Un’Equazione Perfetta

Un’Equazione Perfetta

Autore: Dott.ssa Lisa Ribechini

 

 

un'equazione perfetta. o quasi.-1

Abbiamo 4 anni. Siamo soli nella nostra cameretta. La mamma ci ha dato il bacio della buona notte e se n’è andata a dormire altrove, in camera col papà. La lampada del lampione che si trova per strada, davanti alla finestra della nostra cameretta, non funziona più e quel che ne risulta è un buio profondo. Non ci sono spiragli di luce o fonti di illuminazione. Se ognuno di noi prova ad immaginare una scena del genere si ricorderà che quel buio in realtà non era vuoto e che, nella maggior parte dei casi, era colmato da fantasmi e mostri immaginari, zombi e vampiri materializzatisi in camera nostra con il solo intento di rapirci per infliggerci chissà quali mali. Come tutti sappiamo quei mostri, in realtà, non esistevano: erano pure fantasie create ad arte dalla nostra mente. Ma quel che ne risultava era comunque un assoluto e infinito senso di paura. Possiamo dire che quel terrore era relativo a qualcosa che non esisteva nella realtà poiché era il frutto di una nostra cognizione sbagliata alla quale, però, noi credevamo fermamente; era in qualche modo una paura condizionata dalla nostra ingenuità. Nel mondo degli adulti quell’ingenuità innocente si chiama ignoranza e, nonostante il nome sia diverso, la conseguenza è la solita identica emozione: la paura. In questo caso i mostri possono essere persone che hanno sembianze diverse dalla nostra, magari hanno un colore di pelle, un credo religioso o un orientamento sessuale diverso. Quegli spiriti maligni nascosti nel buio della nostra mente probabilmente hanno il kippah in testa, il burka intorno alla faccia e il Corano in mano, sono un uomo che dà un bacio ad un altro uomo o un anziano malato che vive elemosinando per strada. La favola dell’uomo nero diventa realtà e bisogna averne paura, bisogna stargli “alla larga”.

Le cose che ci sfuggono, che non capiamo e che non vediamo nitidamente diventano potenziali minacce alla nostra integrità e alla nostra persona e ciò che può risultarne è un sentimento di risentimento o addirittura di odio nei confronti di quelle situazioni, o di quelle persone, che in quel momento rappresentano il pericolo.

La paura dà fuoco all’ignoranza, che a sua volta alimenta la paura, e insieme vanno a rimpinguare il calice dell’odio. Ma in questa equazione perfetta (o quasi) è opportuno analizzare ogni singola incognita!

La paura in psicologia rientra nel gruppo delle emozioni primarie, cioè quelle emozioni che sono presenti nel bambino sin dalla nascita, come gioia, sorpresa, tristezza e rabbia e questa tempestività è un indicatore della sua importanza. La paura è infatti un sistema adattivo che modula il rapporto tra l’ambiente e l’organismo favorendo la sopravvivenza di quest’ultimo poiché è un’emozione che si attiva quando i nostri sensi percepiscono uno stimolo dannoso o potenzialmente minaccioso per l’organismo (Costantini & Bartolini, 2012). La paura per la psicologia è quindi un’emozione funzionale. A questo punto è necessario però chiederci che rapporto ha questa emozione con la fobia, che invece è considerata una patologia.

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La Terapia Sistemica Relazionale

Autore: Dott.ssa Carmen Di Grazia

 

CHE COS’E’ LA PSICOTERAPIA SISTEMICA RELAZIONALE?

