Autore: Lisa Ribechini
“Un giorno ti sveglierai e vedrai una bella giornata. Ci sarà il sole e tutto sarà nuovo, cambiato, limpido. Quello che prima ti sembrava impossibile diventerà semplice, normale. Non ci credi? Io ne sono sicuro. E presto. Anche domani.
Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche
“A pearl is a beautiful thing that is produced by the injury of the oyster. Without the wound, the injury, the pearl may not have come into being”
Stephen Hoeller
Dopo un lutto, un trauma emotivo, una catastrofe ambientale, un malattia, la maggior parte delle persone riesce a superare il dolore in tempi relativamente brevi. Dopo il primo periodo di shock, disorientamento e profonda incertezza, la maggioranza di noi dimostra di possedere una capacità di recupero naturale dinanzi agli eventi peggiori della vita. Ma come avviene nello specifico questo meccanismo di ricompensazione e di riorganizzazione? Alla base della nostra capacità di “rialzarci dopo ogni caduta” esiste un meccanismo psicologico chiamato RESILIENZA.
Tale termine deriva dal latino “resalio”, iterativo del verbo “salio”, che in una delle sue accezioni originali indicava l’azione di risalire sulla barca capovolta dalle onde del mare in tempesta.
Tradizionalmente la resilienza è stata legata agli studi di ingegneria, nello specifico alla metallurgia, dove indica la capacità di un metallo di resistere alle forze impulsive a cui viene sottoposto.
Il termine poi è stato preso in prestito dalla psicologia, dove connota esattamente la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà. La resilienza, inoltre, non ci chiede solo di rialzarci anche cento volte se necessario, ma di farlo con intenzione e volontà, con decisa razionalità, poiché è ciò che ci permette di vedere le possibilità offerte dalla “caduta” che, nella maggior parte dei casi, prima non avevamo valutato. La volontà ci rimanda inevitabilmente a quella che già a fine ‘800 Nietzsche chiamava “wille zum leben”, la volontà di vivere, e quindi di trasformarsi, di combattere e di resistere alle avversità e assumere su di sé tutto il peso, ma anche la leggerezza, della piena espressione e consapevolezza delle proprie scelte e decisioni.
I fallimenti vengono ristrutturati e diventano opportunità e tappe inevitabili verso il successo, per questo resilienza è anche determinazione, perseveranza e pazienza.
Un’esemplare dimostrazione di resilienza la offre Frida Kahlo che, dopo l’amputazione del piede, scrive nel suo diario: “Che bisogno ho dei piedi, se ho le ali per volare?”.
Non è quindi solo capacità di resistere, ma anche di “ricostruire” la propria dimensione, il proprio percorso di vita, trovando una nuova chiave di lettura di sé, degli altri e del mondo, scoprendo una nuova forza per superare le avversità. Si tratta di un processo dunque individuale che si costruisce nella persona in base alla personalità, ai modelli di attaccamento e agli eventi di vita (Clauss-Ehlers, 2009).
Ma cosa fa si che una persona sia più o meno resiliente? Esiste un manuale da seguire per trasformarsi in uno “spirito audace”?
A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori, primo tra tutti la presenza di una famiglia solida alle spalle e di relazioni con persone premurose e solidali. Questo tipo di relazioni creano un clima di amore e di fiducia, forniscono incoraggiamento e rassicurazione favorendo così l’accrescimento del livello di resilienza. Gli altri fattori coinvolti sono: l’ottimismo, l’autostima, l’hardiness (tratto di personalità che comprende 3 dimensioni: controllo, impegno e sfida), il supporto sociale, l’estroversione, l’empatia, l’apertura a nuove esperienze, strategie di coping adattive, buone capacità comunicative ed assertive, capacità di controllo degli impulsi e delle emozioni, l’autonomia, la CONSAPEVOLEZZA (Robertson e Coper, 2013). Quest’ultimo fattore è necessario affinché la persona sia cosciente dei propri punti di forza ma anche di debolezza, perché non necessariamente siamo tutti guerrieri in grado di fronteggiare i pericoli più disparati. Per accettare i propri limiti c’è bisogno di un’elevata dose di autocontrollo e di una profonda coscienza di sé, che permette di porsi traguardi realistici e di pianificare passi graduali per il loro raggiungimento. Questo rappresenta un antidoto a qualsiasi tentazione di rassegnazione o di totale abbandono al destino e alla fatalità. La consapevolezza insita nella resilienza è necessaria affinché le nostre azioni non siano mai governate da una slancio cieco e irresponsabile ma bensì da discernimento e saggezza.
Questo porta inevitabilmente alla luce una questione: ma questa ambita e discussa resilienza è un tratto fisso e stabile di personalità oppure si può sviluppare e far maturare?
