Autore: Dott.ssa Emanuela De Bellis
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Se ne comincia a sentir parlare sempre più spesso, tra riviste e siti, ma anche all’interno della scuola. E’ considerata un disturbo alimentare 2.0, ma non è ancora stato riconosciuto dalla comunità psichiatrica.
L’ortoressia è un comportamento alimentare che, invece che basarsi sulla quantità del cibo ingerito, si sofferma sulla qualità; in altre parole è una tendenza a sviluppare uno schema alimentare sempre più rigido, che includa solo cibi “sani”. E metto le virgolette proprio perché, se si trattasse solo di scegliere prodotti di qualità, saremmo tutti ortoressici.
Da un po’ di anni la tendenza della nostre mamme a comprare il cibo più economico al supermercato più conveniente è andata frantumandosi sotto l’apertura e l’accessibilità a negozi bio, a Gruppi di Acquisto Solidale, a iniziative di fattorie e a rivalutazione dei mercati ortofrutticoli. L’attenzione è andata sempre più focalizzandosi su cibo di qualità, di provenienza certa, possibilmente a km 0 e con trattamento equo degli animali.
Una vera e propria rivoluzione culturale, che ha investito tutte le estrazioni sociali e i livelli economici. Oltre a questo, abbiamo assistito a un divampare di allarmismi e scoperte sul mondo dell’alimentazione: il latte vaccino danneggia, il mais contiene nickel, la carne provoca tumori e la celiachia è più diffusa del morbillo… Dall’altro lato sorgono diete che garantiscono una salute buona e un tenore di vita migliore, e nascono professionalità che si occupano esclusivamente di costruire uno stile alimentare corretto.
Cercare la qualità nei prodotti che compriamo (ma soprattutto, che mangiamo) può quindi diventare patologico? I fan dalla psicologia del buonsenso vi risponderanno che l’importante è non esagerare, non diventare rigidi. Ma, come al solito, è una risposta che non basta. Il problema dell’ortoressico non è quante regole abbia, ma come questo incida sul suo adattamento all’ambiente. Il legame con il cibo, come sappiamo, è intrecciato alla propria identità, al proprio modo di emozionarsi, alle relazioni con l’Altro-Mondo; allo stesso tempo è radicato nella nostra fisiologia, nelle sensazioni corporee di fame e sazietà, di gusto e disgusto. Quando il legame con le sensazioni si rompe, a favore di un legame con un sistema di regole, più o meno articolato, il contatto con la realtà, fatto anch’esso di sensazione e corporeità, comincia ad allentarsi.
Il dr. Bratman, che per primo ha descritto il disturbo ortoressico, racconta come “Una persona che si riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa si può sentire altrettanto pio di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto”; quindi la centralità del disturbo non è in cosa mangia, ma nello slittamento di significato.
L’ortoressico si sente con la coscienza a posto se segue una regola: che poi questa regola si traduca in frutta e verdura biologica o in cibo dannoso, non ha importanza. Il risultato è sempre un sistema di nutrizione slegato dal corpo, e, quindi, dalla realtà.
Come ci si accorge di essere ortoressici? Il dr. Bratman ha messo a punto delle indicazioni (le trovate a questo link), ma il mio consiglio spassionato, onde evitare di cadere da un sistema di regole all’altro, è di chiedervi onestamente com’è il vostro rapporto con il cibo. Non è facile staccarsi da un’idea di regole da seguire, quando riviste, media, medici, amici e conoscenti continuano a bombardare con informazioni su una dieta “giusta ed equilibrata”; ma solo noi possiamo guardarci allo specchio e raccontarci cosa e come mangiamo.
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