Autore: Dott.ssa Simona Saggiomo
Questa domanda sembra di semplice risposta, ma nel corso della mia professione sto pensando a come costruire il luogo di terapia con il paziente, e non è così semplice. Ho cominciato a farmi domande rispetto al dove, quindi al luogo di incontro del colloquio con la persona e se ci penso non è sempre avvenuto in studio.
La Scuola di Specializzazione ha in più aggiunto delle varianti, così, per far diventare tutto più complesso, ma anche più affascinante.
Alla telefonata che segue la richiesta di un colloquio per un problema, si spiega la strada per arrivare allo studio, questo è il primo setting che terapeuta e paziente incontrano : l’indirizzo. Quando andai in terapia la prima volta mi informai del posto in cui il mio psicologo esercitava : era a Torino, in una via centrale, un po’ caotica e ricordo che in sala d’attesa, oltre all’agitazione normale, osservavo l’arredamento, l’accoglienza, e se le sedie fossero comode. Ecco il secondo aspetto : far sentire a proprio agio la persona che entra in studio. Esistono molti tipi di studio a seconda del tipo di terapia che si intende seguire : se si accolgono bambini ci vuole uno spazio – gioco adatto all’età di riferimento, se invitiamo famiglie intere oltre lo spazio, è utile un divano o delle poltrone, se invece si seguono solo individui è facile incontrare solo due poltrone, una di fronte all’altra. Insomma: anche l’arredo non è così scontato, ma funzionale al tipo di terapia che si intende fare.
Il mio primo studio aveva una scrivania e due poltrone, ma dopo la Scuola ad indirizzo sistemico relazionale, la scrivania ha cambiato funzione: se prima era un divisorio tra me e il paziente, oggi è il luogo dove appoggiare carta e penna; tra me e i miei pazienti adesso c’è uno spazio diverso a seconda delle necessità: quindi qual è la sua funzione? E’ utile per la propria espressività corporea, sia del terapeuta, che dei pazienti. Nel momento in cui si usano delle tecniche espressive, è importante poter avere un luogo dove poter rappresentare anche altro.
Ciò che sto imparando è per comprendere le problematiche della persona anche il corpo può aiutarci, quindi un tappeto e altre sedie possono essere altrettanto funzionali per invitare altre persone o per esprimere ciò che le parole non possono dire. Un esempio che porto sempre sono le “Sculture”, usate in terapia per visualizzare e rivivere un problema anche dal punto di vista fisico, che poi verrà elaborato in seguito.
Il settimg quindi non è così scontato : incontrare l’altro presuppone che noi terapeuti nella testa abbiamo chiari alcuni aspetti : lo studio e la sua organizzazione per garantire la privacy sia emotiva che fisica.
Ma cosa succede quando si incontrano pazienti al bar o in luoghi affollati? Cosa succede quando si aiutano le persone in una tenda da capo?O quando si è in una sala d’attesa?
Ciò che ho imparato è che interventi diversi necessitano setting diversi e queste opportunità sono da cogliere per aiutare persone colpite da eventi differenti: l’importante è avere chiaro in mente che cosa si vuole fare e come, perché non tutti i pazienti vengono in studio e quindi non possiamo restare rigidi e convinti che quello sia l’unico modo per fare terapia. Sempre che di terapia stiamo parlando. Vediamo alcuni esempi.
L’11 SETTEMBRE
Durante il Master in Psicologia dell’Emergenza un docente ci ha raccontato che lui stava facendo Tirocinio presso il reparto di Psichiatria di un Ospedale di New York quando le Torri gemelle furono colpite ; appena si è compreso l’immane tragedia, nei giorni successivi hanno aspettato i pazienti : chi in studio, chi in reparto, ma nessuno mai è arrivato. Che cosa è successo? Le Vittime che avevano assistito all’impatto erano centinaia e centinaia : dov’erano?
Giunti sul luogo della tragedia, gli Psichiatri e gli Psicologi videro che le persone colpite erano ancora lì, sulle macerie : chi attonite, chi in stato di agitazione, chi parlava da solo, chi pregava, chi teneva in mano una foto. Furono atterriti dal Dolore che queste persone sopravvissute o che attendevano notizie sui loro parenti portavano negli occhi, e cominciarono ad organizzarsi con i medici e le squadre di soccorso per allestire una tenda dove accogliere questo Dolore.
“Come maivoi professionisti attendavate i pazienti in Ospedale o nei vostri studi?
Questa mia domanda all’inizio suonò come banale, ma aprì una discussione importante : esiste un setting predefinito per fare terapia? Si fa terapia in tutti i setting? E sopratutto : il setting è solo una questione fisica o anche mentale?
Devo dire che le domande appena enunciate non furono così superficiali, ma fonte di ricchezza e curiosità. Il setting è spesso considerato solo un luogo con regole precise e rigide legate alla corretta funzionalità della terapia, ma questo vale per chi lavora in studio privato o in Ospedale; chi usa setting legati all’emergenza, spesso tali regole le ha nella testa, più che nello studio.
