Autore: Dott.ssa Marzia Cikada
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La vita dell’uomo è un filo di seta sospeso in un gioco di rasoi.
Emilio CecchiCi sono film che vengono fatti conoscere per una parte dimenticando il tutto. Peccato. Si perde molto in quei casi. La pellicola “La Vita di Adele” (2013) di Abdel Kechiche, vincitore della palma d’oro a Cannes (e personalmente forse è stato un poco troppo) è uno di quei film. Tutti ve ne parleranno come un film su due ragazze lesbiche, cosa vera ma parziale, e questo significherà perdere di visione il tutto. E il tutto è la vita che Adele costruisce giorno dopo giorno, non intorno al suo orientamento sessuale, ma a se stessa, con la fragilità sfacciata di una giovanissima donna che cerca di capire cosa prova, cosa vuole, non solo “chi le piace” ma anche “chi è”. Lo stesso regista, seppure lascia poco all’immaginazione, rende il film una storia sulla vita e non su un solo aspetto della vita, quello che racconta con chi facciamo sesso, di chi ci innamoriamo. Il film è tratto dal romanzo “Il Blu è un colore caldo” di Julie Maroh, un testo pubblicato da Rizzoli, che ci racconta la stessa storia ma in maniera molto diversa. Il Blu è quello dei capelli di Emma, la ragazza che farà capire ad Adele cosa significa passione, amore, tenerezza, coppia.
Il film si divide in due capitoli. Gli anni dell’adolescenza e poi i primi anni maturi.
Il primo capitolo ci porta a seguire la vita di questa giovane ragazza alle prese con la ricerca, perché come ogni avventuroso adolescente, Adele studia e si studia. Cerca di capire cosa prova, cerca di non darsi ascolto, anche, temendo di non essere come il mondo la vuole. Tenta allora di amare un compagno di scuola, così è più facile, ma lo sguardo già è andato dove voleva, già ha visto abbastanza, il volto della donna che amerà, che segnerà gli anni seguenti. Quindi, segue la lotta a se stessa, la negazione di cosa prova, la paura di essere quello che si prova, fino all’accettazione della propria omosessualità, il proprio piacere sessuale, il proprio sentimento amoroso. E‘ immaturo il modo con cui Adele affronta tutto questo, non ci sono tante domande, non c’è un percorso, ma solo un seguirsi di emozioni forti, che la lasciano stremata, con la bocca aperta e gli occhi lucidi. Ma il corpo segue spesso prima l’emozione e poi, soltanto poi, la ragione e la riflessione su se stessi.
Così Adele affronta le conseguenze del suo essere omosessuale con rabbia ma senza consapevolezza. La disapprovazione sociale, le prese in giro, il rifiuto dei genitori di vedere, per preservare una idea di normalità che non esiste. La solitudine, in parte. Adele prima si nasconde poi smette e ama. Non sappiamo nulla di cosa si trasforma intorno a lei, perché quello che vive è solo emozione, la cinepresa è fissa su di lei, non sapremo mai se le amiche l’hanno accolta o se l’hanno definitivamente abbandonata, non sapremo mai se i genitori hanno visto in lei la figlia o si sono fermati al pregiudizio o addirittura, non hanno avuto modo di chiedersi nulla. Vediamo il mondo negli occhi di Adele ma solo nelle sue emozioni. Il mondo si trasforma nel suo desiderio, nel suo amare Emma e come per molti innamorati il resto sparisce. Il resto diventa sottofondo mentre la relazione si conferma, cresce. Il capitolo uno di questo film non è una storia omosessuale è una storia, assoluta perché lo sono le emozioni dell’età acerba, non c’è riflessione sulla storia che si vive. Adele vive. Tutto il resto le sfugge. E chi guarda il film finisce per l’entrare in quel mondo vitale ma senza troppe domande.
Quando ritroviamo Adele un poco più grande, il suo amore è ancora forte ma non lei. Il sentimento l’ha resa meno autonoma e le sue genuine caratteristiche, il suo sguardo pieno di meraviglia per il mondo è nascosto dall’immagine di Emma, che lei ritiene superiore e che costruisce una relazione dove il ruolo di Adele è quello della musa, fantastica ma poco reale. Di potrebbe dire che Adele dipende da Emma, vive alla sua ombra, si dedica alla sua compagna più che a se stessa. Quello che vediamo nel capitolo due della storia è la crisi, la mancanza di potere rigenerativo della coppia, l’assenza di una parità di ruoli che allontana le donne, fino alla crisi. Nessuna coppia può vivere senza una storia comune e loro sono state innamorate del loro sentimento, del loro corpo ma non hanno saputo costruire insieme attraverso i due diversi mondi che abitano ( una artista, l’altra insegnante). La fine della storia sarà il passaggio definitivo all’età matura di Adele. Dove l’ossessione per la ex compagna di vita verrà finalmente abbandonata e lo sguardo di chi la vede allontanarsi da quel dolore è pieno di speranza sulla sua possibilità di una vita piena, non all’ombra di nessuno ma ricca di se stessa, della poesia che c’è nei suoi occhi che cercano la vita, nelle sue mani che scrivono un diario intimo ma che temono ancora il mondo fuori. Adele finalmente diventa non solo un corpo che prova piacere, uno sguardo emotivo sul mondo ma una persona intera, capace di prendersi la responsabilità di una vita matura.
Il film di Keckicke non ci porta in un mondo lesbico, ma nel mondo. Dove le relazioni sono fantastiche ma struggenti e dolorose, dove trovare il proprio posto non è facile, dove tutti ci chiederanno qualcosa e sta a noi decidere come rispondere, anche restando in silenzio. Per nessun adolescente è facile venire fuori per quello che si è, certo l’omosessualità rende tutto più fragile e delicato, ma la storia di Adele è la storia di una ricerca di senso prima ancora che di un viaggio della sessualità lesbica. Che si ami un uomo o una donna, la fatica sarà sempre trovare come definirsi in un mondo che confonde e non sarà mai la storia d’amore che potrà salvarci o darci un nome, ma quello che scegliamo di fare della nostra storia d’amore, quello che decidiamo di fare del nostro nome che farà da titolo alla nostra vita.
Adele è struggente e forte, delicata e aspra. Una giovane donna che ci racconta una storia universale e che vogliamo credere viva un capitolo tre ricco di quello che è.
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