Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

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Ci sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare. Oriana Fallaci

Il film “Cake”  del regista Daniel Barnz è conosciuto come il film dove Jennifer Aniston  supera il suo solito personaggio da commedia e si prova con il ruolo di una donna che sta male, una donna che soffre di un dolore che sembra non poter trovare consolazione. In realtà non è un gran film, anche se la prova d’attrice funziona, ma quello che colpisce e come lascia una impressione, quasi fisica, della stanchezza che si prova a convivere con un dolore pulsante che non si affievolisce e che, allo stesso, tempo non si vuole dimenticare o far affievolire.

Il film è la storia Claire Simmons ( J. Aniston) che ha perso suo figlio in un incidente autostradale e oltre alle evidenti cicatrici sul corpo, ne possiede di ben peggiori peggiori invisibili a occhio nudo. Il lutto è qualcosa che non riesce a farla andare avanti e Claire si è arresa al suo male e alla sua rabbia per qualcosa che non può cambiare ma neppure vuole accettare. Il dolore in genere non è un buon biglietto da visita e ancora di più, il  dolore degli altri spaventa e allontana. Sembra che nessuno riesca a star vicino a Claire e al suo male, un malessere denso che ricopre quanto la circonda. Claire non tenta in nessun modo di superare il suo dolore e per stare con lui è voluta rimanere sola, ha mandato via il marito, gli amici, la fisioterapista e il suo gruppo di supporto l’ha cacciata per il suo modo aggressivo di porsi, per il suo cinismo brutale. Il suicidio di Nina (Anna Kendrick), una giovane donna che frequentava il suo stesso gruppo, che muore desiderando di far una torta (cake) per suo figlio, diventa per lei una vera ossessione, cerca la sua famiglia, l’uomo e il figlio che ha lasciato e attraverso loro inizia un flebile cambiamento.

Claire non suscita empatia, anche nelle sue sfumature più ironiche, il suo dolore che continua uguale giorno per giorno allontana anche lo spettatore come nella vita allontana le persone, fino a che, chi soffre, non si trova completamente, pienamente solo. Se qualcosa passa in questo film è proprio la fatica che avvolge le persone che stanno male, una fatica che spinge via, che non permette a nessuno di avvicinarsi rendendo sempre più difficile la ripresa della propria vita.

Unico personaggio veramente positivo è la decisa e comprensiva Silvana (la brava attrice Adriana Barraza, già in passato candidata all’Oscar), la colf/dbadante/amica che riesce a prendersi cura di lei come una madre protettiva e piena di compassione ma, allo stesso tempo, diretta nel definire cosa non le piace del suo modo di “curarsi” con alcol e pasticche antidolorifiche assunte in ingente quantità. Anche esasperata non lascerà stare la donna che ha visto prima e dopo il dolore, pure quando le dirà chiaramente cosa pensa anche della sua indecisione a farla finita, sarà di una forza squisita e accogliente, unica a cui è permesso stare vicino a Claire. E’ lei che le sarà vicina nei suoi viaggi interiori, proprio così come è lei a guidare la sua macchina per andare in giro o in Mexico a cercare altre pillole, mentre Claire, distesa, giace nel sedile accantosenza poter/voler guardare il mondo, la vita che scorre al suo fianco.Una presenza silenziosa ma ancora capace di credere che la vita possa riprendere anche per quella donna cinica e dolorante che vede. La sua fiducia in Claire è la possibilità stessa di pensare un cambiamento.

Come accade in tanti cammini, anche terapeutici, Silvana accetta tutto il dolore e i limiti di Claire, ne custodisce i segreti e ne protegge le risorse (insieme con i giocattoli del figlio che non fa buttare) per poterle però indicare la possibilità, dentro se stessa, di riguadagnare la sua vita.

Solo quando riuscirà a permettersi di guardare ancora fuori dal finestrino, sarà possibile pensare che un possibile futuro diverso, vissuto e non sopravvissuto, sarà possibile per questo antipatico e, forse proprio per questo, umano al di là del cinematografico, personaggio femminile.

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