traduzione ad opera del Dott. Niccolò Nesti
Nuovi paradigmi per l’orientamento nel XXI secolo
“accettare di camminare senza sentiero
e tracciare il sentiero del cammino …”
Morin
Una lectio magistralis che abbia per tema i nuovi paradigmi per l’orientamento nel XXI secolo è sfidante per il tema e per il tempo disponibile. Il rischio è quello di fare un melting pot comunicativo, un minestrone di argomenti che sfianca la platea… ed anche me. Nonostante la vastità dell’argomento però accolgo la sfida e mi faccio guidare dalla frase di Morin e provo a tracciare qui con voi le linee di un cammino da
L’età che stiamo attraversando sarà ricordata per la scolarizzazione, la democratizzazione, l’industrializzazione, la caduta dei muri e dei valori, lo sviluppo delle tecnologie informatiche e della comunicazione che hanno portato a una società dove tutto è connesso e interdipendente, una società liquida dove prevalgono la ‘cultura dell’adesso‘ e la ‘cultura della fretta’. Culture che messe insieme mettono in crisi anche le dimensioni costitutive più intime della personalità e del comportamento, come le aspirazioni e le potenzialità di costruirsi persone, cioè soggetti capaci di pensare, di aderire a principi e obiettivi di autoregolazione e soddisfazione, di instaurare relazioni interpersonali gratificanti e portatrici di un equilibrio emotivo non effimero. Globalizzazione e tecnologia hanno realizzato nel sociale, la legge fisica dei vasi comunicanti. Ne deriva che mutevolezza e precarietà sono il carattere fondamentale della nostra dimensione.
Un recente articolo di Alberoni sul Corriere della Sera, che riporto quasi integralmente recita: ”La società liquida prigioniera della crisi! Potremo resistere solo se diverremo solidi anche noi… Ebbene la crisi economica, insieme alla concorrenza delle nuove potenze economiche… potrebbe costringerci a cambiare…
Esercitano una concorrenza terribile sulle nostre imprese, sul mercato del lavoro, e non potremo più reggere a questa pressione conservando le nostre abitudini liquide, la nostra assuefazione al pressappoco, a rinviare, a complicare, i nostri ritmi di lavoro, la nostra burocrazia pachidermica, la nostra scuola bonacciona. Le società che ci sfidano non sono liquide, sono solide, solidissime hanno smisurate ambizioni, ferrea disciplina. Resisteremo e conserveremo la nostra prosperità solo se sapremo diventare anche noi solidi. E come? Non certo rinunciando alla nostra libertà, ma con una razionalizzazione su cui tutti sono d’accordo, che consideriamo ovvia ma non facciamo. Ci servono amministrazioni pubbliche snelle, un sistema giudiziario rapido, un sistema fiscale equo, una informazione seria, una educazione rigorosa, una scuola e una università che producano altissime competenze. Occorre dare opportunità ai capaci, incominciando dalle donne oggi ancora discriminate.
Dobbiamo creare una mobilitazione come se fossimo in guerra, per cui tutti fanno meglio, lavorano di più, studiano di più, inventano di più” (Alberoni Corriere della sera) Questo articolo mi ha fornito lo spunto per condurre alcune riflessioni in alcune areedell’attuale condizione sociale. Comincerei dal:
Lavoro provvisorio e formazione permanente
Se consideriamo, adesso, il mondo del lavoro nella società liquida rileviamo anche in questo campo i continui cambiamenti prodotti dalla globalizzazione del mercato dei consumi. Jacek Wojciechowski, esperto di insegnamento universitario, nel 2004, osservava: “Una volta la laurea offriva un salvacondotto per esercitare la professione, sino all’età della pensione: ma questa ormai è storia. Al giorno d’oggi, la conoscenza deve essere continuamente rinnovata, e anche le professioni devono cambiare.” La necessità di acquisire sempre nuove conoscenze/informazioni, per poter galleggiare nel mondo del lavoro, unita al rapido invecchiamento delle tecniche di ieri, producono ignoranza e alimentano il mercato dei vari “corsi professionali” e “di aggiornamento”. Il concetto di “lifelong education” o “educazione permanente” è frutto di questa situazione e tende a diventare una necessità per la gran parte delle categorie lavorative.
Il rischio costante, che ne deriva, è quello di essere “esclusi dal gioco” e “buttati fuori bordo”, di subire la perdita del lavoro, sia a livello individuale che come azienda. Intanto si scatena e si alimenta l’ansia di vivere.
Se poi si considera questo fenomeno su scala mondiale, rileviamo che è su questa base che si fonda la differenza tra Terzo Mondo e Mondo Occidentale.
Quante più conoscenze, tecniche soprattutto, saranno necessarie per affrontare il mondo del lavoro, tanto più si allargherà il gap tra i due mondi, creando e aumentando ingiustizie sociali, con tutti i possibili, devastanti, effetti collaterali.
