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Ender Wiggins è un promettente dodicenne, selezionato per essere addestrato alla Battle School, l’accademia situata in una stazione orbitante attorno alla Terra dove i ragazzini si sfidano in sofisticati giochi di simulazione per prepararsi alla guerra vera, che potrebbe avere inizio da un momento all’altro. Dopo aver ucciso milioni di terrestri in un primo attacco, infatti, gli Scorpioni sono destinati a tornare e gli umani non possono farsi trovare impreparati. Così la pensa il Colonnello Graff, il quale è altresì sicuro che, sotto la sua apparente fragilità, Ender possegga i requisiti di un vero leader e per questo lo mette a durissima prova, separandolo dalla famiglia e lasciando che l’invidia dei compagni lo isoli ulteriormente.
Il romanzo di Orson Scott Card, cult del genere cosiddetto “Young Adult”, è datato 1985 ma, trasposto sullo schermo, nasconde piuttosto bene le rughe. Non tanto perché i temi che affronta sono temi di permanenza “cosmica”, dalla necessità di trovare un equilibrio tra la forza e il sentimento (estremi che nel caso di Ender sono rappresentati dai due fratelli, il collerico Peter e l’empatica Valentine) all’eterno dilemma sull’opportunità del si vis pacem para bellum, al vero cuore nero del racconto, che ruota attorno al concetto di formazione come disumanizzazione. C’è tutto questo, ma c’è anche di meglio. Per esempio, la costruzione del racconto e la centralità del gioco.
Sebbene in modi diversi, tanto il romanzo che il film scritto e diretto da Gavin Hood riescono infatti nell’intento di mettere lo spettatore nella condizione di doversi riambientare ad ogni capitolo. Sul fronte filmico, sfruttando le promozioni di Ender in nuove squadre e nuovi ambienti e il suo incontro con nuovi aiutanti e nuovi rivali, Hood rende avventuroso e imprevedibile un percorso che sappiamo lineare fin dall’inizio, fin dal nome del protagonista, che porta in sé la natura di ultimo predestinato. Il gioco, invece, è piacevolmente sostanziale sia alle dinamiche filmiche che a quelle teoriche, ispirate alla teoria matematica dei giochi e cioè all’analisi delle decisioni individuali nelle situazioni di interazione (in questo contesto, particolarmente funzionale alla drammaturgia morale della vicenda del protagonista).
Si avverte, sfortunatamente, a tratti, il lavoro di condensazione, la necessità di sintesi che impone di far riferimento al già noto (le immancabili marcette à la Full Metal Jacket, il ricordo mai sopito di “War Games”), ma, a questa sensazione di sbrigativo si oppone, a compensare, l’intensità dell’intepretazione di Asa Butterfield, incarnazione perfetta del binomio antinomico di innocente colpevole.
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