Autore: Dott.ssa Marzia Cikada
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Una colpa non è cancellata finché si rammenta. Carlo Dossi
Nota prima di cominciare: Leggendo questa recensione potrebbe capitare di intendere troppo del film, si consiglia di non passare di qui, se non dopo averlo visto per evitare lo spoiler.
La colpa perseguita. Senza un percorso capace di accogliere il proprio dolore, le ferite saranno sempre aperte e sempre grideranno vendetta. Se non si affronta un percorso personale capace di farci superare la colpa morale, lasciandoci con la pur pesante responsabilità del gesto compito o non compiuto, dell’errore, del lutto subito, questa resterà con noi, come una compagna, presente, vicina, reale. Third Person, per la regia di Paul Haggis è questo. Un film sul come, mancando il perdono, la vita diventi un lungo seguitare a trovare come modificare un passato impossibile da cambiare, un cercare soluzioni dove non ne esistono. Una assoluzione che non può dare altri che chi la chiede.
Si tratta di un film complesso e dalla trama non lineare, che passa da un contesto geografico all’altro ( Roma, Taranto, NewYork, Parigi) che investe su moltissimi attori ma che, in fondo, racconta una sola storia. L’impossibilità del perdono.
Il protagonista è lo scrittore Michael ( Liam Neeson) che vive in albergo e vede arrivare la sua amante dalla vita travagliata. Su di lui pesa una colpa. Una tragedia che urla “Guardami” con la voce di un suo figlio. Il film è la storia di quella voce. Definendosi l’unico colpevole di una tragedia personale, lo scrittore usa quella che pensa essere la sua sola arma, la parola.
Third Person è un film con molti simboli, molti significati. In tutte le storie possiamo ravvedere gli stessi elementi che si susseguono, l’elemento dell’acqua continuamente richiamato, in tutte le storie tracce di un comune denominatore, odori simili, simili sofferenze, che vengono chiarite solo lungo l’intreccio. E poi abbiamo l’uso del colore bianco, simbolo di fiducia, ma anche, come scrive lo stesso scrittore “il colore delle bugie che egli ha raccontato a se stesso“.
Ci sono una donna Julia/Mila Kunis che non può tornare a vedere suo figlio, allontanatole e dato in affidamento al solo ricco padre pittore Rick/James Franco, un uomo d’affari nel campo della truffa Sean/Adrien Brody che vuole a tutti i costi aiutare una donna Monika/Moran Atias, conosciuta in un bar, a riprendersi sua figlia in mano al loschi figuri e la storia d’amore incapace di equilibrio tra lo scrittore e la sua Anna/Olivia Wilde, donna volubile, instabile e ferita.Sembrano storie diverse ma sono sempre la stessa storia. Tutte storie di genitori e di figli che hanno bisogno di loro o lo hanno avuto.
Tutto vive nella ripetizione continua della colpa di Michael, nel rivivere in continuazione la sua tragedia nonostante la moglie Elaine ( Kim Basinger) cerchi di farlo tornare alla vita, di farlo tornare a casa, alla quotidianità, nel perdono ma lui non può, non se lo permette. Unica reale in un mondo di fantasie, sarà lei a condurre alla luce del giorno lo spettatore, indicandogli la via per comprendere la storia, mentre lui, Michael, incapace di perdonarsi, resta nel suo buio, solo, incastrato nel suo male. Storia dopo storia, dopo storia.
Se il film cede su diversi punti, una sola cosa, a parte l’interesse per il tema della colpa e del perdono che ha motivato questo post, ritengo sia importante scrivere, il gran numero di stereotipi presenti sull’Italia che vengono cosparsi in tutta la storia e che vedono protagonisti Riccardo Scamarcio e qualche altro volto noto. Verrebbe da dire se ne avevamo proprio bisogno di questa immagine di italiani rozzi, per lo più poco intelligenti, grevi e delinquenti, Ma fa niente, sorridiamo almeno dell’idea, dei realizzatori del film, che in Italia viaggino tutti ancora in 126 o 500 storica e che, pure con cotanta macchina, Roma/Taranto ci si metta poco più di una gita fuori porta. Non sarebbe in fondo male avvicinare le distanza esteriori tra le nostre città. E poi, comunque, è sempre la magia del cinema!
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