Continuerei in questo girovagare con l’area dell’:
Istruzione pubblica vs. privata
Il discorso diventa politico e si concentra sulla scelta se gestire l’istruzione a livello statale o lasciarla al mercato “privato e libero”. Quest’ultimo è rappresentato dalle scuole professionali e di specializzazione, gestite come aziende, senza nessuna “mission” sociale.
Se il “mercato dell’insegnamento” viene affidato alle scuole private a pagamento, assisteremo ad un sempre maggiore aumento delle ingiustizie sociali e di tutte le tensioni che ne derivano.
Non meno importante e proprio perché ci riguarda in prima persona come protagonisti della scena sociale è l’area relativa a:
Persone e individui
“Quando cozziamo contro il muro della crisi, tendiamo subito a rimbalzare indietro in stato di choc, in una condizione di temporanea confusione e di transitoria regressione che coinvolge il nostro essere e le nostre azioni, sentendoci attirati contemporaneamente verso un percorso di vita più equilibrato”. (John Whitmore)
Ognuno di noi possiede una identità profonda che si alimenta di senso e di significato per percorrere in equilibrio il proprio cammino. Un capitolo emergente è quello che riguarda la parte spirituale, l’intima essenza di ogni persona. Oggi siamo pervasi da un senso di solitudine cosmico alimentato dalla mancanza di certezze assolute. “Siamo arrivati al paradosso; siamo tecnicamente progrediti e nello stesso tempo umanamente privi di significato, umanamente irrilevanti”. (Franco Ferrarotti)
Torniamo al nostro spazio nazionale, micro spazio mi verrebbe da aggiungere dopo questa prima panoramica, viene semplice, visto che parliamo di orientamento fare riferimento alle nostre giovani risorse e sbirciare i dati relativi all’occupazione.
L’ISTAT nel rapporto sulla disoccupazione giovanile per l’anno in corso ha pubblicato dati che potremo definire a dir poco allarmanti!
In Italia i giovani under 35 senza lavoro sono 1.183.000. Ma quelli che stanno peggio sono i ragazzi fra i 15 e i 24 anni, perché il loro tasso di disoccupazione è da recorde sfiora il 30% rispetto al 21% della media europea. La Sicilia rimane il fanalino dicoda. Infatti, se a livello nazionale la disoccupazione delle persone fino a 35 anni siattesta al 15,9%, va molto peggio nel Mezzogiorno dove il tasso sale a 25,1%, pari a538.000 giovani senza lavoro. Nella classifica provinciale ultima è Carbonia ‐ Iglesiasdove i giovani under 35 in cerca di occupazione sono il 38% della forza lavoro.
Seguono a breve distanza Agrigento (35,8%) e Palermo (35,7%). La provincia più virtuosa è Bolzano dove il tasso dei giovani senza lavoro è pari al 3,9%, seguita daBergamo con il 5,6%, e da Cuneo con il 5,7%. Ma occorre analizzare bene questi dati,perché se da un lato cresce la disoccupazione, dall’altro è incomprensibile la difficoltà a reperire il 17,2% di manodopera nei settori dell’artigianato. Uno dei paradossi italiani è che per questo anno scolastico appena cominciato 2011‐2012, è stato registrato un aumento del 3% degli iscritti ai licei e una diminuzione del 3,4% degli iscritti agli istituti professionali.
A questo punto propongo una nuova serie di riflessioni…
Prima questione: che c’entrano gli studenti con i disoccupati?
La notizia è di certo allarmante: il 29,5% dei giovani è disoccupato!
A guardare con occhi diversi tra gli articoli e i comunicati stampa si potrebbe leggere anche altro: il 30% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni non lavora!
Questo significa quindi che gli studenti che frequentano un istituto superiore e l’università non lavorano: senza voler banalizzare o minimizzare la situazione credo sia abbastanza normale non avere un lavoro in età inferiore ai 24 anni, soprattutto considerando la durata di un ciclo di studi superiore.
Il mio obiettivo non è affermare che c’è da essere ottimisti o negare la crisi in atto e la inevitabile ricaduta sui livelli di occupazione ma semplicemente osservare che se la fascia di osservazione fa riferimento a giovani tra i 15 e i 24 anni il dato sull’impiegabilità fa tirare un attimo il fiato!
Seconda questione: Impiego o impiegabilità a vita?
I giovani disoccupati che si affacciano al mondo del lavoro cercano un impiego o una impiegabilità? La differenza sta nell’assicurarsi un patrimonio personale di conoscenze e competenze aggiornate, impiegabili sul piano pratico.
Il lavoro si trasforma in un atto creativo, in cui siamo chiamati ad imprimere una forma, riempire uno spazio, rinnovare il mondo. L’innovativa elasticità del mercato del lavoro spinge verso nuove tipologie di lavoro, da qui la necessità di avere e dimostrare competenze professionali e capacità trasversali utili ad affrontare con successo l’inserimento in un ambiente di lavoro più flessibile, caratterizzato da regole di funzionamento in continuo divenire.
