della disconferma dell’oggetto incestato, ossia di chi è invischiato e subisce una relazione incestuale. L’incestuale è un neologismo che descrive una speciale condizione della vita psichica e relazionale dove l’incesto, non agito ma presente, aleggia nell’atmosfera emotiva di un paziente, di una famiglia o di un gruppo di lavoro.
Racamier, nei suoi scritti sceglie un linguaggio poetico, ricco di neologismi per descrivere il suo lavoro frutto di una lunga esperienza clinica con pazienti psicotici e le loro famiglie. Egli ha osservato come l’incesto incontrato in situazione psicotiche, il mero atto fisico, impedisca l’accesso all’Edipo fantasmato che può prendere forma solo poggiandosi su una fase complementare che egli chiama Antedipo, una sorta di fase preparatoria ma anche contemporanea, all’Edipo. Sulla scena psichica dell’Antedipo s’incontrano due soli personaggi, il bambino e la madre, all’inizio della vita il neonato ha bisogno di un nido protettivo.
All’unità corporea della gravidanza, subentra la reciproca seduzione narcisistica, una potente forza d’attrazione che consente alla madre adulta di ritrovare l’unisono con il neonato ancora immaturo e così diverso da lei. Si tratta di una speciale unione che esclude, per una breve fase, l’ambiente esterno ed il padre, che saranno progressivamente di nuovo integrati per l’azione delle forze di crescita e sessuali. Se la seduzione narcisistica segue il corso ideale, questa diminuisce a mano a mano, depositando nel bambino un sentimento profondo d’appartenenza al mondo, di familiarità con il reale, quello che Racamier definisce “l’idea dell’Io”, base per il senso del limite e della sicurezza. Il “lutto originario” è il processo psichico fondamentale per il quale l’Io rinuncia al possesso totale dell’oggetto, compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta, fonda le sue origini, scopre l’oggetto e la capacità d’empatia.
È questo lutto originario che permette di passare dall’Antedipo costruttore dell’identità, all’Edipo fondamento dell’identità sessuale. Secondo Racamier, l’incestualità è molto diffusa nelle famiglie, nei gruppi di lavoro, è un clima, un registro della vita interiore che attraversa anche le diverse patologie. “L’incestuale è un clima in cui soffia il vento dell’incesto, ovunque arrivino le sue raffiche, si crea il deserto, si instilla il sospetto, il silenzio ed il segreto” (Racamier,1993). È una condizione d’incesto morale, in cui il genitore, spesso la madre, fa una proiezione narcisistica invasiva sul bambino che si trasforma in oggetto incestuale, oggetto feticcio, a cui è proibito avere desideri propri e soprattutto gli è negato il valore narcisistico.
Si tratta di una squalifica, di un discredito portato al valore e sulla qualità intrinseca delle capacità e delle realizzazioni di un individuo, una profonda ferita narcisistica che fa vivere nella paura e nella vergogna. L’incestato è squalificato nella sua elaborazione fantasmatica personale, nella capacità di desiderio, nell’integrità dell’Io, nel narcisismo, nel corpo e nella psiche. Racamier descrivendo la lunga psicoterapia di una giovane paziente oggetto di seduzione abusante e trascuratezza affettiva, scrive: “Come succede a tutti i soggetti squalificati, poté riconoscere e ricostruire il filo delle sue frustrazioni passate, e quindi ricomporre in qualche modo la trama del suo Io, non senza enormi difficoltà, vergogna, dolore e rabbia. Provava molta vergogna nel riconoscere gli abusi narcisistici e sessuali commessi su di lei dalla madre” (Racamier, 1995).
L’oggetto incestuato, incarna un ideale assoluto, concentra tutti i poteri è investito come un idolo che illumina l’idolatra ma allo stesso tempo e questo è il paradosso, è deprivato d’ogni valore e riconoscimento personale. L’associazione di Racamier della squalifica alla vergogna, sembra essere una perfetta quadratura del cerchio, una visione completa della vergogna patologica, spiegata in una logica di perversione narcisistica sia dal versante di chi subisce la squalifica, che da quello che la infligge. Il portatore di vergogna, non potrà mai essere all’altezza della sua funzione d’idolo in quando n’è solo un simulacro, uno specchio riflettente del narcisismo altrui. Non ha possibilità di successo, quando scopre l’imbroglio si copre di vergogna e si riempie di rabbia, non potrà mai avvicinarsi all’Ideale dell’Io proiettato dai genitori, inoltre si sentirà in colpa per il suo fallimento.