La ricerca suggerisce che non è assolutamente una caratteristica personale “fissa”. La letteratura scientifica indica infatti che l’esperienza personale aiuta a costruire o a danneggiare la resilienza e che l’ambiente circostante e le esperienze a cui prendiamo parte possono entrare a far parte del gioco. La resilienza non è una caratteristica che è presente o assente in un individuo ma presuppone invece comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque in qualsiasi circostanza.
A questo punto, quindi, la domanda da porsi è diversa: come si può mantenere in buona salute tale nostra capacità?
Va premesso che avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita o essere infallibili ma è resiliente chi è disposto al cambiamento quando necessario, chi è disposto a pensare di poter sbagliare, ma anche chi si dà la possibilità di poter correggere la rotta. Lo sviluppo e il rafforzamento della resilienza è un processo che dura per tutta la vita, con periodi di acquisizioni e di mantenimenti, dove le riduzioni e le perdite possono essere contemplate. Accrescere la resilienza è un obiettivo ambizioso che ha lo scopo di promuove la salute mentale e lo sviluppo di competenze socio-emozionali (Simeon et al., 2007).
Quali sono invece i meccanismi biologici alla base di tale competenza?
Lo studio della resilienza comincia a svelare i suoi meccanismi grazie all’imaging cerebrale e ai database dei geni. Come precedentemente sottolineato, dopo un disastro, uno stress, un turbamento emotivo, fattori biochimici, genetici e comportamentali operano congiuntamente per ripristinare il nostro equilibrio emotivo.
Poniamo una situazione. Stai camminando solo, in una via poco trafficata e spersa tra la campagna. Un cane di grandi dimensioni ti si avvicina molto velocemente e inizia ad abbaiare forte. Cosa fai? Nel tuo cervello l’ipotalamo – una stazione di trasmissione che collega il sistema nervoso a quello endocrino – produce un segnale di stress, il fattore di liberazione dell’ormone corticotropo, il quale dà il via ad una cascata di eventi biochimici che ci comunica un semplice segnale “affrontalo oppure scappa’’. E’ il meccanismo biologico legato all’attivazione del sistema ortosimpatico sottostante ad ogni reazione di paura: attacca o fuggi. Aggredisci o scappa. Combatti o corri in salvo.
In queste occasioni gli ormoni dello stress pullulano nel nostro encefalo. Uno di questi in particolare, il cortisolo, in quantità ridotta è funzionale al fronteggiamento del problema in questione ma diventa invece nocivo quando il suo rilascio è eccessivo e fuori controllo poiché danneggia le cellule e le regioni cerebrali coinvolte nei processi di memoria e negli stati emotivi.
Ed è qui che entra in gioco di nuovo la resilienza. Aiutati da particolari sostanze biochimiche protettive, come il neuropeptide Y, l’ormone DHEA e l’allele protettivo di alcuni neurotrasmettitori come il MAO-A o il 5HTT, gli ormoni dello stress sembrano disattivarsi più rapidamente nelle persone resilienti (Truffino, 2011). Tuttavia sono necessari studi più solidi e approfonditi che vadano ad indagare nel dettaglio tali meccanismi, le influenze genetiche di base e la neuroplasticità legata a tali fenomeni epigenetici.
A questo punto un ulteriore domanda sembra far capolino. E’ possibile riuscire ad influenzare i meccanismi biochimici legati alla resilienza?
Gli scienziati per anni hanno cercato, e stanno tuttora cercando di capire, i fondamenti della forza emotiva; una conoscenza che potrebbe suggerirci il comportamento da adottare quando il processo naturale di guarigione si inceppa o quando un trauma emotivo sembra così forte da derubarci del coraggio e della forza di reagire.
Il mondo scolastico, aziendale ed in particolare quello militare non ha aspettato che la scienza delineasse un quadro completo sul costrutto di resilienza prima di avviare programmi di “vaccinazione” contro gli stress più severi della vita. Attualmente, infatti, l’esercito statunitense applica quello che viene definito il «più grande intervento psicologico intenzionale» mai tentato. Il programma, del costo di 125 milioni di dollari e della durata prevista di cinque anni, conta già 800.000 soldati che lavorano con uno strumento di valutazione globale, un questionario online che misura il benessere emotivo e spirituale, e seguono corsi per accrescere la «fitness» in vari aspetti della resilienza emotiva. I dati raccolti confluiranno poi in un database di dati statistici psicologici e sanitari, a cui i ricercatori in campo civile attingeranno per gli studi sulla resilienza.
Con l’avanzare del programma i ricercatori misureranno se i soldati, e le loro famiglie, sopporteranno meglio il forte stress che inevitabilmente è connesso alla vita militare.
Tuttavia, nonostante i vari programmi di intervento e le teorie concettualizzate, vi sono ancora molti punti deboli e buchi neri intorno al concetto di resilienza.
In assenza di un manuale definitivo sul coraggio è opportuno porsi una domanda:
i tentativi di manipolare quella che potrebbe essere una qualità innata della persona non rischiano forse di peggiorare la situazione?
A voi il dubbio.
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