L’apertura del mercato europeo, l’utilizzo intensivo di nuove tecnologie applicate al lavoro, la competitività dei vari settori di produzione, spinge le aziende a scegliere professionalità che tengano il passo con i tempi, aggiornate e capaci di adattarsi velocemente ai cambiamenti e pronti a diversificare le loro competenze e le loro funzioni a seconda delle necessità.
Oltre alla dimostrazione di conoscenze e saperi tecnici e scientifici, occorre mettere in campo quelle abilità che permetteranno di tradurre le conoscenze in comportamenti efficaci, a seconda dell’ambiente professionale nel quale si lavora.
Le competenze “trasversali” non sono riferite a una specifica preparazione professionale, ma sono il risultato di un insieme di abilità sviluppate parallelamente al normale percorso di studi, e servono a dare valore aggiunto alla professionalità di ciascuno. Proprio in questo sta la loro importanza per l’attuale scenario lavorativo: non essendo frutto di una formazione specifica, sono idonee a rispondere agli aspetti meno prevedibili e più dinamici del lavoro. Il lavoro dell’insegnante, non più e solo erogatore di saperi ma vera e propria agenzia formativa è accompagnare lo studente durante tutto il percorso scolastico ad acquisire competenze professionali e personali.
Terza questione: chi deve occuparsi della formazione e dell’orientamento degli studenti?
Sembrerebbe che nessuno possa garantire ad altri il proprio futuro. Ognuno e secondo le proprie inclinazioni e ambiti professionali è chiamato a rinnovare più volte il personale bagaglio di conoscenze e competenze.
La scuola insieme alle altre istituzioni formative è chiamata però a contribuire alla realizzazione di un pass partout per favorire l’ ingresso nel mondo del lavoro.
Un curriculum vitae perfetto non esiste e mal si addice in questi tempi di incertezza, il curriculum come prova inconfutabile di specializzazione e di crescita lineare e continua punta su una sola identità ‐ quella tecnica ‐ e nega tutte le altre possibili identità.
E’ allora necessario che lo studente acquisisca elementi di biografia personali che gli consentano di:
Conoscere se stesso: identità personale, locus of control, self efficacy.
Identificare i propri interessi: “quale settore lavorativo mi entusiasma?”, “quale lavoro mi piacerebbe fare?”
Identificare un proprio progetto di vita e di lavoro: “cosa fare per realizzare i miei sogni, i miei desideri?”
Sviluppare la propria efficacia personale: in relazione al passaggio tra conclusione degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro.
Quarta questione: basta avere know how e competenze trasversali per raggiungere mete personali e professionali?
Raggiungere mete, di qualunque tipo siano, mette in gioco la possibilità di progettarsi, di creare un piano d’azione fatto di consapevolezza e di passaggi progressivi in cui si allenano competenze e capacità. Quando il grado di competenza richiesto non è in conflitto con le competenze e le intenzioni dell’individuo che le esercita si parla di stato di flow letteralmente “flusso”.
Alcuni individui in certe particolari condizioni vengono completamente assorbiti dalla pratica di un’attività fino ad entrare in uno stato di leggera trance, lo stato di flow appunto! La persona si sente padrona delle sue azioni e sente di far parte di un processo che gli permette di non sentire divisioni tra se stesso e l’ambiente.
Lo stato di flusso si realizza quando entrano in gioco le migliori capacità, le competenze personali, le competenze professionali ed è favorito da un’alta dose di motivazione intrinseca: condizione ottimale per il conseguimento di prestazioni
La persona che sperimenta lo stato di flow:
‐ è focalizzato su un numero ristretto di stimoli ed è completamente immerso nella sua attività
‐ si sente pienamente competente rispetto all’attività che sta svolgendo, sente che è sotto il suo controllo
‐ vive una sorta di estasi e perde la coscienza del tempo
‐ percepisce un senso di armonia e di unione con l’ambiente
Quinta questione: fiducia ed efficacia personale sono il risultato di un processo dinamico, cognitivo ed emotivo? oppure sono tecnicality, esemplari prodotti in batteria?
La fiducia “sentimento di sicurezza di una persona che si fida di qualcuno, qualcosa” (Dizionario Larousse 1998), è un sentimento suscettibile di varie gradazioni psicologiche, sociali, comportamentali, che in mercati connotati dall’incertezza, diventa uno strumento di riduzione pratica di questa incertezza, poiché permette alle persone e ai gruppi di proiettarsi in avanti e di impegnarsi nell’azione.
Le persone che sviluppano la fiducia in se e nella propria efficacia si concendono:
- Il diritto di dubitare: non pretendono realtà preconfezionate, acquisiscono la consapevolezza che non si possono avere più risposte di domande.