TERREMOTO DELL’AQUILA
In seguito al terremoto dell’Aquila, la Croce Rossa organizzò delle squadre di emergenza per aiutare le persone ad allontanarsi dalla zona terremotata per un ricovero provvisorio, ma più sicuro. Gli Psicologi dell’emergenza furono chiamati per diverse attività : sia con la popolazione, sia con il personale, volontario e non . A me fu chiesto di effettuare i debrifing per i Volontari al rientro dalla missione per valutare se ci fossero effetti e di che tipo riguardo la loro salute mentale e non. L’organizzazione fu allestita in un setting militare, ma le regole erano le medesime dello studio.
Quindi : accogliere i vissuti dolorosi e i ricordi piacevoli ha il medesimo valore di fare terapia, anche se in quel momento si tratta di supporto psicologico.
TIROCINIO IN UNA SALA D’ASPETTO
La bella esperienza di fare tirocinio in una sala d’aspetto di un Pronto Soccorso ha dato risultati inaspettati : il personale medico ed infermieristico ha valutato positivamente questo esperimento, peccato che non ci siano stati i fondi necessari per renderlo effettivo. Si trattava di accogliere e contenere l’ansia dei parenti o degenti in sala d’aspetto in turni notturni presso un Ospedale della provincia di Savona. Questo setting era sì ospedaliero, ma era una sala, e l’obiettivo non era fare terapia, ma dare informazione ai perenti che aspettavano circa i loro familiari al di là della porta delle sale di degenza del pronto Soccorso. Il contenimento emotivo era fonte di sollievo per il personale medico ed infermieristico che non si sentiva pressato dai parenti che a causa dell’ansia continuavano a chiedere informazioni, sia per i parenti stessi che si sentivano ascoltati nella loro attesa e dolore. Lo “Psicologo – tampone” ha offerto a tutti la possibilità di lavorare meglio e con maggiore sollievo, e ha dato tempo e spazio di ascolto ai parenti in ansia per l’attesa dei loro cari.
Queste esperienze mi hanno fatta riflettere che il luogo dove si incontra lo Psicologo non è solamente lo studio privato, ma anche altrove. Questo posto – altro deve comunque essere pensato e avere dei confini, se non fisici, almeno nella testa del professionista. Questo è fondamentale per non incorrere in facili equivoci . Quello più comune è che se il professionista ha il setting nella testa può fare supporto, dare informazioni o fare terapia ovunque : no! Sia chiaro : esiste sempre una privacy, esiste sempre la professionalità del Professionista che deve gestire lui l’aiuto e non che sia il paziente a farlo o a manovrarlo ( esempio : “ Può per favore, dire a mio fratello che io non posso fare…?); esistono dei limiti che lo Psicologo deve conoscere e gestire e che non si può fare tutto ovunque e subito.
Queste righe spero siano anche di monito per i clienti degli Psicologi, che possano così osservare la sua professionalità e domandarsi quando è corretto incontrare professionista al bar e quando un amico, quando una consulenza o un’informazione utile ad un percorso o un problema si chiede in un luogo protetto dalla privacy e che lo Psicologo non può fare da terzo per chiedere delle cose che un parente non ha il coraggio di fare.
Quest’ultimo esempio è nato da una famiglia che ho visto durante la Scuola di Specializzazione, dove un signore era venuto in terapia affinché io e il mio collega dicessimo ad un suo parente una cose che lui riteneva fosse un problema, ma che il familiare nemmeno si immaginava. Questa sorta di manipolazione verso il terapeuta è più comune di quanto non si creda, tanto in studio che fuori.
Siamo noi i professionisti del nostro lavoro, non i nostri pazienti : noi ci dobbiamo alleare col loro dolore , non coi loro modi, e questo deve essere chiaro, benché non sia così scontato.
Quindi chiedo ai colleghi di pensare bene dove fare supporto, terapia o accoglienza e se questo luogo sia consono non solo agli obiettivi, ma soprattutto che sia scelto dal terapeuta e non dal paziente; in caso contrario dovremmo riflettere sul significato di tale manipolazione, perché ci dà molte informazioni sul funzionamento di chi abbiamo davanti : se manipola noi, manipolerà anche altri, quindi che cosa significa questo per lui? Che funzione ha?
Ricordo infine a coloro che scelgono un professionista che il loro Dolore o sofferenza deve essere presa in carico da qualcuno di cui ci si può fidare, e la fiducia passa attraverso molte cose: dalle informazioni complete che l’altro ci dà, dal modo in cui ci tratta, dallo spazio fisico che ci offre, dall’accoglienza delle nostre richieste. Se qualche cosa ritenete sia dubbioso, esiste un Ente che dà informazioni : l’Albo degli Psicologi, che vi potrà aiutare a chiarire i vostri dubbi sull’operato del professionista incontrato.
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