una traduzione della Dott.ssa Luana Palermo

dell’articolo “Do research ethics need updating for the digital age?” di Michael W. Ross

tratto dal numero di ottobre 2014 della rivista Monitor on  Psychology.

Lo studio del contagio emotivo di Facebook solleva nuovi interrogativi.

Michael W. Ross

Nella prima settimana del mese di gennaio 2012, le reazioni alle notizie, da parte di più di 600.000 utenti di Facebook, hanno subito un sottile cambiamento: all’insaputa degli utenti stessi, i ricercatori hanno manipolato il contenuto delle reazioni emotive, per esaminare come le emozioni tra gli amici di Facebook creassero un’influenza reciproca.

Lo studio su questo “contagio emozionale a grande scala attraverso i social networks” (PNAS, 17 giugno 2014) ha generato un significativo dibattito sia nella sfera pubblica che nella sfera scientifica. La gran parte di questo dibattito era centrato sugli aspetti etici dello studio. In un editoriale, anche il capo redattore della rivista ha espresso la preoccupazione che “la raccolta dei dati attraverso Facebook potrebbe aver implicato delle pratiche che non erano completamente aderenti ai principi di ottenere un consenso pienamente informato e di consentire quindi ai partecipanti la scelta di non aderire” (Verma, 2014).

C’è stato un dibattito esteso ed incisivo riguardo alle questioni scientifiche ed etiche derivanti da questo studio. Broaddus (2014), per esempio, ha evidenziato come problema la mancanza di trasparenza, sebbene lo studio fosse stato condotto attraverso le attuali linee guida riguardanti l’etica per la ricerca che coinvolge le persone e, cosa ancor più importante, ha sottolineato quanto i valori etici (sia per quanto riguarda l’opinione pubblica che l’etica professionale) siano implicati in un senso di ciò che è appropriato oppure ciò che non è appropriato e che questi valori possano cambiare nel tempo, nella cultura e nel contesto. Meyer (2014) ha affermato che il tipo di ricerca fatta sui dati di Facebook è stata importante da un punto di vista scientifico, e che noi non vogliamo che il risultato che ne consegue da tale dibattito sia che questo tipo di ricerca venga condotta in maniera nascosta. Wood (2014) invece ha riportato che un popolare sito online di appuntamenti, OkCupid, ha attivato una manipolazione analoga del contenuto generato dagli utenti che lo utilizzano, osservando con il presidente del sito che “se usate Internet siete soggetti a centinaia di esperimenti in ogni momento e in qualunque sito”. La questione dunque non è soltanto circoscritta, ma riguarda anche un uso relativamente comune dei dati di Internet.

Una domanda alla quale noi possiamo molto velocemente dare soluzione è questa: lo studio non era etico? Non sembra, perché qualunque eventuale rischio previsto non ha superato i benefici, ed il relativo comitato di revisione istituzionale (IRB) ha evidenziato che lo studio non è stato considerato nel suo programma sulla ricerca umana, perciò il processo IRB è stato indirizzato in maniera appropriata. Tanto più che, i termini di accettazione che sono pubblicati su Facebook rendono chiaro che “la ricerca” può essere condotta, sebbene l’aggiunta di questa spiegazione appare essere relativamente recente e non poteva essere stata presentata a tutti coloro che usano Facebook coinvolti nello studio quando si sono iscritti.

Il dibattito solleva un’altra questione: avrebbero potuto i ricercatori condurre lo studio consentendo alle persone di non essere studiate? Probabilmente no, perché non essere studiati introduce una potenziale inclinazione che avrebbe potuto nascondere il sottile effetto. Naturalmente sappiamo questo soltanto col senno di poi. Si sarebbe potuto anche effettuare il processo di selezione in maniera meno casuale, limitando la generalizzazione.

Se lo studio è stato etico e non si sarebbe potuto condurlo in nessun altro modo, perchè vi è stata una tale estesa reazione tra il pubblico, i media e gli scienziati? Per un motivo principalmente, ovvero che può essere scioccante per molti apprendere che tale ricerca è diventata una questione di routine su Internet.

Analizzando il linguaggio emotivo di alcuni commenti, in cui sono usati termini come “manipolazione”, “burattinai che giocano con i dati che noi lasciamo online” oppure “cavie”, si evidenzia proprio questo punto. Inoltre, l’uso stesso del termine della ricerca “contagio emotivo”, nel titolo dell’articolo, è stato provocatorio per certi versi, poiché si considera che le emozioni siano tra gli aspetti più personali ed autentici dell’identità di una persona. Il fatto che le emozioni possano essere manipolate potrebbe essere giudicato come un attacco più personale rispetto a manipolazioni di altri aspetti del comportamento.

