Film (2013): Her

Autore: Francesca d’Arista

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Her. In questo titolo stringato possiamo ritrovare una moltitudine di spunti su cui riflettere, come d’altronde ci offre il mondo del www evocato dall’aggettivo utilizzato. Le prime scene ci presentano Theodore e il suo contesto.

Il suo lavoro è scrivere lettere per conto di altri, intrise di emozioni che ormai le persone non riescono più a esprimere, e forse neanche a provare, affidate alla penna di un estraneo. Già questa realtà è piena di tristezza e solitudine. Il film è infatti un affresco delle relazioni vissute nell’epoca 3.0, poco lontane da quelle ritrovate negli intramontabili classici di genere: l’incomunicabilità, le incomprensioni, la fatica di accettare l’altro e di considerare i suoi desideri e i suoi bisogni, l’esigenza di trovare qualcuno che ci ascolti e ci accetti per quello che siamo. Theodore sembra aver trovato questo qualcuno in qualcosa: un software, evoluto, programmato alla perfezione, ma comunque non un essere umano. Facile per chi, come lui, sembrerebbe individuare le relazioni in cui si sente più a proprio agio in quelle virtuali (donne di chat erotiche e personaggi di giochi in 3D). Al regista bastano poi una manciata di minuti per infrangere l’illusione creata: Samantha, crescendo ogni momento, si “umanizza” sempre di più, facendo emergere un femminile umanizzato con tanto di gelosia, apprensione, quotidianità. Talmente femminile che è proprio Lei, come spesso accade nella realtà, e come accade a Theodore con sua moglie e alla sua coppia di amici, ad attivare una riflessione sulla relazione, a darle una “svolta”. L’immagine finale ci lascia comunque una speranza, una fiducia nelle relazioni. Un Lui e una Lei, fatti di corpo e mente, di sensi non circoscritti soltanto a quello dell’udito, che guardano il mondo, dall’alto, da un’altra prospettiva. Vicini. Muti ma comunicanti. Davanti a un’alba nuova che contiene future emozioni frutto della complessità propria della natura umana.

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Quanto fa male lasciarsi? Dolore e Neuroscienze.

Quanto fa male lasciarsi? Dolore e Neuroscienze.

Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

vedi Blog dell’Autore

“Il più difficile non è il primo bacio, ma l’ultimo.”

P. Géraldy

Lasciarsi fa male. Male in molti modi che spesso non si riescono a spiegare. Perchè si pensava sarebbe stato “per sempre”, perchè si era costruito un progetto comune, perchè significa ricominciare da soli, perchè la rottura non sempre la si cerca e chiede in due.

Star male per un amore finito rende fragili. Una fragilità che può portare a conseguenze pericolose per il benessere come depressione, allontanamento dalla vita di sempre, isolamento, problemi dell’autostima.Ognuno con le sue caratteristiche, al momento di vivere il dolore di una rottura, ci confrontiamo con i nostri aspetti più intimi, in maniera diversa con l’età ma sempre in modo struggente e feroce.  Capita spesso di sentire da chi soffre di un tale dolore la paura di non potersene fare una ragione, il terrore di restare poi soli per sempre, la sensazione di quanto sia impossibile trovare un’altra persona con cui condividere la vita, sognare, fare progetti, fare famiglia, vivere avventure.

Un dolore tanto forte che diventa fisico. Anche quando lo si racconta si cerca di dargli una connotazione fisica, una immagine che abbia a che fare con il dolore che si conosce, quello del corpo. “Mi ha spezzato il cuore”, “è come aver perso parti del mio corpo”, “è stato un calcio nello stomaco”, uno “schiaffo in faccia…”. Sono moltissimi i tentativi di raccontare il male che si prova utilizzando mani, piedi, stomaco, cuore, parti del nostro corpo.

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Dal Tempo Biologico all’Atemporalità dell’Inconscio

Autore: Dott.ssa Maria Grazia Antinori

vedi Sito Internet dell’Autore

 

“pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto ed immutabile?

ah no! Il suo abito è fatto di taffettà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi”

Kundera M.

Il tempo lineare

   Lo scorrere del tempo è una dimensione silenziosa ma fondamentale la cui scoperta avviene progressivamente, i bambini rispetto agli adulti,  hanno una diversa consapevolezza del tempo che vivono come molto più dilatato, solo durante l’adolescenza si matura la scoperta della finitezza del tempo biologico. Anche durante la giovinezza il tempo rimane una dimensione quasi inavvertita che si impara a riconoscere  con la maturità, magari sollecitati dall’assistere all’inizio e alla fine della vita. Lo scorrere del tempo implica la finitezza della vita e la sua conclusione , una considerazione difficile da tollerare ma  essenziale nel dare senso e valore ad ogni singola individualità.