- Il diritto di sbagliare: affrontano i compiti difficili e restano fortemente impegnati nel loro raggiungimento recuperando il proprio senso di efficacia in seguito ad insuccessi.
- Il diritto di avere paura: accolgono i loro timori come una insostituibile guida emozionale e come uno stimolo a cercare possibilità diverse e a riempire i vuoti che rendono vulnerabili il diritto di non avere soluzioni e certezze ‘apprendere a vivere’:
- Si concedono la possibilità di ridisegnare il problema ed esplorare soluzioni alternative, di dare prova di inventiva, creatività, riflessione e impegno personale tenace e quindi anche di capacità di sofferenza, dolore e ricerca faticosa, continua e profonda. (Bauman)
- Il diritto di compiere scelte ed agire in base alle scelte fatte: legando le scelte in una sequenza dove il tempo non è una trama “puntillistica” di attimi, ma una curva evolutiva che solo la nostra volontà può inclinare verso l’alto o verso il basso (Bauman)
- Il diritto di cercare l’anima e l’etica nelle cose che fanno: agiscono come sosteneva Socrate “è impossibile essere felici se si agisce contro le proprie convinzioni”.
Al contrario le persone con uno scarso senso d’efficacia:
subordinano il pensare (vissuto come dispositivo tecnico) alle urgenze del fare, in un perpetuo e trafelato presente (tipico pensiero della società liquida) di fronte a compiti difficili indugiano sulle difficoltà, le avversità, gli ostacoli, i vincoli piuttosto che concentrarsi su alternative o opzioni per venirne fuori.
- sono lente a recuperare il loro senso di efficacia in seguito a insuccessi
- sono facili prede dello stress e della depressione attribuiscono le prestazioni scadenti alla mancanza di capacità e doti personali “Vita liquida” e “modernità liquida” sono profondamente connesse tra loro. … Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido‐moderna non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”. (Bauman)
Riprendendo il tema di apertura relativo all’orientamento nell’era della tecnologia in quanto genitori, educatori, facilitatori, orientatori mi sembra lecito porci alcune domande:
Quale scenario si profila per la scuola di oggi? Insegnamento, educazione o formazione?
L’ insegnamento a cui faccio riferimento è inteso come l’arte di trasmettere conoscenze in modo che lo studente le comprenda e le assimili. L’educazione è intesa nel suo significato latino: tradurre, portare fuori e‐ducĕre “condurre”. Infine formazione è intesa come restituire una forma ai saperi anche se questa definizione pare ignorare che la missione della didattica è incoraggiare l’autodidattica secondo una modalità pull piuttosto che spingere dentro una forma secondo una modalità push.
Allora quali sfide e quali cambiamenti le donne e gli uomini di domani dovranno prepararsi ad affrontare oggi e con quali risorse? E quali sfide nel nostro ruolo digenitori, educatori, facilitatori, orientatori dobbiamo affrontare anche in un’ottica di solidarietà sociale per affrontare l’incertezza globale e generare una competenza aconvivere?
E’ necessario fare riferimento a nuove soluzioni o a soluzioni innovative?
La premessa è che le condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità non sono più divisibili e gestibili a livello locale o statale. Se le nostre difficoltà sono originate da problemi planetari, sono necessarie soluzioni planetarie.
Lo spazio pubblico dello Stato Nazione è stato allargato a tutto il mondo: “il dramma contemporaneo è vasto come l’umanità, clamorosamente e decisamente globale”. (Bauman)
A questa situazione si può opporre la logica della “responsabilità planetaria” (Bauman) che significa “il riconoscimento del fatto che tutti noi, che viviamo su questo pianeta, dipendiamo gli uni dagli altri, per il nostro presente e il nostro futuro; che nulla di ciò che facciamo, oppure omettiamo di fare, può essere indifferente per il destino di chiunque altro; e che nessuno di noi può più cercare e trovare un riparo privato, dalle tempeste che possono nascere in qualsiasi parte del globo”.
E’ quindi indispensabile creare un nuovo tipo di “cornice globale”, che impedisca alle iniziative economiche, in qualsiasi luogo sulla Terra, di seguire soltanto il profitto, ignorando gli effetti e i danni collaterali e trascurando l’impatto sociale dell’equilibrio costi e risultati.
Soluzioni innovative? Empowerment &…
Contro il fenomeno dell’ignoranza la Commissione delle Comunità Europee, già nel 2001, ha ribadito la necessità di creare, a livello dei vari Stati, sotto la gestione dei diversi Ministeri dell’Istruzione, uno spazio dedicato all’apprendimento e all’aggiornamento. Questo impegno dei singoli Stati sarà coordinato dalla Comunità Europea, che lo manterrà tra i suoi obiettivi prioritari. Una gestione pubblica dell’istruzione, realizzata in un contesto europeo democratico per realizzare un processo in cui le persone sono coinvolte per raggiungere un risultato. “Un autentico empowerment, richiede che si acquisiscano non solo le abilità necessarie, per giocare con successo un gioco progettato da altri, ma anche dei poteri per influenzare gli obiettivi, le poste e le regole del gioco: non solo le abilità personali, ma anche i poteri sociali.