Aldo, un paziente di trentacinque anni, si vergogna profondamente e dolorosamente della sua mascolinità che considera così inadeguata da essere certo che nessuna ragazza carina lo potrà scegliere e provare desiderio per lui. Crede fermamente nella sua tesi, nonostante le evidenti e frequenti disconferme della realtà che giustifica sottolineando difetti o limiti nelle donne che lo corteggiano. Progressivamente arriva ad ammettere la sua paura per le donne che lo porta ad assumere atteggiamenti di ritiro o di fuga, a tratti riesce a riconoscere il proprio ruolo e responsabilità negli insuccessi: non sono le donne a sfuggirlo ma è lui che per paura sabota la possibilità di successo. La sessualità è il campo di battaglia di Aldo, ma il suo problema è un difetto d’identità, si vergogna profondamente del suo corpo così come considera inadeguata la sua persona, una conseguenza è che chiunque gli si avvicini assume uno scarso valore. La vergogna di Aldo spesso si trasforma in rabbia, vissuti paranoici, fantasie ipocondriache, tutte difese per allontanare il momento dell’incontro con lo sguardo dell’altro che possa cogliere e smascherare la sua intimità danneggiata.
È profonda e ripetuta la traumatica squalifica narcisistica che il piccolo Aldo ha subito nell’infanzia nella relazione con una madre troppo occupata a curare un marito a lungo e gravemente depresso; tanto che oggi Aldo, da adulto, ripete incessantemente un copione di esclusione e di isolamento affettivo.
Ben diversa è la situazione della vergogna leggera, quella protettiva, associabile al pudore, alla privacy, alla conservazione di uno spazio privato del Sè, alla preservazione di quelli che Racamier definisce i segreti libidici, che contrappone ai segreti incestuosi tipici delle famiglie in cui soffia il vento dell’incestualità. Entrambi i segreti hanno in comune i temi: il sesso, la genesi o la fine della vita. Sono due entità profondamente diverse in quanto i segreti libidici sono aperti alla vita e in certo senso la proteggono, mentre i segreti antilibidici hanno una funzione opposta di sbarramento e di chiusura. La cura per la vergogna provata dalla persona che hanno subito una pesante squalifica incestuale, passa per la rigenerazione narcisistica: «(…)dobbiamo mettere in valore ciò che emana dal soggetto stesso, pur nella sua banalità; gli offriamo, a lui che si credeva per sempre condannato a compiere azioni straordinarie e prodezze, di sentirsi accettato anche quando rimane al suo livello e nel suo ambito quotidiano. Affronteremo gli abissi narcisistici che ha patito, lontano dalle seduzioni che lo hanno « (Racamier, 1995).
Nella nostra epoca postmoderna che il sociologo Bauman definisce “società liquida”, alle persone risulta difficile tollerare una propria identità differenziata che comprenda la capacità di sentire e riconoscere le emozioni, di avere confini, limiti ed origini certi. Le persone per non sentirsi escluse, sono spinte ad adeguarsi spesso nel ruolo di consumatori, alle richieste dei diversi gruppi sociali. In questo clima, la vergogna un’emozione per alcuni scomparsa, sembra assumere una posizione centrale nella clinica e nel sociale. I pazienti si vergognano della propria fragilità e dei traumi vissuti nel passato riattivati nel qui-ed-ora del transfert; nel sociale la squalifica narcisistica si manifesta in vesti cangianti come la paura di vivere e riconoscere la propria specificità ed originalità, nel trattare gli affetti come oggetti sconvolgenti e dannosi, nell’imitare modelli esterni privi di valore se non quello della momentanea visibilità mediatica.
La vergogna-pudore sana ed evolutiva, sembra obsoleta e desueta, al suo posto si osserva sempre più frequentemente la paura dell’invisibilità e del disconoscimento, timori che evidenziano un serio deficit narcisistico. Tutto ciò sembra confluire nel concetto di Racamier di amalgama incestuale: confini incerti tra le persone, onnipotenza, confusione generazionale, segreti antilibidici, negazione, diniego, scissione.
La vergogna, un’emozione antica, riconferma la sua posizione di crocevia tra interno ed esterno, tra normalità e patologia, tra psiche e corpo e soprattutto il suo ruolo molto attuale, di sentinella dell’integrità del Sé.
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