Autore: Vincenzo Masini
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Far emergere gli immaginari sulla morte
Nel lavoro di counseling è frequente l’incontro con profonde sofferenze psichiche dei clienti collegate alla mancata elaborazione di lutti, anche antichi, rimasti incistati nel vissuto delle persone che continuano a produrre stati di sofferenza.
Spesso molte persone sono inconsapevoli dell’origine del loro disagio e non è infrequente osservare l’emergere nella loro storia di vita di lutti che hanno assunto la forma di copioni di rabbia, di dolore, di angoscia, di depressione, di abbandono, di perdita, di ossessione o di fissazione su qualche aspetto particolare del loro comportamento.
Per l’elaborazione del lutto spesso è necessario aprire con le persone una discussione sulla morte costruendo un clima di confidenza tale da consentire l’espressione degli immaginari che ciascuno possiede ed ha formulato dentro di sé sul morire e su cosa succede dopo la morte.
Tutti gli esseri umani hanno idee, inconfessate anche nelle relazioni più intime, sul destino della loro identità psichica e molte di queste sono cariche di angoscia, o di speranza, a seconda dello stato psichico e delle personalità individuale.
E’ del tutto errato pensare che una visione positiva o negativa della morte dipenda da certezze, religiose o spirituali, acquisite e apprese attraverso la partecipazione a contesti di fede religiosa. I contesti di appartenenza religiosa trasmettono indicazioni di comportamento morale, funzionali alla vita di relazione sociale, ed è sulla base dell’osservanza di tali comportamenti che le persone fondano un’attesa fiduciosa della propria immortalità e del meritato paradiso.
In realtà l’angoscia di morte agisce profondamente sulle persone che non hanno mai volutamente affrontato tale tema dentro di sé preferendo rimuoverlo e affidarsi acriticamente ai suggerimenti ed alle teorizzazioni altrui.
La mancanza di una profonda riflessione sulla morte produce due conseguenze: l’emersione drammatica della paura della morte nelle persone che stanno per sperimentare tale evento, l’incapacità di elaborare il lutto per la perdita di una persona cara.
Per questa ragione è indispensabile che il counselor abbia sviluppato competenze psicologiche ed elaborato le sue esperienze di lutto e di morte ove voglia essere di aiuto sia ai morenti che alle persone che hanno bisogno di elaborare un lutto.
Uno dei primi compiti da affrontare è quello di trovare il coraggio di esprimere i propri immaginari sulla morte. A colpo d’occhio è già possibile individuare sia i tipi di personalità esprimenti tali immaginari, sia le emozioni di base a cui corrispondono, sia i contesti religiosi, culturali e ideologici a cui sono connessi. Ciò che più conta è però la comunanza intellettuale che esprimono. Tutti pensiamo, più o meno, le stesse cose e, qualora esprimiamo ad alta voce i nostri immaginari, troviamo in essi radici comuni.
Quando però la confidenza tra persone si fa più intima riusciamo ad andare senza timidezze oltre tali frontiere e comunichiamo suggestioni, esperienze e immagini della morte e del dopo morte molto più forti e più carichi di impressioni psicologiche e di scenari esistenziali anche avvincenti.
La competenza comunicativa necessaria per tale ulteriore crescita è essenziale per il counseling al morente e per l’elaborazione del lutto ma non può essere oggetto di trattazione giacché esula dagli ambiti della scienza e, ove affrontata con argomentazioni teoriche e non semplicemente testimoniata, può andare a costituirsi come nuova forma di ideologia o di iniziazione esoterica o di manipolazione, indipendentemente dalle verità che essa può contenere.
Il counseling non propone strumenti e non dà informazioni filosofiche o religiose sulla morte, si esprime solo nella sua natura di relazione con il morente, o con il dolente, mediante costruzione di una tale confidenza da rendere narrabile anche ciò che normalmente non è.