Cosa significa empowerment? Nella sua accezione originaria significa processo di aumento del potere, un potere innanzi tutto “interno” alla persona.
Il processo di empowerment consiste nell’aprire nuove possibilità tra cui l’individuo può scegliere per operare in modo più efficace nell’ambiente in cui è inserito.
L’empowerment fa uso del linguaggio della scelta, della possibilità, dell’ampliamento di risorse e di opzioni, considera la persona come protagonista responsabile della scena sociale, con il potere di sviluppare una sua “vision” e di elaborare difficoltà e problemi, di sperimentare e di tradurre in azione il desiderio.
Esistono delle dimensioni psicologiche dell’empowerment:
Efficacia personale in inglese self efficacy: indica la convinzione della persona che il proprio agire produrrà (o meno) i risultati per cui si è mossa. La persona che avrà sviluppato un forte senso di autoefficacia sceglie obiettivi più elevati, è più motivata, usa le proprie risorse interne con maggiore efficienza.
La seconda dimensione è quella della responsabilità: per spiegarla solitamente si ricorre al concetto di internal locus of control ovvero l’interpretazione circa le cause degli eventi segue due direzioni. Una chiama in causa direttamente la persona per cui attribuirà i successi (o i fallimenti) a sé, alla sua perseveranza, all’impegno, alle sue capacità (locus interno). L’altra direzione attribuisce il risultato a fattori non direttamente controllabili dalla persona stessa, al caso, al tipo di compito, all’ambiente, al contesto, alla situazione (locus esterno).
Un’ulteriore dimensione è definibile come speranza, cioè la fiducia circa il verificarsi futuro di un’opzione positiva per il soggetto. Zimmerman
La speranza, e il suo contrario la disperazione causa di sentimento di impotenza, sono appresi ‐ frutto della nostra modalità di interazione con la realtà – che produce l’uno o l’altro atteggiamento.
Questa dimensione rende attuale il potere buono di sperare e di cogliere un legame tra la speranza ed una sua realizzazione futura dall’esito possibile.
Collegato a queste tre dimensioni è quello di pensiero positivo.
Non un vuoto e generico ottimismo, un po’ irresponsabile e adolescenziale ma un approccio all’azione fondato su un’ipotesi positiva circa la sua realizzazione.
Le critiche all’empowerment mettono in evidenza come questa modalità di essere proponga innanzi tutto l’immagine di un uomo di successo, di un “potente”.
L’empowerment si configura sì come una diffusione di potere: ma nel senso di dare forza a chi non la ha. Una cultura che privilegia la forza sulla debolezza per evitare che quest’ultima prevalga.
Un’altra critica sostiene che l’approccio empowerment sembrerebbe ignorare o sottovalutare la realtà e che non si può prescindere dal valutare sia le proprie risorse sia i propri limiti.
Ma proprio un corretto esame della realtà può bilanciare gli squilibri e aiutare lo sviluppo di potere personale.
Come si stabilisce, come avviene l’esame di realtà? Da dove partire? Dai punti di forza o di debolezza? Dalle risorse presenti o da quelle mancanti? Dalle opportunità o dai limiti?
L’empowerment propone un approccio proattivo con la realtà e lo sviluppo di un’autonomia personale, ovvero di una persona in grado di fare i conti con i vincoli che il rapporto con la propria realtà evidenzia. In quest’ottica l’individuo ha potere personale perché è aperto alla categoria della possibilità. Attento a cogliere le opportunità ma consapevole che queste saranno influenzate da circostanze che potrà controllare solo in minima parte.
L’approccio empowered parte da quello che si ha e non da quello che manca per restituire valore e potere e non certo per banalizzare il concetto di potere personale che diventa, agli occhi di scettici e veloci osservatori, una brillante “cromatura” del temperamento, un ostentare sicurezza, fiducia, ottimismo.
“L’empowerment è la ricostruzione dello spazio pubblico progressivamente abbandonato, in cui gli uomini e le donne possano impegnarsi, in una continua traduzione tra ciò che è individuale e ciò che è comune, tra interessi, diritti e doveri,privati e pubblici.”(Bauman)
Resilienza
Altro termine che qui voglio esplorare con voi è la resilienza. La prima caratteristica attribuita alla resilienza è quella che consente l’adattamento alle avversità. E’ untermine derivato dalla scienza dei materiali e indica la proprietà che alcuni materialihanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopoessere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia connotaproprio la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e diriorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.