Sia che tali reazioni siano giustificate o meno, noi abbiamo bisogno di prendere seriamente le questioni che hanno sollevato. Questo tipo di “manipolazione” avviene in maniera routinaria nella ricerca pubblicitaria, per esempio, ha notato Broaddus. Il senso di perdita di privacy dunque rimane ancora il cuore della questione. C’è una grande differenza tra l’usare un set di dati per descrivere una popolazione e le relazioni tra le variabili, e il manipolare i comportamenti e le esperienze degli individui entro la popolazione. Io ritengo che ci sia maggior bisogno di attenzione e trasparenza quando viene introdotto un intervento che manipola comportamenti ed esperienze.

Ci sono dei problemi da un punto di vista psicologico. Il fatto che tale ricerca manipolativa sia una routine nel commercio non esclude che come professionisti, psicologi ed altri scienziati del comportamento, si sia tenuti a standard più alti, rispetto a coloro che vendono auto usate o dirigono la pubblicità. Il fatto che il pericolo oggettivo previsto sia piccolo non significa che questa sia una completa giustificazione. C’è una distinzione tra “pericolo” e “sbagliato”, e ciò a cui le persone reagiscano è a un senso di “sbagliato” -sia nella mancanza di trasparenza che nella mancanza di un chiaro consenso.

Ci sono anche implicazioni di carattere legale. Per esempio, non è chiaro se il campione di Internet contenesse persone al di sotto dei 18 anni o persone che fossero al di fuori degli Stati Uniti, che potessero essere soggetti a diversi livelli di analisi in questo studio di ricerca. L’Unione Europea, per esempio, ha leggi sulla privacy molto più rigide, che possono essere state violate dallo studio su Facebook. Non è chiaro se le leggi che governano la protezione dei dati siano le leggi nella giurisdizione dove risiedono i partecipanti della ricerca, dove risiedono i ricercatori e dove sia collocato il server, dove i dati siano analizzati e dove si collochi l’IRB o le combinazioni di questi vari fattori. I ricercatori hanno bisogno di stabilire questo prima di imbarcarsi in studi su Internet.

Da psicologi e studiosi di etica, cosa consigliamo noi di fare di diverso dopo ciò? Un suggerimento potrebbe essere, come metodo a livello formale, l’abbandonare qualunque tipo di ricerca sui siti web (il che non necessariamente implica appunto abbandonare la valutazione di servizi sul web oppure del marketing). Tale distinzione potrebbe essere fatta notando la differenza tra valutazione per scopi commerciali e ricerca per generare una conoscenza scientifica generalizzabile -ed il fatto che i dati di Facebook siano stati pubblicati in un giornale soggetto alla revisione dei colleghi sottolinea il punto che ciò sia stata considerata conoscenza generalizzabile nella sfera della teoria dell’emozione.

Per rendere chiara questa opzione, i siti web dovrebbero sviluppare una pagina nel profilo di coloro che li usano con il titolo “Consenso per uso di ricerca generale” che quindi permetta ai nuovi iscritti di controllare oppure cancellarsi dall’opzione della ricerca.

Sarebbe preferibile offrire un’uscita generale riguardo all’iscrizione piuttosto che da uno studio specifico di ricerca, dal momento che uscire da uno specifico studio introduce una selezione di consenso collegata al soggetto di quello studio. D’altro canto, se associato a un particolare studio potrebbe esserci un potenziale pericolo, è consigliabile per il consenso la trasmissione di informazioni semplici e specifiche, relative a quello studio.

Mi sembra che il pericolo che emerge da questo studio è un senso di perdita della privacy e una mancanza di trasparenza, oppure perdita di controllo su ciò che viene fatto con i dati, ed è necessario che noi quindi prendiamo seriamente queste reazioni. Forse la percezione è come quella svestirsi davanti ad una finestra aperta e quindi essere guardati da qualcuno che osserva, ma quel senso di violazione è reale. Forse è anche il momento di rivedere le nostre piattaforme etiche, che risalgono in gran parte ad un’era predigitale, alla luce dei recenti sviluppi nella raccolta e nell’immagazzinamento dei dati su Internet.