Le esperienze e le informazioni restano dunque soggettive e la formazione per l’elaborazione del lutto o per l’accompagnamento alla morte ha il solo scopo di trasmettere il metodo per consentire tale discussione. Il counseling al malato terminale e al morente
La raccolta delle esperienze di premorte o di stati alterati di coscienza è preziosa per il counselor che voglia aiutare il morente a vivere una buona morte. Non è possibile consolare nessuno se non si ha qualcosa da raccontare e, per poter raccontare, c’è bisogno di aver costruito un catalogo di racconti, di storie e di esperienze che possono essere trasmesse in modo efficace solo se apprese dal contatto diretto con chi le ha vissute.
Non basta la lettura di un libro o la visione di un film. La testimonianza efficace è sempre e solo quella diretta poiché nel necessario instaurarsi di un rapporto di confidenza tra le persone c’è un sensibile aumento dell’empatia. Il malato empatizza con immediatezza se ciò che viene riferito dal counselor è reale oppure una forma di falsificazione consolatoria.
Spesso il counselor che non abbia costruito una esperienza personale concreta di racconti e di storie di vita inerenti il vissuto di premorte o di stati alterati di coscienza, apparirà al morente come piatto e falso e, invece di portare un aiuto consolatorio, lo farà cadere in una sensazione ancor più grave di solitudine e di incomprensione.
Spesso il processo di aiuto inizia molto prima dell’evento finale della morte, attraverso il contatto con il malato terminale o con il malato a cui è stata diagnostica una patologia che non ha risoluzione.
Già al momento della diagnosi prendono forma le paure che rischiano di diventare il fondamento psicologico del vissuto futuro. La vulnerabilità delle persone alla notizia di una diagnosi infausta si accompagna a diversi vissuti emotivi: terrore, senso di vuoto, sensazione di essere finiti, assenza di sensazioni, stupore autoanalgesico, vortice di pensieri, etc… Nel momento della diagnosi prende forma nella mente una risposta che a seconda di come sarà verbalizzata e discussa, potrà divenire o meno lo sfondo su cui poggeranno le scelte future. Le principali reazioni possono essere: forte ed angosciosa preoccupazione per il futuro; percezione improvvisa di avere una scadenza; depressione; aggressività; emersione della volontà di cambiamento; rinforzo delle abitudini negative; fantasie di suicidio.
Nel momento della diagnosi i pazienti spesso sentono una conferma delle loro precedenti intuizioni ed avvertono e si relazionano ad essa come ad un punto di non ritorno nel loro destino. È essenziale che nel momento della comunicazione del risultato della diagnosi l’operatore sanitario sia consapevole del fatto che i minuti che seguono la diagnosi sono tra i più importanti per l’organizzazione della vita futura del paziente. Il senso di smarrimento e di confusione per lo choc potrà poi produrre disturbi del sonno, derealizzazione, depersonalizzazione, fame d’aria, senso di prigionia,… In quei minuti l’attività mentale del paziente è concentrata sulla risposta interiore da dare a se stesso circa la notizia e si dibatte per trovare una “frase mentale” che chiude, anche se provvisoriamente, l’angoscia opprimente da cui è assalito.
“La mia vita è finita, tanto vale che mi suicidi” … “Come farò a dirlo a” … “Chi se ne frega, ” … “E adesso?” … “Devo cercare di cavarmela in qualche modo” … “Me lo sono meritato… è tutta colpa mia” … “Devo cambiare vita per non indebolirmi ulteriormente” … “Tutta colpa di…, me la pagherà!, ma la pagheranno tutti!”…
I pochi minuti di colloquio del momento diagnostico sono penosissimi per l’operatore sanitario che non sia competente di counseling, al punto che spesso egli preferisce consegnare le risposte diagnostiche in busta chiusa. Ma quel momento è invece essenziale per tre diversi motivi.