Le persone con un alto livello di resilienza riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. Esse tendenzialmente sono ottimiste, flessibili e creative; sanno lavorare in gruppo e fanno facilmente tesoro delle proprie e delle altrui esperienze.
Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, non significa essere infallibili ma disposti al cambiamento quando necessario; disposti a pensare di poter sbagliare, ma anche di poter rivedere la propria strategia.
Le persone che meglio riescono a fronteggiare le contrarietà della vita, quelle più resilienti appunto, mostrano contemporaneamente tre tratti di personalità:
-
l’impegno;
-
il controllo;
-
il gusto per le sfide.
Per impegno s’intende la tendenza a lasciarsi coinvolgere nelle attività. La persona si dà da fare, è attiva, non abbandona facilmente il campo; valuta le difficoltà realisticamente. Perché ci sia impegno è necessario avere degli obiettivi, qualcosa da raggiungere, per cui lottare e in cui credere.
Per controllo s’intende la convinzione di poter dominare ciò che si fa o le iniziative che si prendono, ovvero la convinzione di non essere in balia degli eventi. La persona è pronta a modificare anche radicalmente la strategia da adottare.
Per gusto per le sfide si fa riferimento alla disposizione ad accettare i cambiamenti.
La persona vede gli aspetti positivi delle trasformazioni e minimizza quelli negativi. Il cambiamento viene vissuto più come incentivo a crescere che come difficoltà e le sfide sono considerate stimolanti piuttosto che minacciose.
Impegno, controllo e gusto per le sfide sono dimensioni di cui si può avere consapevolezza e perciò possono essere coltivati e incoraggiati.
“A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori, primo fra tutti la presenza‐ all’interno come all’esterno della famiglia ‐ di relazioni con persone premurose e solidali. Questo tipo di relazioni crea un clima di amore e di fiducia, e fornisce incoraggiamento e rassicurazione favorendo l’accrescimento del livello di resilienza”. (Susanna Kobasa)
Cittadinanza attiva
Sfera pubblica e sociale devono rinascere nel mondo occidentale, oltre alle abilità tecniche, abbiamo fortemente bisogno di “capacità di interazione con gli altri di dialogo, di negoziato, di raggiungimento della comprensione reciproca e di gestioneo risoluzione dei conflitti, inevitabili in ogni situazione della vita collettiva.”Dobbiamo cioè acquisire delle competenze in materia di cittadinanza attiva. L’educazione deve contribuire all’auto‐formazione della persona (apprendere a vivere) e insegnare a diventare cittadino. Un cittadino, in una democrazia, si definisce attraverso la solidarietà e la responsabilità nei confronti degli altri cittadini e dello Stato‐nazione.
La complessità dello Stato/Nazione è nell’essere al tempo stesso un’entità territoriale, politica, sociale, culturale, storica, mitica e religiosa.
La nazione è al contempo comunità e società. E’ società nelle sue relazioni di interesse, di competizione, di rivalità, di conflitti sociali e politici. E’ comunità, “comunità di destino” (Otto Bauer) per la sua identità, per i valori, i costumi, i riti, le norme, le credenze comuni, per le trasformazioni e le prove vissute nel corso del
La comunità è lo “spazio”
‐ in cui si stabiliscono le regole che guidano i rapporti tra gli individui
‐ in cui si sperimenta sicurezza fisica, emotiva ed economica
‐ in cui si costituisce un senso di “fiducia” tra le persone sorretto dalla scambio e dalla solidarietà.
Si è veramente cittadini quando ci si sente responsabili e solidali. Sentimenti profondi di affiliazione, sentimenti che dovrebbero essere coltivati in modo concentrico in ogni stato e in tutto il mondo come una delle strategie globali da opporre al crescente senso di estraniamento e di perdita di appartenenza alla collettività.
Sta a noi educatori, insegnanti, genitori, orientatori, formatori generare “un nuovo sogno sociale, il sogno di una comunità del benessere fondata sulla partecipazione e sull’incontro dialogante delle differenze, una comunità che sappia narrare il suo malessere, il suo disagio, sappia prenderne atto, per costruire il suo progetto partecipato di benessere”. ( Giocchino Lavanco)
Il punto cruciale diventa allora:
Quale scuola per quali apprendimenti?
Edgar Morin parla di “scuola della complessità umana” nella considerazione che ogni individuo, anche il più chiuso nella più banale delle vite, costituisce in se stesso un cosmo. Per cui per affrontare le difficoltà della comprensione umana si dovrebbe ricorrere non a insegnamenti separati ma ad una pedagogia congiunta unica strategia per affrontare l’incertezza. La conoscenza dei limiti della conoscenza ci offre una grande certezza: l’ineli mina bilità delle incertezze. Come scrive il poeta Salah Stétié “unico punto pressoché certo nel naufragio (delle antiche certezze assolute): il punto interrogativo”.
