Autore: Sara Bini
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“Per un essere umano amare un altro esser umano: questo è forse il compito più difficile che ci è stato affidato, il compito ultimo, il test e l’esame finale, l’opera per cui tutte le altre opere non sono che una preparazione.”(R.M.Rilke)
Per una serie di recenti vicende, mi sono trovata a riflettere molto sulla parola ‘amore’ che tutti sappiamo quanto sia usata e talvolta ab-usata. Se mi guardo intorno, se apro un giornale, mi sembra che gran parte di ciò che noi essere umani abbiamo chiamato con questo nome sia in realtà qualcos’altro, o una sua versione di serie Z. Prendiamo ad esempio l’amore tra genitori e figli: quello che più spesso è stato paragonato all’amore di Dio in virtù della sua potenza, profondità, disinteresse e gratuità. Senza arrivare a purtroppo sempre più diffusi ‘estremi’ , tipo genitori che uccidono o sequestrano i figli e viceversa, saltano comunemente agli occhi le costanti manipolazioni subite da molti bimbi nel rapporto di potere tra i due genitori.
Se poi osserviamo il mondo delle coppie, il panorama non è tanto più rinfrancante; lo si potrebbe condensare nelle incisive parole-laser di Byron Katie “Le personalità non amano; vogliono qualcosa”. In questo ‘volere qualcosa’ Katie mette perfino il semplice desiderio di essere contraccambiati, figuriamoci il resto (soldi, prestigio, affetto, riconoscimento, sicurezza, sesso…)! Finché l’umanità agisce soltanto a livello di personalità -ossia di istinti, emozioni e pensieri stereotipati- i rapporti ‘d’amore’ appaiono poco più che ‘contratti’ di scambio merci secondo equilibri più o meno funzionali e precari.
Tali compromessi o accomodamenti possono tuttavia rappresentare un passaggio necessario e anche evolutivo, specialmente se il rispetto umano e l’ affetto sincero -che provengono da livelli più profondi della mera emotività- illuminano quella relazione.Tale calore e tale rispetto possono sì essere momentaneamente oscurati da dinamiche di dominio e controllo, ma riemergono vividi e vitali non appena uno dei membri in gioco parla a cuore aperto e l’altro ascolta con altrettanta umiltà e apertura. Questo è già la cellula germinale di un amore degno di essere chiamato tale: si comincia ad andare oltre alle compra-vendite dell’ego, ai pregiudizi su uomini e donne o alle frustrazioni personali.
Quando invece sono il potere, la paura e il controllo a prevalere sull’affetto e sulla buona volontà, ecco che si le situazioni dolorose si incancreniscono negli individui, nelle coppie, nelle famiglie e, di riflesso, nella società. Ognuno si barrica nella sua armatura di paure, ferite, rancori, certezze assolute e pensieri di separazione. Si prova quasi un piacere perverso a enumerare i punti di conflitto piuttosto che a cercare i momenti di unione, bellezza.
Sia chiaro, è un bene che certi rapporti finiscano, specialmente quando sono particolarmente male assortiti, distruttivi o con forti disarmonie nei tempi di crescita degli individui coinvolti. Anche in questo caso, tuttavia, si può chiudere una relazione in due modi: scalciando e aggredendo o con una certa dose di generosità e dignità. In quest’ultimo caso, va da sé che è più facile salvare il salvabile e non buttare via il bimbo insieme all’acqua sporca.
Benché uscire dall’orgoglio, dalla lamentela, e dal vittimismo sembri un’impresa titanica, si tratta di un tipo di lavoro interiore che ripaga molto in serenità e qualità di vita . Se non altro, ci porta a un punto di pace nel rapporto più imprescindibile e importante che abbiamo: quello con noi stessi – misura essenziale e modello finale del rapporto che instauriamo con gli altri.
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