Prima di tutto la “frase mentale” in cui si può chiudere il soggetto rischia di diventare il suo atteggiamento di fondo nei confronti del futuro. Ora, al di là delle risposte esistenziali che l’operato-re sanitario possiede, ciò che è essenziale è che “tale frase” rimanga aperta, che gli interrogativi non si spengano nella disperazione, che l’angoscia non si impadronisca in modo totale del soggetto. Perchè la chiusura interiore non si annidi come evento traumatico nella psiche del paziente è sufficiente lasciare la comunicazione aperta, anzi, ostacolare la chiusura. Basta che il dialogo non si fermi lì, basta che la comunicazione abbia un sufficiente numero di scambio di battute, basta che non sia il paziente a sentirsi scaricato ma semmai sia lui a desiderare di “stare un attimo da solo”, per prevenire catastrofi psicologiche di difficile riparazione. L’obiettivo è che la “frase mentale” venga verbalizzata, o che almeno, possano essere intuibili i contorni in cui il paziente si è visto proiettato nel futuro.
Inutile dire l’importanza di invitare nuovamente il soggetto a presentarsi per un colloquio e per ricevere alcune indicazioni di comportamento. Dopo la diagnosi il paziente sente che la sua vita è già radicalmente cambiata, anche se non afferra i contorni precisi della differenza. L’aiuto nei suoi confronti consiste nell’evidenziare da subito i problemi a cui va incontro e definirli. In tal modo non dovrà affrontare l’impatto con qualcosa di impreciso che aumenterà ancor più la sua ansia.
È uno dei primi problemi che egli ha di fronte. Ma è anche una necessità il fatto di dirlo a qualcuno. Il primo aiuto è proprio quello di insegnargli a distinguere tra le persone a cui dare tale informazione e quelle a cui è inutile, se non controproducente, raccontare un evento intimo.
Il secondo aiuto è quello di convincerlo a non perdere tempo o “cercare il momento opportuno” per dichiarare i suoi problemi ai famigliari e a chi condivide la sua intimità. Non esistono infatti momenti migliori o peggiori per comunicare una notizia che può essere vissuta come sconvolgente . Anzi attendere può portare a problemi e tensioni ancora più gravi.
Il malato ha sicuramente momenti di particolare difficoltà relazionale e problemi legati alla paura che il dolore diventi incontrollabile; ha paura di perdere l’autocontrollo mentale e fisico e di perdere il proprio ruolo nella famiglia e nella società, diventando un gravoso peso per gli altri…..ma sullo sfondo è poi sempre presente il timore della morte. In questo momento di grande solitudine il malato può comprendere e dare senso alla disperazione e al dolore, permettendo ad essi di esprimersi.
Il counselor che si trova di fronte all’evento prossimo della morte deve poi prendere in esame quelle che sono le principali paure del morente poiché l’unico modo di affrontare tali paure è parlane.
La paura dell’ignoto è connessa alle produzione di immaginari che il morente è riuscito a costruire nella sua vita. Se non li hai mai presi in considerazione egli si ritrova in una situazione di profondo dolore, poiché ha negato e rimosso, durante il corso di tutta la vita, le paure rispetto alla morte e ora deve affrontarle tutte insieme. L’aiuto nei confronti della paura dell’ignoto è la trasmissione della
consapevolezza della continuità della coscienza. Si può accompagnare il morente verso la percezione di una continuità eterna del profondo che egli ha già ripetutamente sperimentato nella vita, durante il sonno e il risveglio, lo svenimento e la ripresa di lucidità. Le informazioni precedentemente proposte servono proprio a trasmettere tali forma di scoperta consapevolezza
La paura della solitudine è dettata dall’incapacità della persona di stare da sola con sé stessa. L’unico metodo per superare la solitudine e quello di far dialogare le tue voci interne, le voci delle persone che le vogliono bene: voci interiorizzate e che si possono far dialogare dentro di sé in modo che ti facciano compagnia. Ad esempio, nel momento in cui in una coppia uno dei due coniugi muore, l’unico modo attraverso cui colui che resta possa sentire ancora la compagnia dell’altro, è quello di farlo rivivere dentro di sé, dialogarci all’interno della propria mente, facendogli dire quello che avrebbe detto se fosse stato in vita.