Individuare una strategia per affrontare un mondo incerto è il contrario di rassegnarsi ad uno scetticismo generalizzato.
Una strategia porta in sé la consapevolezza dell’incertezza che dovrà affrontare e deve essere pienamente consapevole di ciò per non cadere in false certezze. La strategia si stabilisce in virtù di un obiettivo, prefigura scenari d’azione e ne sceglie uno. La strategia cerca di riunire informazioni, di verificarle e modifica la sua azione in funzione delle informazioni raccolte e delle risposte ottenute strada facendo.
Tutto il nostro insegnamento tende al programma mentre la vita ci chiede strategiae, se possibile, anche serendipidità e arte. E’ proprio un ribaltamento di concezioneche si dovrà attuare per prepararci ai tempi dell’incertezza. ( E.Morin)
Chi educa gli educatori?
Tema scottante per le diverse sfaccettature e punti di vista: di fatto l’enorme macchina dell’educazione è rigida, indurita, burocratizzata. Molti docenti insediati nelle loro abitudini e sovranità disciplinari. Anche la scuola porta in sé la presenza dell’intera società. Una formula ricorsiva potremo dire: la società produce la scuola che produce la società. La buona notizia è che essendo un sistema circolare, acaduta, ogni piccola modificazione, ogni intervento in uno dei due tende a provocareuna modificazione nell’altro. Bisogna cominciare e al solito l’iniziativa può veniresolo da una minoranza, all’inizio incompresa, a volte perseguitata. Poi avviene la disseminazione, la “contaminazione” dell’idea che nella sua diffusione diventa forzaefficace. Ci sarà quindi una classe di educatori animati dalla fede di rigenerarel’insegnamento.
Scomodo di nuovo il sociologo Morin che scrive “l’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione. Una missione di trasmissione”.
La trasmissione richiede oltre la competenza anche quello che Platone aveva definito una condizione indispensabile nell’insegnamento: l’eros. L’eros che è al tempo stesso desiderio, piacere e amore di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi.
L’eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono.( Morin)
La missione dell’insegnante diventa viatico nell’orientare lo studente verso la ricerca delle sue possibilità, delle sue risorse in una pensabilità positiva di realizzazione; diventa viatico per guardare al mondo del lavoro non come ostile e nemico e nemmeno come il mostro della fatica perpetua; infine viatico per formare cittadini capaci di affrontare i problemi del loro tempo.
I tratti di questa missione possono essere riassunti nei seguenti punti:
⇒trasmettere una cultura che permetta di distinguere, contestualizzare, globalizzare, affrontare i problemi multidimensionali, globali e fondamentali
⇒preparare le menti a rispondere alle sfide della crescente complessità dei problemi
⇒preparare le menti ad affrontare le incertezze non solo rendendo noto la storia incerta ed aleatoria dell’universo, della vita, dell’umanità, ma anche favorendo l’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore
⇒insegnare l’affiliazione e la cittadinanza terrestre nella sue svariate declinazioni e nella sua comunità di destino nella quale tutti gli esseri umani sono posti a confronto con gli stessi problemi vitali e mortali.
Altro elemento comune ‐ che pari ingessare gli educatori ‐ è da ricercare nel ruolo di insegnante perfetto. (Gordon)
L’orientamento: diventa uno strumento di possibilità
L’orientamento è uno degli ambiti socio‐educativi che si presta maggiormente a una applicazione della modalità empowerment per attivare competenze atte a gestire evoluzioni rapide e a volte imprevedibili del contesto sociale e per effettuare scelte scolastiche, personali e professionali strategiche.
Il tema dell’orientamento è vasto e corredato da un’altrettanta nutrita letteratura e anche in questo caso il rischio riduzionista è sempre presente.
Da un lato un’impostazione per così dire “psicologica” tenderà a far coincidere l’orientamento con un’attività diagnostica finalizzata a individuare caratteristiche personologiche e attitudinali che renderebbero una persona particolarmente adatta a un certo iter formativo.
Dall’altro un’impostazione “socio logistica” tenderà a far coincidere l’orientamento con l’individuazione di esigenze occupazionali, attuali o potenziali, presenti nel contesto socio‐territoriale rispetto alle quali indirizzare le persone.
Un approccio augurabile resta quello che rimanda all’individuo, vero protagonista del processo, e conduce alla affermazione di un percorso dinamico che orienta e sviluppa attraverso un continuo confrontarsi con ciò che la realtà gli propone.
Questo approccio, propone una ricombinazione degli elementi personologici e ambientali in un processo continuo di diagnosi, di apprendimento ed esperienza, favorisce il ricostituirsi di un’unità fondamentale dell’io della persona nei suoi nessi con la realtà e riposiziona l’orientamento in un continuum in cui interagiscono reciprocamente forma‐educazione e accompagnamento a scelte scolastiche/lavorative. Ricadute operative inevitabili sono A) la formulazione di un sistema educativo/formativo/orientativo in grado di sostenere la persona attraverso le sue stesse risorse di apprendimento B)‐ l’apertura di un interscambio continuo, flessibile tra sistema educativo scolastico orientativo e aziendale per lo sviluppo di azioni “reali”.