La psicoterapia è una pratica terapeutica, una forma di aiuto che cura attraverso il rapporto terapeutico. Il termine “psico-terapia”, viene dal greco “psiche” (anima, soffio vitale) e “therapia” (cura): in senso esteso fare psicoterapia significa prendersi cura dell’anima. Il linguaggio, la parola rappresentano uno strumento prezioso, la cura avviene attraverso la parola e il rapporto tra paziente e terapeuta. La psicoterapia ad orientamento sistemico-relazionale pone al centro del suo interesse l’individuo e le sue relazioni. Attraverso la “parola”prende avvio la narrazione, la narrazione di storie che rappresenta una dimensione inviolabile e fondamentale del pensiero umano. Da sempre l’uomo sente il bisogno di raccontare la realtà e quindi di raccontare storie, e anche di inserirsi in queste storie, diviene il protagonista di una realtà interpretata, ci racconta la propria vita. Attraverso il racconto, il soggetto ci porta una storia, la sua storia personale il suo modo unico di organizzare e dare un senso alla realtà, una realtà percepita con i nostri sensi, il proprio schema mentale, i propri pregiudizi e filtrata dalle emozioni e infine ricordata . Accade spesso che la richiesta d’aiuto avvenga in un particolare momento del ciclo vitale del soggetto, momento in cui l’individuo sperimenta una sofferenza o un blocco evolutivo.

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Film 2014: Colpa della Stelle

Film 2014: Colpa della Stelle

Autore: Dott.ssa Marzia Cikada

vedi Blog dell’Autore

 

Nel tardo inverno dei miei sedici anni mia madre ha deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa, passavo un sacco di tempo a letto, rileggevo infinite volte lo stesso libro, mangiavo molto poco e dedicavo molto del mio tempo libero a pensare alla morte.
Tra gli opuscoli che parlano di tumori o nei siti dedicati, tra gli effetti collaterali del cancro c’è sempre la depressione. In realtà la depressione non è un effetto collaterale del cancro. La depressione è un effetto collaterale del morire.
Incipit del film “Colpa delle Stelle”
 

Poster Copa delle StelleOgni decennio ha il suo film destinato a diventare un cult sul tema dell’amore e della tenerezza. Se poi si parla di amori giovani, adolescenti, la possibilità di avere successo si fa più forte, perchè è quella l’età in cui si guarda con bisogno ai sentimenti, l’età in cui si è più facilmente capaci, di riconoscersi, sentire empatia e sognare LA storia d’amore. Ma tra questi ci sono film che permettono anche di riflettere, che toccano corde fragili e che danno spazio a voci emotive, capaci di chiamare all’appello non solo i ragazzi ma anche gli adulti. Un film come“Colpa delle Stelle” (The Fault in Our Stars) del regista Josh Boone, tratto da un romanzo di successo di John Green (2012) permette di guardare oltre la sola storia d’amore, permette di credere nella speranza di vivere con emozioni positive anche momenti terribili come la malattia e il dolore di sapere vicina la morte, non solo la propria ma, soprattutto, quella di chi abbiamo a cuore, figli, amici, persone care.

I giovani attori ( Shailen Woodley e Ansel Elgort) sono molto bravi nel mettere in scena la crescita di un sentimento e la spavalderia dell’innamoramento adolescenziale, reso prematuramente maturo ma allo stesso tempo sfacciatamente tenace, dalla consapevolezza del limite, del tempo che finisce in fretta, della malattia. Per molti adulti, amare sapendo vicina la fine, è quasi impossibile, spesso si diventa complici della malattia nel togliersi la possibilità non solo di vivere ma di gioire, di provare emozioni, di sentirsi amati finché è possibile. La malattia, l’idea della morte per i giovani protagonisti è quotidiana, eppure riescono a darsi spazio, a lenire il loro male nelle loro carezze, nelle loro esperienze da ragazzi.