La paura di perdere il controllo di sé e delle emozioni ha a che fare con la paura di impazzire. I rimedi sono quelli di essere entrato in contatto con i propri pensieri. Attraverso uno stato meditativo oppure avendo preso confidenza con la propria voce interiore conoscerla così bene da saperla distinguere nel coro di voci che affollano la mente, risolvendo il momento di confusione. Fondamentale è quindi il raggiungimento della gestione delle voci interne.
Spesso le persone trascorrono la loro vita focalizzandosi sulla costruzione di una forte e solida identità sociale più che personale. Ciò comporta che, investendo tanto sull’identità esterna, che permette di avere un buon riconoscimento a livello sociale, con ottimi riconoscimenti di ruolo, hanno, di conseguenza, investito poco per la costruzione e il nutrimento dell’identità più profonda. Durante il processo che accompagna il morente, la malattia, il deterioramento fisico… inevitabilmente l’immagine esterna decade, solo se egli ha saputo costruirsi una buona immagine interna, riesce ha tenere ben salda la sua identità altrimenti questa si deforma insieme all’involuzione di tipo fisiologico. Per affrontare serenamente la morte c’é bisogno di potersi aggrappare alle pareti profonde dell’identità.
E’ molto più complessa la risoluzione dell’angoscia esistenziale poiché la sua risoluzione richiede un lungo e precedente lavoro sui processi inconsci. In un momento terminale tutti i vissuti rimasti in sospeso si ripresentano in contemporanea e affollano la mente, producendo una fase delirante.
Nell’istante che precede la morte, c’é bisogno di potersi aggrappare a una parte solida dell’identità. Questo può essere fatto attraverso una velocissima regressione dentro di sè che permetta di incontrare un momento della vita in cui il soggetto è sicuro di essere stato se stesso. Aver raccolto la biografia del morente è pertanto molto importante, se si vuole avere la capacità di restituire un processo di sicurezza di identità attraverso il ricordo di un momento della sua vita in cui egli possa riconoscere la piena espressione della sua essenza.
I conti in sospeso sono un altro importante problema del morente. In questo caso compito del counselor è quello di rintracciare le persone con cui il morente ha dei conti in sospeso e convincerle a parlare con lui. Spesso ciò non è possibile per l’indisponibilità delle persone, anche le più vicine al morente. Sospendendo ogni tipo di giudizio sulle scelte delle persone, che potrebbero avere giustificati motivi di rancore verso il morente ma che, probabilmente, si apprestano a dover affrontare qualche successivo senso di colpa, una via di uscita dai conti in sospeso è la scrittura del testamento.
Il testamento è da intendersi come la prosecuzione della propria personale autobiografia ed è importante che ogni counselor abbia redatto, oltre che la sua autobiografia, anche il suo testamento olografico. Se si ha esperienza del proprio testamento è possibile trasmettere al morente alcune informazioni sul suo senso e sulle cose da scrivere in esso. Un testamento è una lettera di affetto (o di perdono) alle persone e non uno scarico di obblighi. Non sono le ultime volontà del morente ma l’elenco di ciò che lascia di materiale e di spirituale ai suoi amici e famigliari. La rimozione sociale della morte fa si che siano molto poche le persone che lasciano tale lettera di saluti e che ottemperino anche al dovere civile di lasciare ciò che è ancora utilizzabile del loro corpo a quanti possono averne bisogno. Sotto il profilo giuridico abbiamo tre tipologie di testamento: 1) Olografo → redatto a mano dalla persona, con inchiostro indelebile, accompagnato da data certa e firma. Sarebbe bene che l’incipit per motivi legali fosse. “Io sottoscritto nel pieno delle mie facoltà mentali…..”; 2) Redatto dalla persona da sola e successivamente convalidato da un notaio; 3) Redatto in presenza del notaio. In caso di testamento redatto con il notaio se viene rinvenuta una versione in data successiva si considera valido sempre quello con la data più recente.
Un sistema per raccogliere le ultime volontà del morente è comunque quello di registrarle con la telecamera del cellulare. Spesso tale video, fatto vedere ad amici e parenti, riesce a mettere a posto conti in sospeso e ad accompagnare il morente verso una buona morte.
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