Concettualmente tale sistema prevede l’individuazione di competenze personale trasversali, tendenzialmente universali rispetto allo scenario sociale.
Rafforzando tali competenze è possibile attivare la persona nella sua personale azione di orientamento e facilitarla nel suo percorso di sviluppo, apprendimento e di successivo inserimento.
In questo senso l’orientamento si configura come un’azione di empowerment sul soggetto; processo attraverso cui una persona viene aiutata a entrare in rapporto con la realtà, con una realtà specifica ‐ scuola, università, mondo del lavoro ‐ cercando di tenere conto della totalità dei fattori che la costituiscono.
Così modulato l’orientamento permetterà al facilitatore di sostenere le persone nella disanima realistica delle possibilità esistenti e di connettere questi con i personali bisogni e desideri traducendoli in specifici orientamenti e obiettivi attorno ai quali costruire la propria storia personale e professionale.
Le competenze richieste al facilitatore, orientatore, educatore sono quelle proprie del processo di empowerment:
‐ascolto, per cogliere bisogni e desideri e la dimensione della difficoltà
‐empatia, per indicare un livello di comprensione dell’altro non legato alla sfera cognitivo‐razionale ma piuttosto a quella emotiva
‐rispecchiamento, generativo di fiducia e relazione
‐comunicazione diretta e restituzione di feedback, per facilitare l’individuazione e la restituzione di convinzioni depotenzianti e etichette rigide circa il modo di guardare al mondo del lavoro e alla propria impiegabilità impedendone o rallentandone la realizzazione
‐apertura di nuove possibilità, ampliamento del mondo cognitivo, comportamentale, emotivo.
‐fiducia, nella forza del soggetto e nella sua capacità di superare ostacoli interni e esterni. Tale fiducia si traduce, in termini operativi, in una continua valorizzazione del positivo emergente.
‐facilitatore‐guida, senza sostituirsi alla persona. Una presa in carico non significa assumersi il ruolo del salvatore e gestore di aspettative
‐sostegno e sostenitore, per sfuggire alla trappola dell’impossibilità.
Questo punto merita un approfondimento a parte.
Spesso l’iter della realizzazione di un desiderio si blocca e resta confinato alla dimensione del sogno. Molto spesso nel soggetto prevale una convinzione circa la propria impossibilità di sognare che si traduce in incapacità. Prevale il giudizio e un linguaggio depotenziato “è inutile”, “semmai”, “ormai”, “purtroppo”; “non siamo più bambini” (il sogno è d’uso esclusivo dei bambini). “stiamo con i piedi a terra” (vietato volare, vietato essere flessibili); basta che si lavori… (equazione fin troppo ovvia lavoro=sofferenza, sacrificio). C’è una frase molto significativa di George Orwell, una frase guida che dice: “se il pensiero può corrompere il linguaggio, il linguaggio allo stesso modo può corrompere il pensiero”.
Obiettivo diventa quindi snidare e sfidare la parte generativa, quella che permette ad ogni individuo di essere autore della propria vita e di poter intervenire sulla realtà, secondo le sue possibilità e risorse contro il dominio limitante del bisogno, del problema…
Aiutare la persona a generare “movimento”, ad avviare la costruzione di una rappresentazione del desiderio in cui lui sia il regista, lo sceneggiatore, l’attore, il protagonista e viva la situazione come già realizzata. Guidarlo a vivere una rappresentazione di sé nel desiderio realizzato fa parte del processo di orientamento. La segnalazione da parte delle persone di vincoli, di mancanza di capacità e di risorse per vivere la situazione desiderata, sono indicazioni preziose per l’orientatore, che vanno s‐velate nella loro funzione depotenziante e, a volte, immobilizzante.
Accogliere, ascoltare con atteggiamento aperto, non giudicante o valutativo permetterà l’acquisizione di nuove consapevolezze, di nuove risorse e nuove possibilità per l’io desiderante che si accrescerà rispetto all’Io problematico.
Dare valore, restituire valore, riconoscere valore diventa così il motore ed il combustibile di una scuola – nel senso letterario ‐ che coniughi le incertezze liquide dello scenario globale con la solidità filosofica della condizione umana, che trasformi la conoscenza in sapienza, s‐velando, dando forma e solidità a verità nascoste, ignorate, profonde di cui siamo a volte inconsapevoli portatori.
Fonte: tratto da “Manuale di psicologia dell’orientamento e del career counseling nel XXI secolo”. Articolo “Life Desining & Career Counseling” di Annamaria Di Fabio.
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