Autore: Dott.ssa Emanuela De Bellis
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Nella mia esperienza clinica, i genitori dei piccoli pazienti si dividono in due grandi categorie: quelli in difensiva e quelli in resa incondizionata.
I primi giocano in anticipo su tutte le accuse che possono essere volte loro: per ogni comportamento che trovano disfunzionale aggiungono la postilla “che poi è normale”; insieme ai racconti portano prove indiziarie sulle colpe di coniugi, nonni, insegnanti o altre figure, di riferimento o non, ma imputabili dei capi di accusa. A volte esordiscono con la frase “Lei mi dirà che sbaglio, ma io so che è meglio così”. Il punto centrale a cui ruotano i loro discorsi è che, cascasse il mondo, no, non è colpa loro se il figlio sta così.
Quelli appartenenti alla seconda tipologia, invece, arrivano fin dalla prima seduta con la testa bassa. Durante la raccolta anamnestica, rivelano le loro colpe, snocciolandole con cenni del capo vergognosi: “L’ho allattata fino ai due anni e mezzo… lo so che è troppo….”, “Dorme ancora con noi… sbagliamo su tutto…”, “La chiamiamo con un nomignolo… abbiamo distrutto la sua identità…”
Quando cerchiamo alternative per trasformazioni nel comportamento, se per esempio proponiamo un comportamento B in sostituzione a uno A, per vedere come va, la loro prima domanda è “Allora abbiamo sbagliato finora a fare A?”.
Manca solo che, arrivando in seduta, consegnino volontariamente la frusta al terapeuta perla successiva fustigazione.
Entrambi i tipi hanno una cosa in comune: sono strasicuri che io troverò degli errori in ciò che hanno fatto (Leggi pure “7 falsi miti della figura dello psicologo. Il giudice.”) Ancora peggio, sono convinti che nel fare il genitore ci siano dei comportamenti giusti e dei comportamenti sbagliati. Sono vittime del “Metodo del buon genitore”.
In seguito alla pubblicazione di un’enorme quantità di libri di psicologia e pedagogia divulgativa, pieni di consigli fai da te per la genitorialità, si è diffusa la convinzione che per essere buoni genitori ci si debba mettere a studiare: e da qui il fiorire di filosofie e scuole di pensiero. Dall’accudimento ad alto contatto ai genitori efficaci, dalla token economy ai time out, ogni filosofia spiega ai genitori quali siano gli atteggiamenti disfunzionali e quali le buone pratiche, portando a proprio sostegno dati statistici. Purtroppo la statistica è una scienza oscura alla maggior parte dei lettori, a cui basta leggere che una percentuale dei detenuti a Rebibbia da piccoli dormiva poco per concludere che il proprio figlio che non va a letto prima delle dieci e mezza diventerà un delinquente…
Se da un lato la diffusione di testi ha reso possibile una sensibilizzazione molto più forte a certi temi dell’infanzia, come per esempio la violenza domestica, dall’altro ha generato un tendenza ancora maggiore a delegare l’educazione dei propri figli a qualcun altro, rinforzando la credenza che per essere buoni genitori bisogna seguire una serie di regole. Che poi queste regole riguardino l’allattare fino ai 3 anni o lasciarli piangere finché non si addormentino, cambia poco, dal mio punto di vista: non c’è spazio per la soggettività del bambino, non c’è spazio per la soggettività del genitore. E, di conseguenza, non c’è spazio per l’intersoggettività da loro costruita.
Si stava meglio quando non se ne parlava? Assolutamente no! Ci sono tanti testi che spingono a una riflessione, invece che a una serie di azioni. Ci sono psicologi e pedagoghi che invitano a rinforzare le proprie competenze genitoriali, invece che ad acquisirne altre. Che spingono a farsi carico di se’, per farsi carico dei propri figli. Leggere un libro che ispiri una trasformazione è sempre utile.
Se posso dare un consiglio da psicologa, quindi, è: diffidate dei decaloghi, della soluzione pronta, della regola prescrittiva. Ricordate che la relazione genitoriale è, prima di tutto, una relazione tra due persone: che crescono, si trasformano e si incontrano in uno spazio costruito insieme.
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