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La Presenza Mentale Consapevole: noi non siamo i nostri pensieri

Autore: Dott.ssa Chiara Pica

Molti dei nostri problemi derivano dal fatto che noi ci identifichiamo coi nostri pensieri. Praticamente siamo noi che permettiamo ai pensieri di spadroneggiare nella nostra mente e di fare da padroni. Siamo noi che gli lasciamo spazio. Tutto ciò che attraversa la nostra mente sarebbe destinato a passare, a scorrere come un fiume, a meno che noi fermiamo i nostri pensieri: se essi fossero liberi, passerebbero come i fotogrammi di un film, siamo noi che mettiamo “pause” e fermiamo questo film, cominciando a riempire questi fotogrammi di strutture che non gli appartengono. E da dove vengono esattamente queste sovrastrutture? In genere dai nostri copioni, che tendiamo a mettere in scena in modo totalmente automatico:

  • copioni basati sul controllo, che ci fanno sentire il bisogno di controllare ciò che la nostra mente produce nell’illusione che possiamo decidere il 100% della nostra esistenza;
  • copioni basati sulla paura, che ci fanno credere che “lasciar fluire” sia pericoloso e foriero di sventure;

in sostanza diventiamo schiavi dei nostri pensieri, lasciamo che loro decidano della nostra vita, piuttosto che la nostra più intima natura, il nostro Sé profondo, l’anima. Quello che è fondamentale è staccarsi dai pensieri, cominciando a comprendere che noi non siamo i nostri pensieri. E cosa siamo noi allora? Siamo una presenza consapevole, una presenza che, grazie al contatto con la sua essenza, sa comprendere da dove giungono i suoi pensieri, di chi sono esattamente le voci che hanno preso residenza nella sua mente, i giudizi, i preconcetti. Se esercitiamo dunque quella che in Mindfullness si definisce Presenza Mentale Consapevole, potremo comprendere che la maggior parte dei pensieri che abbiamo e che quotidianamente intasano le nostre menti non sono nostri, bensì sono virus che ci sono stati instillati da altri in fasi diverse della nostra vita: genitori, nonni, zii, insegnanti, amici, condizionamenti sociali o chiunque di significativo ci abbia influenzato.

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Chi cammina sui tuoi Sogni?

Autore: Giovanni Iacoviello

vedi Blog dell’Autore

 

 “… essendo povero, ho soltanto sogni;
E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni”

William Butler Yeats

Ci muoviamo per costruire e sviluppare la nostra attività. Qual è il motore che ci spinge: sogni, aspirazioni, attitudini? Le persone che conoscete camminano con passo leggero? O saltano irrispettosamente sopra alle vostre aspirazioni e vi danno giudizi di impraticabilità?

Passi pesanti: i dispensatori di critiche.

Si narra di un giovanissimo operaio napoletano dell’inizio del ‘900 che sognava di fare il cantante. Il suo primo maestro gli disse che non era il caso, che non era portato, e che i suoni da lui prodotti erano oltremodo sgradevoli. Eppure la madre gli disse abbracciandolo con affetto che lei credeva in lui, e che se aveva passione doveva continuare a prendere lezioni. Avrebbe cambiato maestro. Quel giovane operaio era Caruso, che sarebbe diventato uno dei maggiori cantanti lirici del suo tempo. Vista a posteriori quella madre può essere paragonata ad un ottimo coach.

Se credi che il tuo allievo sia in grado, oppure no, hai comunque ragione.

In un esperimento di psicologia sociale dell’equipe di Robert Rosenthal, ad una classe di bambini di una scuola elementare californiana fu somministrato un test d’intelligenza. Un piccolo gruppo scelto a caso, e non in base al reale esito, fu indicato agli insegnanti come quello dei più dotati. Un anno dopo questi confermarono le aspettative, rivelandosi i primi della classe. Il risultato “miracoloso” può essere spiegato grazie alle aspettative positive degli insegnanti, che credendo nelle capacità degli alunni hanno saputo stimolarli meglio degli altri. L’effetto, chiamato Pigmalione, si verificherebbe anche tra capi e dipendenti e tra genitori e figli.

I test che misurano come sappiamo fare una cosa in un dato momento, o comunque il livello di conoscenza e abilità che abbiamo in un campo attualmente, non dovrebbero essere quindi gli unici indizi di come saremo in grado di svilupparla. E se non fosse infallibile nemmeno la selezione del personale basata sul bilancio delle competenze attuali? E se facesse molta differenza nello sviluppo dei collaboratori il modo in cui questi vengono realmente trattati e formati?

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