   Si adatta ad esplicitare questo concetto il  racconto di Simone de Beauvoir “Tutti gli uomini sono mortali”, è la storia di un unico uomo ha il dono dell’ immortalità, questa condizione apparentemente ideale, trasforma l’uomo immortale in un essere senza storia, senza tempo e senza senso,  privandolo della stessa esistenza. In altri termini essere  esonerato dal  morire e quindi dal tempo limitato,  rende l’essere immortale impedito a vivere.

  La concezione moderna del tempo oltre che dalla finitezza è caratterizzato da un altro tema classico ossia il  mutamento ma l’aspetto nuovo non è tanto la metafora dello scorrere del tempo equiparato allo scorrere del fiume ma  piuttosto il cambiamento di chi osserva, ossia del soggetto.  Infatti il concetto di individualità acquista valore se considerato nella sua irreversibilità e non specularità, ossia ogni individuo non equivale a nessun altro  e nessuno può vivere la vita di un altro .

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Il Corpo Parla e Svela le nostre Bugie

 Autore: Dott.ssa Simona Saggiomo

 

In studio incontro molte persone con problemi simili, ma con vissuti personali e intimi e diversi.

Spesso arrivano avendo già provato molte soluzioni, con poca efficacia, per questo scelgono di venire in terapia e chiedere un consulto.

Da qualche tempo, oltre ad ascoltare ciò che ognuno di loro mi racconta e stare attenta al comportamento non verbale, chiedo loro come stanno fisicamente: se soffrono anche di altro, oltre ad avere un malessere psicologico, perché il corpo parla laddove noi non lo ascoltiamo.

La Psicosomatica e la Metamedicia offrono spunti di riflessione e significato del feedback tra corpo e mente e di come questi, parlandosi, comunicano anche a noi qualcosa : ma quanto siano in grado di ascoltarli?

La Psicosomatica è una branca della Psicologia interessata a considerare un disturbo somatico, del corpo appunto, come causa di qualcosa nato a livello psicologico; il corpo e la psiche fanno parte di un tutt’uno e si influenzano a vicenda. Alcune Scuole di Specializzazione si incentrano proprio su questa lettura del corpo e del significato psicologico per aiutare le persone, allargando quindi il punto di vista della sola mente, ma inserendola in un contesto psico – bio- sociale più ampio.

Ho scoperto da poco la Metamedicina ingloba la Psicosomatica  e ricostruisce la storia e le caratteristiche della malattia, partendo dal disturbo fisico. Essa cerca di collegare al sintomo un mal – essere più profondo, da ricercarso in uno squilibrio mente – corpo che si è ignorato per tanto tempo.

Ciò che in studio ritrovo più frequentemente sono disturbi legati al respiro ( ansia e agitazione, per esempio), all’ apparato gastrointestinale ( gastrite e reflusso gastrico), dolori cervicali o lombari, per non parlare di quelli più generici muscolari e relative rigidità.

Ognuno è unico e qui non potrò che fare delle supposizioni da verificare e co -costruire col paziente: ciò che vale per uno non significa che sia ugualmente valido per un altro, ma sicuramente ci sono delle correlazioni importati da valutare insieme.

Questa mia curiosità mi ha portata ad approfondire quindi anche “come sta il suo corpo”, oltre che “come sta la sua mente”, perché i due aspetti si parlano costantemente e ci dicono molte cose.

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Attualità: “Amaxofobia: la paura di guidare”

Autore: Dott.ssa Monica Monaco

Vedi Sito Internet www.benessere.com

 

L’aumento del numero di persone che si muovono abitualmente in auto ha portato la guida tra le attività che tante persone svolgono quotidianamente. Conseguentemente guidare è diventato, al contempo, un’attività maggiormente impegnativa rispetto al passato dal momento che le strade sono diventate sempre più affollate. Spesso, stare al volante si è trasformato in un fattore di stress in grado di sostenere disturbi d’ansia diventando una situazione temuta che, per un crescente numero di persone, è in grado di generare una vera e propria fobia conosciuta come “amaxofobia”. Tale termine deriva dal termine greco antico “amaxos” che significa “carro” e designa il comportamento di rifiuto a condurre qualsiasi mezzo di trasporto.

leggi intero articolo su http://www.benessere.com/psicologia/arg00/amaxofobia.htm

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